Il vento che ha soffiato nelle vele del populismo, ha cambiato direzione?
Nelle elezioni regionali del 26 gennaio, Stefano Bonaccini ha rivendicato i successi del suo “buon governo” e ha conservato la presidenza dell'Emilia-Romagna. E il PD con il 34% dei voti ha riconquistato la pole-position in Consiglio regionale...
Tuttavia la Lega resta maggioranza in molti comuni della “regione rossa”, che ormai è politicamente “contendibile”.
Commentando una competizione elettorale che ha riguardato anche la Calabria, quasi tutti gli osservatori hanno notato che la mobilitazione delle Sardine ha risvegliato gli “anticorpi democratici” nell'Emilia-Romagna; ma anche che in Calabria le cose sono andate diversamente. In questa regione del Sud il PD ha perso la presidenza ed è restato primo partito con il 14% dei voti, dimezzando il consenso. E non può consolarsi per il fatto che la coalizione di destra è guidata da Forza Italia, non dalla Lega.
Queste elezioni regionali hanno spostato a favore dei Democratici gli equilibri nel governo Conte, ma non hanno rafforzato il governo “giallorosso”, poiché i Cinquestelle sono ovunque in caduta: perdere divide.
È fallita la spallata di Salvini, convinto di stravincere. Una propaganda fondata sulla “paura dei migranti” ha finito per diffondere “paura di Salvini”. Ma la frattura tra città e campagna, tra Nord e Sud c'è ancora, e cresce uno squilibrio economico che minaccia il lavoro.
Siamo a una svolta; sta cambiando l'orizzonte economico e politico, ma non si può pensare che si sia ormai esaurita “la spinta propulsiva” del sovranismo, espressione della protesta. Ogni forza politica deve ripensare la propria identità; il PD deve ascoltare l'invito di Prodi ad aprirsi, ma non si tratta di tornare all'Ulivo. Anche il PD deve ridarsi una appartenenza. In una fase caratterizzata dalla riscoperta della politica, per merito di un movimento, di una generazione, che ha riconquistato piazze prima dominate dall'antipolitica, anche il cattolicesimo politico deve guardare avanti e fare i conti con gli straordinari cambiamenti provocati dalla globalizzazione e dalla rivoluzione digitale.
Con la crescente competizione economica, crescono le diseguaglianze, dovrebbe crescere la solidarietà, come perno della democrazia.
Partendo da questa riflessione, non si comprende per quale ragione, sulla base del voto del 26 gennaio e dell'approssimarsi di altri decisivi appuntamenti elettorali, si dovrebbe rilanciare il bipolarismo, come se il successo di Bonaccini fosse attribuibile essenzialmente alla natura maggioritaria e presidenziale delle competizioni regionali.
Eppure è ciò che potrebbe accadere. Anche Zingaretti, nell'entusiasmo dei primi risultati, ha esclamato: “ritorna il bipolarismo”. E molti autorevoli commentatori hanno scritto, in qualche caso con rabbia: non dobbiamo ricadere nella palude del proporzionale, nell'instabilità che ha caratterizzato la Prima Repubblica.
In realtà, alla riflessione sulla importanza dei cambiamenti che stanno trasformando questo tempo, poco si adatta un sistema maggioritario che radicalizza le posizioni, che riduce lo spazio per il dialogo, che rischia di favorire il diffondersi di una democrazia illiberale, di un sovranismo che ci farebbe tornare al nazionalismo del passato, alla competizione tra nazioni europee divise e in conflitto.
Eppure alla vigilia del voto di domenica 26 gennaio , il professor Giovanni Orsina, uno dei più autorevoli commentatori di politica, ha scritto sull'Espresso (che in copertina invitava al voto) un impegnativo articolo “contro il proporzionale”, quasi a indicare nel proporzionale la debolezza strategica di una sinistra che – secondo i sondaggi – stava per perdere le elezioni. Sarebbe stato il naufragio.
È quindi giusto partire dall'Espresso, da un articolo che faceva pensare che Orsina condividesse l'obiettivo perseguito dal referendum sul maggioritario bocciato dalla Consulta, e l'obiettivo di una riforma istituzionale caratterizzata dall'“uomo forte”. Anche se Orsina non voterebbe per Salvini, né gli darebbe i “pieni poteri”. Però, riferendosi a “condizioni storiche che esigono per l'Italia un governo forte e coerente”, Orsina al fine di rendere più autorevole la sua proposta di ritorno al maggioritario come matrice del bipolarismo, cita il pensiero di un grande filosofo spagnolo, Josè Ortega. Questi nel 1930, mentre la Repubblica spagnola – tormentata da continue lotte intestine –stava precipitando verso la guerra civile, scriveva: “Si alzi un grido formidabile per chiedere un uomo che comandi”. L'uomo forte stava arrivando: era il generale Franco, “Uomo della Provvidenza” in salsa spagnola.
Il professor Orsina conosce la vita e il pensiero di Ortega: un aristocratico, liberale, eletto parlamentare alle Cortes con i socialisti. Conosce cosa pensava delle élite e delle masse, le sue convinzioni democratiche, l'importanza che dava alle circostanze che influiscono sulle idee e sui comportamenti degli uomini, sui “destini”. Si potrebbe pensare che per Ortega quel grido fosse “una provocazone”, in un tempo in cui si sentiva stretto tra bolscevichi e fascisti, e il governo democratico traballava...
Il riferimento agli Anni Trenta mi ha fatto ricordare che Ortega si trovava in una situazione personale, in una circostanza analoga a quella in cui Max Weber si era trovato nel 1919, nella Germania travolta dalla tragedia della sconfitta militare, con una generazione che tornava dalle trincee, dove si decideva con il pugnale. E lui, storico difensore del parlamentarismo, dichiara: “Se non lo scegliamo con il voto, il Presidente lo eleggono con il pugnale.”
Di quelle vicende ho già scritto e non voglio ripetermi. Debbo però ricordare, riferendomi a quel tragico passato, che mi sono chiesto: se Max Weber fosse vissuto fino agli Anni Trenta, avrebbe giustificato anche Hitler? Non è una provocazione, visto che Heidegger e Schmitt, filosofi e giuristi di straordinaria autorevolezza, hanno realmente “collaborato” con il nazismo.
Orsina conosce meglio di me quelle vicende e il pensiero di quei personaggi... E sa che il pensiero di Ortega sul fascismo, sulla sua capacità di sedurre le masse, non permette di attribuirgli interpretazioni sul “governo forte” che ne stravolgano la coerenza liberale e democratica.
I miei timori, quando faccio riferimento al passato, sono che se la democrazia dei partiti degenera in partitocrazia, la democrazia dell'uomo forte degeneri in dittatura. Questo mi fa temere la storia.
D'altra parte, molte critiche al proporzionale potrebbero essere rivolte al maggioritario, alle riforme elettorali di cui abbiamo fatto esperienza, alla democrazia, alla politica. Le leggi elettorali condizionano la politica, ma non sono tutta la politica. E il bipolarismo determinato (o manipolato) dalle leggi elettorali, che si conclude con un parlamento di nominati, non è il solo bipolarismo possibile.
In questi giorni Dario Franceschini ha ricordato, in una intervista a “Repubblica”, che era bipolare, nel 1948-1953, anche la competizione politica ed elettorale tra DC e PCI, tra il centrismo e il frontismo. Quel bipolarismo, rispettoso del pluralismo ma durissimo, non escludeva i partiti minori dalla competizione, dalla presenza in Parlamento. Quel proporzionale aveva limiti che la DC cercò di correggere. Quella politica ha comunque permesso il confronto tra avversari storici, nel tempo della “guerra fredda”; ha favorito l'evolversi delle alleanze politiche, ha accompagnato la straordinaria crescita economica e la profonda trasformazione sociale dell'Italia, permettendo al Paese di superare momenti di gravi difficoltà economiche, sociali e politiche. D'altra parte, non si può immaginare che, in questo Parlamento, in questa situazione, i parlamentari “grillini” possano condividere la strada del maggioritario.
Le mie critiche vanno al bipolarismo imposto da leggi che “manipolano” lo svolgimento e l'esito delle elezioni, vanno alle leggi che rendono una finzione la centralità del Parlamento e permettono a una maggioranza relativa di stravolgere la Costituzione.
Riferendomi alla nascita della Seconda Repubblica, alle leggi tendenzialmente maggioritarie che ne hanno accompagnato il declino, alla personalizzazione della politica di cui il presidenzialismo è il punto di approdo, ho scritto in passato di “'inganno del bipolarismo”. Quella rimane la mia convinzione, la mia provocazione.
Nelle elezioni regionali del 26 gennaio, Stefano Bonaccini ha rivendicato i successi del suo “buon governo” e ha conservato la presidenza dell'Emilia-Romagna. E il PD con il 34% dei voti ha riconquistato la pole-position in Consiglio regionale...
Tuttavia la Lega resta maggioranza in molti comuni della “regione rossa”, che ormai è politicamente “contendibile”.
Commentando una competizione elettorale che ha riguardato anche la Calabria, quasi tutti gli osservatori hanno notato che la mobilitazione delle Sardine ha risvegliato gli “anticorpi democratici” nell'Emilia-Romagna; ma anche che in Calabria le cose sono andate diversamente. In questa regione del Sud il PD ha perso la presidenza ed è restato primo partito con il 14% dei voti, dimezzando il consenso. E non può consolarsi per il fatto che la coalizione di destra è guidata da Forza Italia, non dalla Lega.
Queste elezioni regionali hanno spostato a favore dei Democratici gli equilibri nel governo Conte, ma non hanno rafforzato il governo “giallorosso”, poiché i Cinquestelle sono ovunque in caduta: perdere divide.
È fallita la spallata di Salvini, convinto di stravincere. Una propaganda fondata sulla “paura dei migranti” ha finito per diffondere “paura di Salvini”. Ma la frattura tra città e campagna, tra Nord e Sud c'è ancora, e cresce uno squilibrio economico che minaccia il lavoro.
Siamo a una svolta; sta cambiando l'orizzonte economico e politico, ma non si può pensare che si sia ormai esaurita “la spinta propulsiva” del sovranismo, espressione della protesta. Ogni forza politica deve ripensare la propria identità; il PD deve ascoltare l'invito di Prodi ad aprirsi, ma non si tratta di tornare all'Ulivo. Anche il PD deve ridarsi una appartenenza. In una fase caratterizzata dalla riscoperta della politica, per merito di un movimento, di una generazione, che ha riconquistato piazze prima dominate dall'antipolitica, anche il cattolicesimo politico deve guardare avanti e fare i conti con gli straordinari cambiamenti provocati dalla globalizzazione e dalla rivoluzione digitale.
Con la crescente competizione economica, crescono le diseguaglianze, dovrebbe crescere la solidarietà, come perno della democrazia.
Partendo da questa riflessione, non si comprende per quale ragione, sulla base del voto del 26 gennaio e dell'approssimarsi di altri decisivi appuntamenti elettorali, si dovrebbe rilanciare il bipolarismo, come se il successo di Bonaccini fosse attribuibile essenzialmente alla natura maggioritaria e presidenziale delle competizioni regionali.
Eppure è ciò che potrebbe accadere. Anche Zingaretti, nell'entusiasmo dei primi risultati, ha esclamato: “ritorna il bipolarismo”. E molti autorevoli commentatori hanno scritto, in qualche caso con rabbia: non dobbiamo ricadere nella palude del proporzionale, nell'instabilità che ha caratterizzato la Prima Repubblica.
In realtà, alla riflessione sulla importanza dei cambiamenti che stanno trasformando questo tempo, poco si adatta un sistema maggioritario che radicalizza le posizioni, che riduce lo spazio per il dialogo, che rischia di favorire il diffondersi di una democrazia illiberale, di un sovranismo che ci farebbe tornare al nazionalismo del passato, alla competizione tra nazioni europee divise e in conflitto.
Eppure alla vigilia del voto di domenica 26 gennaio , il professor Giovanni Orsina, uno dei più autorevoli commentatori di politica, ha scritto sull'Espresso (che in copertina invitava al voto) un impegnativo articolo “contro il proporzionale”, quasi a indicare nel proporzionale la debolezza strategica di una sinistra che – secondo i sondaggi – stava per perdere le elezioni. Sarebbe stato il naufragio.
È quindi giusto partire dall'Espresso, da un articolo che faceva pensare che Orsina condividesse l'obiettivo perseguito dal referendum sul maggioritario bocciato dalla Consulta, e l'obiettivo di una riforma istituzionale caratterizzata dall'“uomo forte”. Anche se Orsina non voterebbe per Salvini, né gli darebbe i “pieni poteri”. Però, riferendosi a “condizioni storiche che esigono per l'Italia un governo forte e coerente”, Orsina al fine di rendere più autorevole la sua proposta di ritorno al maggioritario come matrice del bipolarismo, cita il pensiero di un grande filosofo spagnolo, Josè Ortega. Questi nel 1930, mentre la Repubblica spagnola – tormentata da continue lotte intestine –stava precipitando verso la guerra civile, scriveva: “Si alzi un grido formidabile per chiedere un uomo che comandi”. L'uomo forte stava arrivando: era il generale Franco, “Uomo della Provvidenza” in salsa spagnola.
Il professor Orsina conosce la vita e il pensiero di Ortega: un aristocratico, liberale, eletto parlamentare alle Cortes con i socialisti. Conosce cosa pensava delle élite e delle masse, le sue convinzioni democratiche, l'importanza che dava alle circostanze che influiscono sulle idee e sui comportamenti degli uomini, sui “destini”. Si potrebbe pensare che per Ortega quel grido fosse “una provocazone”, in un tempo in cui si sentiva stretto tra bolscevichi e fascisti, e il governo democratico traballava...
Il riferimento agli Anni Trenta mi ha fatto ricordare che Ortega si trovava in una situazione personale, in una circostanza analoga a quella in cui Max Weber si era trovato nel 1919, nella Germania travolta dalla tragedia della sconfitta militare, con una generazione che tornava dalle trincee, dove si decideva con il pugnale. E lui, storico difensore del parlamentarismo, dichiara: “Se non lo scegliamo con il voto, il Presidente lo eleggono con il pugnale.”
Di quelle vicende ho già scritto e non voglio ripetermi. Debbo però ricordare, riferendomi a quel tragico passato, che mi sono chiesto: se Max Weber fosse vissuto fino agli Anni Trenta, avrebbe giustificato anche Hitler? Non è una provocazione, visto che Heidegger e Schmitt, filosofi e giuristi di straordinaria autorevolezza, hanno realmente “collaborato” con il nazismo.
Orsina conosce meglio di me quelle vicende e il pensiero di quei personaggi... E sa che il pensiero di Ortega sul fascismo, sulla sua capacità di sedurre le masse, non permette di attribuirgli interpretazioni sul “governo forte” che ne stravolgano la coerenza liberale e democratica.
I miei timori, quando faccio riferimento al passato, sono che se la democrazia dei partiti degenera in partitocrazia, la democrazia dell'uomo forte degeneri in dittatura. Questo mi fa temere la storia.
D'altra parte, molte critiche al proporzionale potrebbero essere rivolte al maggioritario, alle riforme elettorali di cui abbiamo fatto esperienza, alla democrazia, alla politica. Le leggi elettorali condizionano la politica, ma non sono tutta la politica. E il bipolarismo determinato (o manipolato) dalle leggi elettorali, che si conclude con un parlamento di nominati, non è il solo bipolarismo possibile.
In questi giorni Dario Franceschini ha ricordato, in una intervista a “Repubblica”, che era bipolare, nel 1948-1953, anche la competizione politica ed elettorale tra DC e PCI, tra il centrismo e il frontismo. Quel bipolarismo, rispettoso del pluralismo ma durissimo, non escludeva i partiti minori dalla competizione, dalla presenza in Parlamento. Quel proporzionale aveva limiti che la DC cercò di correggere. Quella politica ha comunque permesso il confronto tra avversari storici, nel tempo della “guerra fredda”; ha favorito l'evolversi delle alleanze politiche, ha accompagnato la straordinaria crescita economica e la profonda trasformazione sociale dell'Italia, permettendo al Paese di superare momenti di gravi difficoltà economiche, sociali e politiche. D'altra parte, non si può immaginare che, in questo Parlamento, in questa situazione, i parlamentari “grillini” possano condividere la strada del maggioritario.
Le mie critiche vanno al bipolarismo imposto da leggi che “manipolano” lo svolgimento e l'esito delle elezioni, vanno alle leggi che rendono una finzione la centralità del Parlamento e permettono a una maggioranza relativa di stravolgere la Costituzione.
Riferendomi alla nascita della Seconda Repubblica, alle leggi tendenzialmente maggioritarie che ne hanno accompagnato il declino, alla personalizzazione della politica di cui il presidenzialismo è il punto di approdo, ho scritto in passato di “'inganno del bipolarismo”. Quella rimane la mia convinzione, la mia provocazione.
Ottimo. E da condividere, come sempre. Bodrato resta uno dei pochi che non cede alle sirene di una governabilità creata artificialmente, accantonando le culture politiche minoritarie e obbligando le forze minori a trovare protezione sotto bandiere altrui, anzichè favorire coalizioni omogenee e rispettose del pluralismo
Grazie Guido. Posso aggiungere che i maggioritari non favoriscono la crescita di una “classe politica” capace.
Trovare i voti nei metodi dei maggioritari non fa scendere in confronto i candidati, ma anzi li condanna alla mediocrità dell'”aderente”. Il maggioritario rende il parlamento debole dalle sue radici. Ora i tempi non sono più scanditi dalle campane o dalle sirene, la gestione del lavoro è faticosamente individuale e “precario”, ma non per scelta “politica” bensì per la sua natura “frammentata” fino a non riconoscere lavoro aggregato e con tempi diversi e spesso ansiogeni, con competitività individuali. In tempi così almeno la politica delle istituzioni sia riferimento sociale di riferimento per confronti e soluzioni vissute con la capacità di solidarietà, rinunce e battaglie aggreganti e non falsamente tenute insieme da interessi fuori dalle competenze di “politico”, come solo il voto proporzionale riesce a garantire, con i suoi difetti e pregi, ma dove il potere non è teleguidato, ma è conquistato sul campo di competenze e scelte che sono nella società e nel parlamento.
Grazie infinite Guido,
come sempre le tue lucidissime riflessioni ci ricordano
che l’essenza del “popolarismo sturziano, degasperiano e moroteo”,
cioè che il pensiero politico inteso come “domande della società”
a cui devono rispondere i protagonisti della politica, è il
grande assente della “terza fase” della nostra vita repubblicana!
Ciò che mi preoccupa da sempre, ne abbiamo parlato più volte,
è il pensiero martinazzoliano (e di De Rosa) circa l’afasia dei
cosiddetti popolari vari e trasversali: tutti lo citano nessuno lo ha letto (Sturzo e il “popolarismo”).
Ora in questo tempo “sovranista e populista” non riusciranno, “le nuove generazioni” a “governare il futuro” se non riprenderanno a “pensare politicamente”, ripartendo dalla lettura (e comprensione) di Sturzo, De Gasperi e Moro (aggiungerei anche i “dossettiani”).
P.S. Se il manifesto di rinascita dei popolari lo lasciamo scrivere a un prode sociologo e non ad un politico con la P maiuscola che abbia letto e capito gli autori di cui sopra, non si andrà da nessuna parte!!!
Scusami per la solita franchezza e per lo sfogo.
Maurizio Trinchitella Vercelli
Socio fondatore dei popolari piemontesi a Biella nello studio del Notaio Tavolaccini
Condivido pienamente la lezione di storia dell’amico Bodrato. Il proporzionale è il metodo migliore per evitare spiacevoli sorprese da parte di vincitori che rappresentano solo una parte minoritaria dei cittadini. Ritengo però che che qualche esclusione di partiti con percentuali irrisorie vada fatta per evitare complicazioni eccessive nella gestione politica globale. L’esclusione di partiti con percentuali irrisorie deve però assicurare in Parlamento un numero adeguato di formazioni minoritarie che possano attenuare le tendenze assolutistiche dei partiti vincenti.