Un autorevole editorialista, Angelo Panebianco, ci spiega, da par suo, dalle pagine del “Corriere”, come oggi il nostro Paese – dopo la cassazione del referendum proposto dalla Lega – abbia bisogno o voglia di “centro”.
Giunge – obtorto collo – a tale conclusione dopo una analisi perigliosa in ordine alla democrazia – a suo dire “acefala” – della prima Repubblica e del proporzionale. Omette di spiegarci come una politica “acefala” abbia potuto gettare le solide fondamenta di cui vive tuttora la nostra democrazia e come abbia condotto, in tre, quattro decenni, un Paese sostanzialmente agricolo, devastato materialmente e moralmente dal fascismo e dalla guerra, a sedere tra le prime quattro o cinque potenze industriali del mondo.
Il Nostro la butta in corner, sostenendo che allora le cose stavano “così” ed oggi, invece, stanno “cosà”. Il che vuol dire parlar d’altro. Un po’ come affermare che l’acqua è bagnata.
Ne deriva una chiara dimostrazione che la “politologia” è una cosa e la “politica” un’altra. Un’interpretazione “intellettualistica” delle cose del mondo, fondata su assiomi dati per veri una volta per tutte, cosicché se ne possano derivare conclusioni inossidabili e certe, porta inevitabilmente a perdere il contatto con la realtà. Succede anche in altri campi.
Siamo umani e capita che ci innamoriamo talmente dei nostri punti di vista che giungiamo a negare l’evidenza dei fatti, pur di salvaguardarli, a dispetto dei santi. Ad esempio, nel rigoroso campo delle neuroscienze c’è chi se la cava semplicemente negando che la coscienza esista in quanto non rientra nei suoi pre-ordinati schemi mentali e, dunque, non riesce a darne conto. Figuriamoci se non succede in politica.
Il Nostro, a fronte del fallimento del “maggioritario” – che, se non erro, ha fortemente sostenuto – se la sarebbe cavata più brillantemente ammettendo onestamente di essersi sbagliato – in fondo, prima o poi, succede a tutti – anziché inerpicarsi per ragionamenti astrusi (qui il link per leggere Panebianco).
Ad ogni modo, dunque, il “centro”.
Senonché, ci sono parole talmente usate e abusate che finiscono per essere talmente appesantite da equivoci da rendere ambiguo e indecifrabile ogni discorso in cui vengano coinvolte. Potrebbero recuperare la loro freschezza solo in un universo mentale e concettuale diverso da quello in cui sono state irrimediabilmente sciupate. Insomma, avremmo bisogno di una rivisitazione semantica del nostro linguaggio per essere sicuri di sapere di cosa esattamente stiamo parlando, evitando di prendere fischi per fiaschi.
Queste parole – “centro” nella declinazione politica del termine, è una di queste – poiché, nell’economia generale di un linguaggio sensato, stridono, le trasformiamo in un che di “magico” e le utilizziamo per troncare un discorso tortuoso, fingendo di mettere un punto fermo, laddove, al contrario, i nostri ragionamenti rischiano di avvitarsi e attorcigliarsi in una spirale inconcludente.
Fatichiamo a sottrarci all’idea che il “centro” sia il punto mediano tra due estreme, cosicché, invece di restare fermo, appare di fatto molto più ballerino di quanto si vorrebbe, dato che la sua effettiva posizione dipende dalla dislocazione liberamente variabile delle estreme.
Ne consegue che nel concetto di “centro” convivono l’idea che – obtorto collo – non se ne possa fare a meno e, nel contempo, un sottile spregio, come se si trattasse, in ogni caso, di un che di opportunistico e di sostanzialmente inerte; sì, un punto di equilibrio, ma nel senso di una caduta entropica al più basso livello di energia.
Eppure, in un altro universo mentale – oggi inattingibile, anzi agli antipodi della rissa incivile e quotidiana cui è ridotto il confronto politico – il “centro” potrebbe effettivamente essere la quintessenza della politica, ove la sapessimo intendere, come dovrebbe essere, il luogo in cui, sapendo leggere sapientemente tra le righe degli eventi, si conducono i fenomeni sociali a un punto di composizione e di sinergia nel segno del “bene comune”.
A quel punto, la stessa”moderazione”, anziché apparire, come succede spesso, un traccheggiare incerto, timido e inconcludente, assumerebbe il carattere di quel “feed-back” fisiologico che, negli organismi viventi, ne garantisce la armonizzazione delle funzioni e, dunque, l’omeostasi con l’ambiente circostante e la vita.
Ad ogni modo, finché non saremo in grado di restituire a “centro” e “moderazione” l’onore che pur meritano, lasciamo perdere le loro parole. Il rinnovamento della politica pretende un linguaggio nuovo, inedito, nuove categorie interpretative, nuovi concetti di riferimento.
Pensiamo piuttosto a come arricchire e rendere effettiva quella prospettiva di “trasformazione” cui allude, al di là del classico e tradizionale riformismo, il nostro Manifesto.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Giunge – obtorto collo – a tale conclusione dopo una analisi perigliosa in ordine alla democrazia – a suo dire “acefala” – della prima Repubblica e del proporzionale. Omette di spiegarci come una politica “acefala” abbia potuto gettare le solide fondamenta di cui vive tuttora la nostra democrazia e come abbia condotto, in tre, quattro decenni, un Paese sostanzialmente agricolo, devastato materialmente e moralmente dal fascismo e dalla guerra, a sedere tra le prime quattro o cinque potenze industriali del mondo.
Il Nostro la butta in corner, sostenendo che allora le cose stavano “così” ed oggi, invece, stanno “cosà”. Il che vuol dire parlar d’altro. Un po’ come affermare che l’acqua è bagnata.
Ne deriva una chiara dimostrazione che la “politologia” è una cosa e la “politica” un’altra. Un’interpretazione “intellettualistica” delle cose del mondo, fondata su assiomi dati per veri una volta per tutte, cosicché se ne possano derivare conclusioni inossidabili e certe, porta inevitabilmente a perdere il contatto con la realtà. Succede anche in altri campi.
Siamo umani e capita che ci innamoriamo talmente dei nostri punti di vista che giungiamo a negare l’evidenza dei fatti, pur di salvaguardarli, a dispetto dei santi. Ad esempio, nel rigoroso campo delle neuroscienze c’è chi se la cava semplicemente negando che la coscienza esista in quanto non rientra nei suoi pre-ordinati schemi mentali e, dunque, non riesce a darne conto. Figuriamoci se non succede in politica.
Il Nostro, a fronte del fallimento del “maggioritario” – che, se non erro, ha fortemente sostenuto – se la sarebbe cavata più brillantemente ammettendo onestamente di essersi sbagliato – in fondo, prima o poi, succede a tutti – anziché inerpicarsi per ragionamenti astrusi (qui il link per leggere Panebianco).
Ad ogni modo, dunque, il “centro”.
Senonché, ci sono parole talmente usate e abusate che finiscono per essere talmente appesantite da equivoci da rendere ambiguo e indecifrabile ogni discorso in cui vengano coinvolte. Potrebbero recuperare la loro freschezza solo in un universo mentale e concettuale diverso da quello in cui sono state irrimediabilmente sciupate. Insomma, avremmo bisogno di una rivisitazione semantica del nostro linguaggio per essere sicuri di sapere di cosa esattamente stiamo parlando, evitando di prendere fischi per fiaschi.
Queste parole – “centro” nella declinazione politica del termine, è una di queste – poiché, nell’economia generale di un linguaggio sensato, stridono, le trasformiamo in un che di “magico” e le utilizziamo per troncare un discorso tortuoso, fingendo di mettere un punto fermo, laddove, al contrario, i nostri ragionamenti rischiano di avvitarsi e attorcigliarsi in una spirale inconcludente.
Fatichiamo a sottrarci all’idea che il “centro” sia il punto mediano tra due estreme, cosicché, invece di restare fermo, appare di fatto molto più ballerino di quanto si vorrebbe, dato che la sua effettiva posizione dipende dalla dislocazione liberamente variabile delle estreme.
Ne consegue che nel concetto di “centro” convivono l’idea che – obtorto collo – non se ne possa fare a meno e, nel contempo, un sottile spregio, come se si trattasse, in ogni caso, di un che di opportunistico e di sostanzialmente inerte; sì, un punto di equilibrio, ma nel senso di una caduta entropica al più basso livello di energia.
Eppure, in un altro universo mentale – oggi inattingibile, anzi agli antipodi della rissa incivile e quotidiana cui è ridotto il confronto politico – il “centro” potrebbe effettivamente essere la quintessenza della politica, ove la sapessimo intendere, come dovrebbe essere, il luogo in cui, sapendo leggere sapientemente tra le righe degli eventi, si conducono i fenomeni sociali a un punto di composizione e di sinergia nel segno del “bene comune”.
A quel punto, la stessa”moderazione”, anziché apparire, come succede spesso, un traccheggiare incerto, timido e inconcludente, assumerebbe il carattere di quel “feed-back” fisiologico che, negli organismi viventi, ne garantisce la armonizzazione delle funzioni e, dunque, l’omeostasi con l’ambiente circostante e la vita.
Ad ogni modo, finché non saremo in grado di restituire a “centro” e “moderazione” l’onore che pur meritano, lasciamo perdere le loro parole. Il rinnovamento della politica pretende un linguaggio nuovo, inedito, nuove categorie interpretative, nuovi concetti di riferimento.
Pensiamo piuttosto a come arricchire e rendere effettiva quella prospettiva di “trasformazione” cui allude, al di là del classico e tradizionale riformismo, il nostro Manifesto.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Ritengo vi siano diverse concezioni di centro:
a) Centro come medium tra opposti. Richiama la concezione della lotta politica tra due schieramenti ( Destra/ Sinistra, meglio whigs / tories, republicans/democrats anglosassoni che nulla hanno a che vedere con la politica italiana e di molti paesi continentali europei. E’ debole, spesso sottorappresentato, a volte ondivago ed in ogni caso tende ad appoggiarsi all’una o altra parte, che è la vera rappresentanza della competizione. Tipico delle società adolescenziali.
b) Centro come serie di punti intermedi tra due punti estremi. Richiama la concezione della politica come ricerca delle intese che volta a volta esprimono un centro collegato a interessi conservatori a volte un centro collegato a interessi progressisti, a volte un centro che mediando tra entrambi gli interessi domina la scena politica. Tipico delle società adulte
c) Centro come centratura psico-sociale. Richiama lo sforzo nei periodi di crisi di ricerca di individuare soggetti autorevoli e paterni che accompagnino nella transizione verso nuovi assetti, senza rivoluzioni, senza conflitti estremizzanti, senza distopie. Tipico delle società infantili in fase di transizione o di decadenza.
e) Centro come metodo, baricentro dell’asse di equilibrio, difficile da mantenere e che richiede cooperazione tra gli attori. Richiama la concezione della politica come complessità, come eterna e dinamica ricerca dell’equilibrio tra interessi diversi. Per i semplificatori concezione troppo complessa, poco redditizia in termini di consenso, e quindi da condannare perchè faticosa,difficile e quindi inutile. Ma è l’unica che consente di innovare con ” moderazione” (in medio stat virtus) quindi con continuità e con risultati condivisi e di lungo periodo.