1. Con il lavoro (se il lavoro è dignitoso e realizza la sua autonomia personale, punto essenziale della sua dignità), l’essere umano partecipa allo sviluppo economico, sociale e culturale dell’umanità; dà prova dei propri talenti. Il lavoro è fattore primario dell’attività economica e chiave di tutta la questione sociale e non deve essere inteso soltanto per le sue ricadute oggettive e materiali, bensì per la sua dimensione soggettiva, in quanto attività che permette l’espressione della persona e costituisce quindi elemento essenziale dell’identità personale e sociale della donna e dell’uomo.
Papa Francesco quasi quotidianamente sottolinea che nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita; che il lavoro è qualcosa di più che guadagnarsi il pane. Il lavoro dà la dignità e che non si dica “chi non lavora non mangia”, ma “chi non lavora ha perso la dignità!”. Chi lavora è degno; ha una dignità speciale; una dignità di persona: l’uomo e la donna che lavorano sono degni e il lavoro appare, non come effetto di un calcolo economico utilitaristico riguardante l’impiego ottimale del tempo a disposizione (che è l’approccio, ad esempio, della teoria economica neoclassica), ma come espressione della creatività e della realizzazione della persona, permettendone l’integrale sviluppo. Per questo, il lavoro non è un dono concesso a pochi raccomandati; è un diritto per tutti!
Il lavoro non è necessario solo per l’economia, ma per la persona umana, per la sua dignità, per la sua cittadinanza e anche per l’inclusione sociale. Tutto questo porta alla presa di coscienza che, mentre in passato era considerato “povero” chi non poteva accedere a livelli decenti di consumo, oggi “povero” è, oltre a chi si trova nella situazione precedente, anche chi è lasciato o tenuto fuori dai circuiti di produzione di beni (e quindi è costretto all’irrilevanza economica) o vi è inserito con un lavoro non dignitoso (e quindi è costretto all’irrilevanza umana); per essi è invalso l’uso del termine working poor.
In effetti, un modo necessario per eliminare la povertà è che venga assicurato un lavoro a tutti; non è però sufficiente, poiché il lavoro assicurato a tutti dev’essere dignitoso per tutti. La persona che non ha un “lavoro dignitoso” continua a essere “povero”, che è concetto più ampio rispetto a essere in stato di deprivazione materiale: una persona che ha accesso a un lavoro che non è “dignitoso” è “povero” anche se può, col suo lavoro, essere non in stato di deprivazione materiale. Esiste poi la povertà non di tipo economico: la solitudine, la povertà di relazioni interpersonali, la povertà di spirito comunitario, la bassa qualità della convivenza collettiva, la povertà culturale, la povertà spirituale ecc. Perciò un lavoratore può essere “povero” per via di un salario troppo basso per la sussistenza propria e della sua famiglia (anche se lavora a tempo pieno e, a maggior ragione, se ha un lavoro a tempo parziale) oppure soffre di deprivazione non economica. Di fatto, tenendo conto di tutte le sfaccettature sopraddette che la povertà può assumere, si può anche pensare che la povertà non sia mai annullabile completamente.
Le parole precedenti ripropongono il tema di una vera cultura del lavoro, che non può realizzarsi se non a séguito di un comune sforzo educativo che aiuti i giovani e i non giovani a capire tutte le dimensioni del lavoro. La dimensione non solo oggettiva, ma anche la dimensione soggettiva, che non può non essere sociale, oltre che individuale. Il lavoro come occasione di formazione e di sviluppo personale; il valore del lavoro che dipende soprattutto dalla persona che vive il lavoro, ma che dipende anche da un corretto sviluppo del lavoro e da una chiara visione dei lavori, dei diversi tipi di lavoro compresi nella loro essenza, e non semplicemente nei loro aspetti superficiali e alla moda.
Ad ogni modo, la persona umana è l’obiettivo finale (l’assoluto etico) rispetto al quale il lavoro è l’obiettivo intermedio principale, anche se non di solo lavoro vive l’uomo. Dai contenuti di diversi documenti della Dottrina sociale della Chiesa possiamo creare la seguente sequenza etica del lavoro: il lavoro è un bene dell’uomo, per l’uomo e per la comunità; l’uomo ha il primato sul lavoro, perché il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro e per l’economia; il lavoro ha il primato sul capitale e non il lavoro è al servizio del capitale; in prima sintesi, la fabbrica (lavoro e capitale) è per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica.
Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e per lo sviluppo della società e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell’umana dignità e al servizio del Bene Comune. Così dicendo, si dà al lavoro, all’attività produttiva, all’economia un’impostazione antropologica; se così non fosse, si finirebbe per trattare il lavoro quale semplice “forza lavoro”, alla stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, di qualsiasi altra fonte di energia.
Il lavoro fa parte della vita, ma non è la vita dell’uomo. Oggi, soprattutto nei paesi altamente sviluppati, ci sono molte persone che sembrano vivere solo per il lavoro, dal quale dipendono pressoché totalmente. È il lavoro che dice agli altri chi è la persona stessa; è il lavoro che crea le gerarchie sociali. Eppure la donna e l’uomo si realizzano certamente nel lavoro espletato, ma non in modo esclusivo: la persona è sempre più del lavoro in cui si esprime.
2. - Ho voluto sottolineare la natura di obiettivo intermedio del lavoro anche perché sovente si sente dire che quella certa iniziativa è positiva perché crea occupazione (che una certa opera pubblica ha da farsi perché crea occupazione; addirittura sentir dire – con un accento di positività – che la produzione di foglia di coca e la sua lavorazione in pasta di coca e in polvere di cocaina dà lavoro a migliaia di persone nell’Amazzonia o sottolineare, con un che di compiacimento, che la liberalizzazione della produzione e della commercializzazione di cannabis sativa nello Stato statunitense del Colorado ha fatto aumentare in modo significativo occupazione e prodotto interno lordo dello Stato o che la progettazione, produzione e manutenzione di una certa arma dà lavoro a migliaia di persone!) senza avvertire la necessità di scendere in profondità: lavorare è premessa per avere la produzione di “cose”, ma occorre che queste cose siano “cose buone”, siano “beni”. Non ci si può fermare all’attività produttiva, al flusso di reddito che il lavorare apporta al lavoratore e alla sua famiglia, alla stessa realizzazione della personalità del lavoratore. Come nella finanza etica si distingue fra “finanza buona” e quella non buona perché finanzia attività ritenute incompatibili con principi eticamente condivisi – come la produzione e il commercio di armi, forme di produzione e di gestione che non rispettino la giustizia sociale, non rispettose del valore della vita umana, della salute delle persone o dell’ambiente naturale, e quindi fondate sullo sfruttamento, diretto o indiretto, del lavoro e delle risorse naturali, nelle economie più ricche così come nelle economie più povere, o che mirano a sostenere regimi politici dittatoriali o razzistici – così non è sufficiente lavorare, ma è necessario che da quest’attività sgorghino “cose buone”. Altrimenti, il lavoro non compie la sua missione, che consiste nel mettere a disposizione della propria comunità “beni” e non semplicemente “cose” o nel produrre beni per metterli a disposizione di altri, esportandoli, per dare agli altri questi beni di cui essi abbisognano o per avere dagli altri beni che s’importano in cambio.
L’umanità ha così tanto bisogno di avere beni eccellenti – in presenza di risorse scarse – che è un non senso che così tanti lavoratori producano così tante “cose” con bassa o nulla bontà o che sono dei mali. Il fatto che queste cose abbiano persone disposte a pagare per averle non è motivo eticamente sufficiente per produrle.
In altre parole, anche nei confronti del lavoro occorre applicare l’analisi sull’eticità del suo risultato, per cui il lavoro costituisce un obiettivo intermedio per il raggiungimento dell’obiettivo finale della disponibilità di beni materiali e immateriali, la creazione di beni relazionali e la realizzazione della propria persona,
San Giovanni Paolo II e Papa Francesco hanno sottolineato la forte critica al consumismo, che porta a produrre beni di forte rilevanza individuale, ma con scarsa rilevanza sociale, alla distruzione di risorse naturali, a inquinamenti derivanti dalla loro produzione e dallo smaltimento dei rifiuti, quando altrove v’è grande carenza di beni di primaria necessità. V’è bisogno di “consumatori socialmente responsabili”, che facciano da pendant alle “imprese socialmente responsabili”; gli uni e le altre accomunati dall’agire, pensando, non solo al benessere personale, ma anche al bene della comunità, nella sua configurazione del Bene Comune.
3. - Occorre richiamare anche un altro aspetto del lavoro. Esso si realizza normalmente in un ambiente sociale, in contatto e/o in collaborazione con altri lavoratori e con altri soggetti economici. È allora necessario che i lavoratori siano coinvolti nella gestione, in toto o compartecipata, dell’impresa che concorrono a formare. Che operi cioè il modello partecipativo nella forma di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale normale e alle scelte strategiche dell’impresa e anche ai risultati economici della gestione stessa: una compartecipazione che permetta ai lavoratori di essere e sentirsi coinvolti appieno nella comunità produttiva di cui sono parte. Non meri esecutori di scelte altrui, come se fossero soggetti inermi – e neanche ovviamente il falso strumento partecipativo dato dalle cosiddette “associazioni in partecipazione”; contratto alla luce del quale i lavoratori sono “associati” all’impresa, fingendo di apportare capitale umano (anziché finanziario), ma non partecipando in alcun modo alla definizione dei processi decisionali d’impresa ordinari e strategici – ma attori responsabili all’interno della comunità produttiva che si chiama impresa, e da ciò non potranno non discendere anche rilevanti miglioramenti nell’impegno dei lavoratori, e quindi anche nei risultati economici dell’impresa stessa.
Infatti, le possibilità di sviluppo di ogni lavoratore e i risultati del lavoro sono tanto migliori quanto più ha modo di esprimersi l’intelligenza di chi lavora, quanto più è apprezzata e stimolata (e non, invece, osteggiata) la sua intraprendenza, quanto più ampia è la libertà di conseguire obiettivi condivisi. La condivisione è essenziale perché, quando lavorano, l’uomo e la donna svolgono due tipi di azione: una di tipo transitivo, poiché l’agente cambia la realtà in cui vive, ma anche una di tipo immanente, poiché l’agente cambia se stesso. Così facendo, il lavoratore riesce a realizzare le condizioni per un’autentica libertà del lavoro, poiché riesce a realizzare la sua espressione creativa che arreca al lavoratore la soddisfazione diretta dell’essere padrone di se stesso. Se vien meno questo cambiamento, espressione della realizzazione della propria persona, il lavoratore – inserito in un luogo di lavoro in cui egli non è altro che uno dei tanti input trasformati, secondo certe regole prefissate, in output, e non un luogo in cui si forma e si trasforma il suo carattere – non comprende il senso di ciò che sta facendo e il lavoro diventa schiavitù (mancanza completa di possibilità di operare per realizzare, creandolo lui stesso, il proprio disegno di vita) e la persona può essere sostituita con una macchina.
Ma il lavoro dell’agente influisce anche sugli altri, sulla società; fra l’altro, quest’influire sugli altri è la causa di fondo che porta all’ottenimento di una contropartita, che è la remunerazione che il lavoratore percepisce da altri singoli soggetti o dalla società, cioè dagli organismi pubblici che istituzionalizzano quest’ultima. È allora assai rilevante che vi sia condivisione negli obiettivi che hanno il lavoratore e gli altri soggetti soggetti individuali o collettivi. Questi altri sono i diversi soggetti interni ed esterni all’ambiente di lavoro e la presenza dei soggetti interni porta all’esigenza imprescindibile di trasparenza, dialogo e condivisione e di creare e mantenere relazioni corrette con i diversi soggetti coinvolti nelle attività dell’unità produttiva, quindi tanto più quanto più partecipativo è l’ambiente di lavoro. La compartecipazione stimola e promuove iniziativa, creatività, innovazione e un senso di responsabilità condivisa, un punto importante anche per la piena partecipazione dei lavoratori nella società, come cittadini a pieno titolo, con tutti i diritti e i doveri.
4. - In conclusione, il lavoro ha da essere libero, dignitoso, creativo, partecipativo, solidale affinché crei vera inclusione sociale. Conseguentemente, il mercato del lavoro, per essere considerato efficiente (non certo, come taluni ritengono, nel senso di essere organizzato in modo tale da mettere, a disposizione delle imprese, forza lavoro con elevata produttività, basso costo per unità di lavoro ed elevata mobilità funzionale, settoriale e territoriale (questo semmai è il concetto di efficienza che interessa il lato della domanda di lavoro, il lato del padrone dell’impresa), bensì dev’essere in grado di permettere ad ogni persona in età lavorativa di poter soddisfare i propri bisogni e di realizzare la propria persona attraverso l’espletamento di un’attività lavorativa, in un contesto in cui questa può essere trovata in tempi rapidi e viene svolta al meglio della capacità lavorativa e produttiva del lavoratore. Il mercato del lavoro efficiente può realizzarsi quindi quando esso è ampio (cioè in grado di offrire possibilità di lavoro, in misura adeguata, alla popolazione presente in età lavorativa); qualificato e qualificante (nel quale sia possibile per tutti arricchire le proprie capacità professionali e, allo stesso tempo, siano valorizzati i talenti, la creatività e il capitale umano presenti); accessibile e accogliente (cioè in grado di offrire opportunità di lavoro a soggetti con caratteristiche sociali e professionali assai differenziate; con capacità, esigenze e vincoli eterogenei; con particolare riguardo alle esigenze e ai vincoli relativi alla conciliazione del lavoro con la famiglia); fluido e flessibile (nel quale sia possibile, senza penalizzazioni improprie, la mobilità aziendale, professionale e territoriale).
Per creare un mercato del lavoro efficiente non sono sufficienti tradizionali politiche dell’occupazione; occorrono specifiche politiche attive del lavoro, le quali mirano a permettere ad ogni persona un accesso rapido ed equiprobabile ai posti di lavoro vacanti, cercando di creare le condizioni affinché il diritto al lavoro di ogni persona venga reso possibile. Esse si caratterizzano per voler direttamente incidere sulla struttura del mercato del lavoro; favorire l’adeguamento delle caratteristiche di coloro che aspirano a un’occupazione alle esigenze della domanda di lavoro; creare possibilità occupazionali attraverso una diversa organizzazione del mercato del lavoro.
Quale politica attiva allora, se non quell’insieme di azioni che forniscono ai lavoratori in difficoltà un supporto di informazioni e i più adeguati strumenti rivolti alla formazione e alla valorizzazione delle risorse umane, per accrescere le possibilità di successo nella ricerca dell’occupazione nonché specifiche misure a favore delle categorie deboli del mercato del lavoro (giovani, donne, persone disabili)? Queste misure dovrebbero essere finalizzate alla creazione diretta di occupazione per queste categorie di persone, tramite riserva di posti di lavoro nel settore privato imposte per legge, sovvenzioni a imprese private per l’assunzione di persone appartenenti a queste categorie deboli, creazione diretta di posti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche riservati a queste categorie, titoli di merito riconosciuti, nelle gare d’appalto pubblico, alle imprese che – oltre che dimostrare responsabilità fiscale e ambientale e si realizzino perseguendo fini diversi dalla mera massimizzazione del profitto e applichino norme di lavoro pienamente in regola con il principio del “lavoro dignitoso”, quindi anche inclusive, non discriminatorie e con elevato valore etico sul piano dei rapporti personali interni così come sul piano della distribuzione del reddito prodotto e della crescita sociale dei suoi membri nonché sul piano dei rapporti di reciprocità e di rete con l’esterno – abbiano significative presenze di lavoratori disabili e svantaggiati, in generale.
In effetti, si dice che innovazione e globalizzazione hanno portato a una frattura fra sviluppo e occupazione. Si tratta di una falsa frattura. In realtà, hanno portato a una frattura fra sviluppo e qualsivoglia occupazione. Le politiche attive del lavoro hanno come missione di ricomporre questa frattura per poter includere nel mondo del lavoro le persone deboli del mercato del lavoro. Inoltre, esse non puntano tanto alla creazione di posti di lavoro, ma piuttosto di occasioni lavorative, e cercano di far realizzare il diritto al lavoro più che il posto di lavoro. Prendono in considerazione, non soltanto l’accesso al tipico lavoro dipendente, ma anche combinazioni fra lavoro dipendente e lavoro autonomo (singolo o associato) e contemplano anche la possibilità di permettere diverse esperienze lavorative e ampia mobilità intraoccupazionale.
Papa Francesco quasi quotidianamente sottolinea che nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere umano esprime e accresce la dignità della propria vita; che il lavoro è qualcosa di più che guadagnarsi il pane. Il lavoro dà la dignità e che non si dica “chi non lavora non mangia”, ma “chi non lavora ha perso la dignità!”. Chi lavora è degno; ha una dignità speciale; una dignità di persona: l’uomo e la donna che lavorano sono degni e il lavoro appare, non come effetto di un calcolo economico utilitaristico riguardante l’impiego ottimale del tempo a disposizione (che è l’approccio, ad esempio, della teoria economica neoclassica), ma come espressione della creatività e della realizzazione della persona, permettendone l’integrale sviluppo. Per questo, il lavoro non è un dono concesso a pochi raccomandati; è un diritto per tutti!
Il lavoro non è necessario solo per l’economia, ma per la persona umana, per la sua dignità, per la sua cittadinanza e anche per l’inclusione sociale. Tutto questo porta alla presa di coscienza che, mentre in passato era considerato “povero” chi non poteva accedere a livelli decenti di consumo, oggi “povero” è, oltre a chi si trova nella situazione precedente, anche chi è lasciato o tenuto fuori dai circuiti di produzione di beni (e quindi è costretto all’irrilevanza economica) o vi è inserito con un lavoro non dignitoso (e quindi è costretto all’irrilevanza umana); per essi è invalso l’uso del termine working poor.
In effetti, un modo necessario per eliminare la povertà è che venga assicurato un lavoro a tutti; non è però sufficiente, poiché il lavoro assicurato a tutti dev’essere dignitoso per tutti. La persona che non ha un “lavoro dignitoso” continua a essere “povero”, che è concetto più ampio rispetto a essere in stato di deprivazione materiale: una persona che ha accesso a un lavoro che non è “dignitoso” è “povero” anche se può, col suo lavoro, essere non in stato di deprivazione materiale. Esiste poi la povertà non di tipo economico: la solitudine, la povertà di relazioni interpersonali, la povertà di spirito comunitario, la bassa qualità della convivenza collettiva, la povertà culturale, la povertà spirituale ecc. Perciò un lavoratore può essere “povero” per via di un salario troppo basso per la sussistenza propria e della sua famiglia (anche se lavora a tempo pieno e, a maggior ragione, se ha un lavoro a tempo parziale) oppure soffre di deprivazione non economica. Di fatto, tenendo conto di tutte le sfaccettature sopraddette che la povertà può assumere, si può anche pensare che la povertà non sia mai annullabile completamente.
Le parole precedenti ripropongono il tema di una vera cultura del lavoro, che non può realizzarsi se non a séguito di un comune sforzo educativo che aiuti i giovani e i non giovani a capire tutte le dimensioni del lavoro. La dimensione non solo oggettiva, ma anche la dimensione soggettiva, che non può non essere sociale, oltre che individuale. Il lavoro come occasione di formazione e di sviluppo personale; il valore del lavoro che dipende soprattutto dalla persona che vive il lavoro, ma che dipende anche da un corretto sviluppo del lavoro e da una chiara visione dei lavori, dei diversi tipi di lavoro compresi nella loro essenza, e non semplicemente nei loro aspetti superficiali e alla moda.
Ad ogni modo, la persona umana è l’obiettivo finale (l’assoluto etico) rispetto al quale il lavoro è l’obiettivo intermedio principale, anche se non di solo lavoro vive l’uomo. Dai contenuti di diversi documenti della Dottrina sociale della Chiesa possiamo creare la seguente sequenza etica del lavoro: il lavoro è un bene dell’uomo, per l’uomo e per la comunità; l’uomo ha il primato sul lavoro, perché il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro e per l’economia; il lavoro ha il primato sul capitale e non il lavoro è al servizio del capitale; in prima sintesi, la fabbrica (lavoro e capitale) è per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica.
Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e per lo sviluppo della società e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell’umana dignità e al servizio del Bene Comune. Così dicendo, si dà al lavoro, all’attività produttiva, all’economia un’impostazione antropologica; se così non fosse, si finirebbe per trattare il lavoro quale semplice “forza lavoro”, alla stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, di qualsiasi altra fonte di energia.
Il lavoro fa parte della vita, ma non è la vita dell’uomo. Oggi, soprattutto nei paesi altamente sviluppati, ci sono molte persone che sembrano vivere solo per il lavoro, dal quale dipendono pressoché totalmente. È il lavoro che dice agli altri chi è la persona stessa; è il lavoro che crea le gerarchie sociali. Eppure la donna e l’uomo si realizzano certamente nel lavoro espletato, ma non in modo esclusivo: la persona è sempre più del lavoro in cui si esprime.
2. - Ho voluto sottolineare la natura di obiettivo intermedio del lavoro anche perché sovente si sente dire che quella certa iniziativa è positiva perché crea occupazione (che una certa opera pubblica ha da farsi perché crea occupazione; addirittura sentir dire – con un accento di positività – che la produzione di foglia di coca e la sua lavorazione in pasta di coca e in polvere di cocaina dà lavoro a migliaia di persone nell’Amazzonia o sottolineare, con un che di compiacimento, che la liberalizzazione della produzione e della commercializzazione di cannabis sativa nello Stato statunitense del Colorado ha fatto aumentare in modo significativo occupazione e prodotto interno lordo dello Stato o che la progettazione, produzione e manutenzione di una certa arma dà lavoro a migliaia di persone!) senza avvertire la necessità di scendere in profondità: lavorare è premessa per avere la produzione di “cose”, ma occorre che queste cose siano “cose buone”, siano “beni”. Non ci si può fermare all’attività produttiva, al flusso di reddito che il lavorare apporta al lavoratore e alla sua famiglia, alla stessa realizzazione della personalità del lavoratore. Come nella finanza etica si distingue fra “finanza buona” e quella non buona perché finanzia attività ritenute incompatibili con principi eticamente condivisi – come la produzione e il commercio di armi, forme di produzione e di gestione che non rispettino la giustizia sociale, non rispettose del valore della vita umana, della salute delle persone o dell’ambiente naturale, e quindi fondate sullo sfruttamento, diretto o indiretto, del lavoro e delle risorse naturali, nelle economie più ricche così come nelle economie più povere, o che mirano a sostenere regimi politici dittatoriali o razzistici – così non è sufficiente lavorare, ma è necessario che da quest’attività sgorghino “cose buone”. Altrimenti, il lavoro non compie la sua missione, che consiste nel mettere a disposizione della propria comunità “beni” e non semplicemente “cose” o nel produrre beni per metterli a disposizione di altri, esportandoli, per dare agli altri questi beni di cui essi abbisognano o per avere dagli altri beni che s’importano in cambio.
L’umanità ha così tanto bisogno di avere beni eccellenti – in presenza di risorse scarse – che è un non senso che così tanti lavoratori producano così tante “cose” con bassa o nulla bontà o che sono dei mali. Il fatto che queste cose abbiano persone disposte a pagare per averle non è motivo eticamente sufficiente per produrle.
In altre parole, anche nei confronti del lavoro occorre applicare l’analisi sull’eticità del suo risultato, per cui il lavoro costituisce un obiettivo intermedio per il raggiungimento dell’obiettivo finale della disponibilità di beni materiali e immateriali, la creazione di beni relazionali e la realizzazione della propria persona,
San Giovanni Paolo II e Papa Francesco hanno sottolineato la forte critica al consumismo, che porta a produrre beni di forte rilevanza individuale, ma con scarsa rilevanza sociale, alla distruzione di risorse naturali, a inquinamenti derivanti dalla loro produzione e dallo smaltimento dei rifiuti, quando altrove v’è grande carenza di beni di primaria necessità. V’è bisogno di “consumatori socialmente responsabili”, che facciano da pendant alle “imprese socialmente responsabili”; gli uni e le altre accomunati dall’agire, pensando, non solo al benessere personale, ma anche al bene della comunità, nella sua configurazione del Bene Comune.
3. - Occorre richiamare anche un altro aspetto del lavoro. Esso si realizza normalmente in un ambiente sociale, in contatto e/o in collaborazione con altri lavoratori e con altri soggetti economici. È allora necessario che i lavoratori siano coinvolti nella gestione, in toto o compartecipata, dell’impresa che concorrono a formare. Che operi cioè il modello partecipativo nella forma di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale normale e alle scelte strategiche dell’impresa e anche ai risultati economici della gestione stessa: una compartecipazione che permetta ai lavoratori di essere e sentirsi coinvolti appieno nella comunità produttiva di cui sono parte. Non meri esecutori di scelte altrui, come se fossero soggetti inermi – e neanche ovviamente il falso strumento partecipativo dato dalle cosiddette “associazioni in partecipazione”; contratto alla luce del quale i lavoratori sono “associati” all’impresa, fingendo di apportare capitale umano (anziché finanziario), ma non partecipando in alcun modo alla definizione dei processi decisionali d’impresa ordinari e strategici – ma attori responsabili all’interno della comunità produttiva che si chiama impresa, e da ciò non potranno non discendere anche rilevanti miglioramenti nell’impegno dei lavoratori, e quindi anche nei risultati economici dell’impresa stessa.
Infatti, le possibilità di sviluppo di ogni lavoratore e i risultati del lavoro sono tanto migliori quanto più ha modo di esprimersi l’intelligenza di chi lavora, quanto più è apprezzata e stimolata (e non, invece, osteggiata) la sua intraprendenza, quanto più ampia è la libertà di conseguire obiettivi condivisi. La condivisione è essenziale perché, quando lavorano, l’uomo e la donna svolgono due tipi di azione: una di tipo transitivo, poiché l’agente cambia la realtà in cui vive, ma anche una di tipo immanente, poiché l’agente cambia se stesso. Così facendo, il lavoratore riesce a realizzare le condizioni per un’autentica libertà del lavoro, poiché riesce a realizzare la sua espressione creativa che arreca al lavoratore la soddisfazione diretta dell’essere padrone di se stesso. Se vien meno questo cambiamento, espressione della realizzazione della propria persona, il lavoratore – inserito in un luogo di lavoro in cui egli non è altro che uno dei tanti input trasformati, secondo certe regole prefissate, in output, e non un luogo in cui si forma e si trasforma il suo carattere – non comprende il senso di ciò che sta facendo e il lavoro diventa schiavitù (mancanza completa di possibilità di operare per realizzare, creandolo lui stesso, il proprio disegno di vita) e la persona può essere sostituita con una macchina.
Ma il lavoro dell’agente influisce anche sugli altri, sulla società; fra l’altro, quest’influire sugli altri è la causa di fondo che porta all’ottenimento di una contropartita, che è la remunerazione che il lavoratore percepisce da altri singoli soggetti o dalla società, cioè dagli organismi pubblici che istituzionalizzano quest’ultima. È allora assai rilevante che vi sia condivisione negli obiettivi che hanno il lavoratore e gli altri soggetti soggetti individuali o collettivi. Questi altri sono i diversi soggetti interni ed esterni all’ambiente di lavoro e la presenza dei soggetti interni porta all’esigenza imprescindibile di trasparenza, dialogo e condivisione e di creare e mantenere relazioni corrette con i diversi soggetti coinvolti nelle attività dell’unità produttiva, quindi tanto più quanto più partecipativo è l’ambiente di lavoro. La compartecipazione stimola e promuove iniziativa, creatività, innovazione e un senso di responsabilità condivisa, un punto importante anche per la piena partecipazione dei lavoratori nella società, come cittadini a pieno titolo, con tutti i diritti e i doveri.
4. - In conclusione, il lavoro ha da essere libero, dignitoso, creativo, partecipativo, solidale affinché crei vera inclusione sociale. Conseguentemente, il mercato del lavoro, per essere considerato efficiente (non certo, come taluni ritengono, nel senso di essere organizzato in modo tale da mettere, a disposizione delle imprese, forza lavoro con elevata produttività, basso costo per unità di lavoro ed elevata mobilità funzionale, settoriale e territoriale (questo semmai è il concetto di efficienza che interessa il lato della domanda di lavoro, il lato del padrone dell’impresa), bensì dev’essere in grado di permettere ad ogni persona in età lavorativa di poter soddisfare i propri bisogni e di realizzare la propria persona attraverso l’espletamento di un’attività lavorativa, in un contesto in cui questa può essere trovata in tempi rapidi e viene svolta al meglio della capacità lavorativa e produttiva del lavoratore. Il mercato del lavoro efficiente può realizzarsi quindi quando esso è ampio (cioè in grado di offrire possibilità di lavoro, in misura adeguata, alla popolazione presente in età lavorativa); qualificato e qualificante (nel quale sia possibile per tutti arricchire le proprie capacità professionali e, allo stesso tempo, siano valorizzati i talenti, la creatività e il capitale umano presenti); accessibile e accogliente (cioè in grado di offrire opportunità di lavoro a soggetti con caratteristiche sociali e professionali assai differenziate; con capacità, esigenze e vincoli eterogenei; con particolare riguardo alle esigenze e ai vincoli relativi alla conciliazione del lavoro con la famiglia); fluido e flessibile (nel quale sia possibile, senza penalizzazioni improprie, la mobilità aziendale, professionale e territoriale).
Per creare un mercato del lavoro efficiente non sono sufficienti tradizionali politiche dell’occupazione; occorrono specifiche politiche attive del lavoro, le quali mirano a permettere ad ogni persona un accesso rapido ed equiprobabile ai posti di lavoro vacanti, cercando di creare le condizioni affinché il diritto al lavoro di ogni persona venga reso possibile. Esse si caratterizzano per voler direttamente incidere sulla struttura del mercato del lavoro; favorire l’adeguamento delle caratteristiche di coloro che aspirano a un’occupazione alle esigenze della domanda di lavoro; creare possibilità occupazionali attraverso una diversa organizzazione del mercato del lavoro.
Quale politica attiva allora, se non quell’insieme di azioni che forniscono ai lavoratori in difficoltà un supporto di informazioni e i più adeguati strumenti rivolti alla formazione e alla valorizzazione delle risorse umane, per accrescere le possibilità di successo nella ricerca dell’occupazione nonché specifiche misure a favore delle categorie deboli del mercato del lavoro (giovani, donne, persone disabili)? Queste misure dovrebbero essere finalizzate alla creazione diretta di occupazione per queste categorie di persone, tramite riserva di posti di lavoro nel settore privato imposte per legge, sovvenzioni a imprese private per l’assunzione di persone appartenenti a queste categorie deboli, creazione diretta di posti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche riservati a queste categorie, titoli di merito riconosciuti, nelle gare d’appalto pubblico, alle imprese che – oltre che dimostrare responsabilità fiscale e ambientale e si realizzino perseguendo fini diversi dalla mera massimizzazione del profitto e applichino norme di lavoro pienamente in regola con il principio del “lavoro dignitoso”, quindi anche inclusive, non discriminatorie e con elevato valore etico sul piano dei rapporti personali interni così come sul piano della distribuzione del reddito prodotto e della crescita sociale dei suoi membri nonché sul piano dei rapporti di reciprocità e di rete con l’esterno – abbiano significative presenze di lavoratori disabili e svantaggiati, in generale.
In effetti, si dice che innovazione e globalizzazione hanno portato a una frattura fra sviluppo e occupazione. Si tratta di una falsa frattura. In realtà, hanno portato a una frattura fra sviluppo e qualsivoglia occupazione. Le politiche attive del lavoro hanno come missione di ricomporre questa frattura per poter includere nel mondo del lavoro le persone deboli del mercato del lavoro. Inoltre, esse non puntano tanto alla creazione di posti di lavoro, ma piuttosto di occasioni lavorative, e cercano di far realizzare il diritto al lavoro più che il posto di lavoro. Prendono in considerazione, non soltanto l’accesso al tipico lavoro dipendente, ma anche combinazioni fra lavoro dipendente e lavoro autonomo (singolo o associato) e contemplano anche la possibilità di permettere diverse esperienze lavorative e ampia mobilità intraoccupazionale.
Bravo Daniele. Ecco un modo di ripensare ad un tema psico-economico-sociale da riesaminare : il lavoro. Dal 1948, data in cui il tema è stato discusso dai padri costituenti, al 1970, in cui venne ripreso nel quadro dello Statuto dei lavoratori: comunque altri tempi, altra economia e altre condizioni di mercati internazionali, quindi altri concetti e altro linguaggio, non mi pare sia stato adeguatamente ripreso.
In particolare occorre ripensare al linguaggio laburistico ed ai valori cristiani sottesi, nel quadro del lavoro nella società digitale, nella sostenibilità ambientale e nell’organizzazione di un lavoro che valorizzi le differenze di genere, generazionali e di origini geo-culturali.
Io proverò, insieme a chi ne ha specifiche conoscenze e competenze, ad esaminare il lavoro nella società digitale, invito le colleghe ad esaminare la valorizzazione delle differenze di genere, i giovani quelle generazionali e chi si occupa di migranti quelle di origine geo-culturale.