Le aule vuote (di passato)



Giuseppe Ladetto    17 Gennaio 2020       0

L'aula vuota è il titolo di un libro di Ernesto Galli della Loggia sulla scuola, un libro che ha suscitato molte polemiche: infatti, accanto a consensi, non sono mancate recensioni ferocemente avverse e demolitrici. Non c'è da meravigliarsene, essendo un argomento sul quale hanno un rilevante peso le ideologie. Ora, se le considerazioni espresse nel libro possono essere diversamente valutate, bisogna tuttavia riconoscere che lo storico ha posto delle domande importanti, anzi necessarie, ed evidenziato questioni reali, avvertite da chiunque abbia figli e nipoti che frequentano le aule scolastiche.


Sono domande e questioni che devono interessare tutti, dai comuni cittadini ai politici. Troppi di questi ultimi da anni non si occupano della scuola, se non in modo generico (lamentando gli scarsi stanziamenti ad essa dedicati), poiché la hanno lasciata in mano ai soli addetti ai lavori. Mi soffermo sulle principali questioni, sulle quali dobbiamo interrogarci.


A che cosa deve servire la scuola?


Per quanti operano nell'ambito dell'economia e delle imprese, la scuola deve preparare alla vita lavorativa e professionale, e quindi dare priorità alle discipline “utili”, spendibili sul mercato del lavoro. Un esempio è la “scuola delle tre I” (informatica, inglese, impresa) promossa qualche anno fa da un ministro della PubblicaIistruzione; altrettanto lo è l'alternanza scuola lavoro, oggi messa alla base del rinnovamento scolastico.


Secondo altri (ormai in minoranza nel Paese), la scuola, senza accantonare il sopracitato obiettivo (comunque non perseguito prioritariamente), deve avere come scopo principale quello di impartire un quadro di cultura generale che serva a rendere ognuno consapevole della propria condizione umana, del proprio passato, del contesto storico in cui si trova a vivere e che ha formato il mondo ove abita. Deve, inoltre, introdurre lo studente nel mondo dei numeri, spiegare che cosa vogliono dire e che cosa si può fare con essi; infine, deve indicargli come funzionano la terra e il mondo intorno a lui. In sostanza, il suo compito è fornire al discente una cultura multidisciplinare per prepararlo alla vita e non solo al lavoro.


Quanto deve contare la conoscenza del passato nella scuola?


La nuova scuola riformata guarda al presente, a un mondo che la globalizzazione e le nuove tecnologie hanno profondamente trasformato, per affrontare il quale sono necessarie nuove adeguate competenze. Lo studio del passato pertanto va rivisto, ridimensionando la componente storica narrativa a favore delle dimensioni sociali, economiche e tecnologiche che caratterizzano il divenire delle società. Occorre inoltre guardare all'insieme del mondo con la pluralità di culture che lo caratterizza senza privilegiare quanto riguarda l'Italia e l'Europa.


Nella visione tradizionale, la “cultura generale” è impensabile senza il legame con il passato. La funzione della continuità culturale consente ai membri della società di percepirsi con delle radici, di sentirsi eredi di qualche cosa anziché individui gettati casualmente nella vita. In questo senso, la storia del proprio Paese e dell'Europa deve occupare una posizione centrale, senza che, con ciò, le vicende degli altri continente vengano ignorate, come è troppo spesso accaduto in passato.


C'è un secondo aspetto di cui tenere conto. Privilegiare le materie scientifiche e tecniche, senza dare adeguato risalto alle discipline umanistiche, può far venir meno un fondamentale obiettivo educativo: la promozione della diversità di opinioni e di un atteggiamento critico verso ogni sapere, favorendo invece una fideistica adesione al criterio del “vero contrapposto al falso”, proprio delle discipline scientifiche. Inoltre, in tal modo si ignorano il cuore e i sentimenti sull'altare del rigore della concatenazione logica. La cultura dell'oggi esclude qualunque prospettiva di alternativa, e non consente di immaginare ciò che di diverso dovrebbe o potrebbe essere.


Il ruolo delle nozioni, lo studiare a memoria, il lavoro a casa


A partire dal Sessantotto, si è fatta via via sempre più forte la polemica contro il nozionismo (l'eccessiva rilevanza data a fatti particolari non essenziali alla comprensione dell'argomento) fino a mettere nel mirino le nozioni in quanto tali. Di pari passo, sono stati presi a bersaglio l'imparare a memoria, il riassunto, le tabelline aritmetiche, lo studio a casa, ritenuti non più idonei in un'epoca in cui la rete mette a disposizione dello studente strumenti maneggevoli con cui può dotarsi di quanto gli necessita sapere per affrontare le problematiche in cui deve misurarsi. Viene detto che nozioni e disciplina appartengono al passato. Nella scuola della riforma, gli studenti si auto-educano e apprendono attraverso la didattica attiva con un lavoro di ricerca collettivo, il cosiddetto “lavoro di gruppo”.


Si ribatte che qualunque sapere non può prescindere da una intelaiatura di nozioni di base (dalle tabelline aritmetiche e da alcuni teoremi in aritmetica e geometria, fino a che cosa è avvenuto e quando, e chi ha fatto e che cosa nelle discipline storiche). Lo studio individuale, fatto sui libri, anche a casa, talora con fatica, è un momento formativo essenziale. Il sapere è sempre il frutto di un duro lavoro; è una conquista. Pensare che grazie agli strumenti informatici tutto ciò possa essere evitato è irrealistico.


La nuova didattica e i criteri di valutazione dello studente


Nella scuola odierna, si è introdotta la nuova didattica “del fare” che comporta una didattica attiva o dell'azione. Essa mira a dotare gli allievi di “competenze”. A tal fine, intende promuovere situazioni in cui gli studenti siano messi nelle condizioni di costruire il proprio sapere in modo attivo attraverso contesti di apprendimento fondati sull'esperienza. La nuova didattica richiede un nuovo criterio di valutazione dell'apprendimento scolastico: la valutazione delle competenze acquisite. La competenza indica la capacita di usare conoscenza, abilità ed esperienza in situazioni di lavoro o di studio e nella sviluppo professionale e personale.


La vecchia didattica trasmissiva o dell'ascolto (spiegazione, ascolto, ripetizione) richiedeva la valutazione dello studente sulla base del “profitto”, espresso numericamente in voti: esso stava a significare il sapere acquisito in una disciplina, ovvero la quantità di conoscenze specifiche in quella determinata materia che lo studente aveva fatto proprie.


Ora, scrive Galli della Loggia, fra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. La didattica del fare esige un radicale mutamento del modo di operare degli insegnanti al quale i più non sono stati preparati. Molti docenti simulano una adesione ai nuovi metodi di insegnamento e di valutazione, ma solo formalmente, sulla carta, compilando tutte le scartoffie ministeriali con il nuovo lessico, facendo come se dietro le parole ci fossero i fatti che in realtà non ci sono.


Tuttavia, piano piano, qualche cosa cambia nella sostanza, in particolare dove il corpo docente si è più impegnato nella nuova didattica del fare. Ma è proprio dove si è imposta pienamente la connessa valutazione per competenza che si può osservare l'emergere di una conseguenza potenzialmente pericolosa. Dietro la didattica delle competenze, si cela il proposito che ogni allievo esca dalla scuola di ogni livello con un definito patrimonio di conoscenze e di abilità, attestato e certificato, in modo da essere pronto per l'inserimento nella “giusta” collocazione all'interno della società. Tra scuola e contesto esterno, viene meno ogni diaframma. Ciò significa un'oscura prefigurazione/determinazione dei ruoli sociali fin dalla fanciullezza-adolescenza.


Il voto di profitto invece certificava esclusivamente il grado di apprendimento in una disciplina che, anche se basso, poteva lasciar spazio ad insospettabili e repentine capacità di svolta. È noto che alcuni uomini di scienza ed alcuni letterati sono stati bocciati a scuola (talora proprio nelle discipline in cui sono eccelsi successivamente). La certificazione delle competenze invece inevitabilmente prefigura il destino del giovane (anche ai suoi occhi e a quelli della famiglia).


Il ruolo degli insegnanti


Nella scuola del passato, l'insegnamento aveva carattere personale, e l'insegnante, quando era valido (e ce n'erano molti), con l'approfondita conoscenza della sua materia, metteva l'allievo in contatto con il senso complessivo di questa e con il portato del sapere. Ciò gli conferiva autorevolezza e anche autorità disciplinare, indispensabile per gestire una scolaresca o una classe. Oggi, in una scuola dove trionfano il lavoro di gruppo, l'autoapprendimento e la creatività degli studenti, l'insegnante perde centralità, diventa un “facilitatore” e non più un dispensatore di conoscenze.


Viene detto, d'altro canto, che la maggiore libertà di azione nella scuola riformata può dare ai migliori insegnanti l'opportunità di attuare le proprie idee e di mettere in luce la propria creatività e il proprio valore. Tale opportunità dovrebbe compensare la mancanza di quel potere di sanzionare o bocciare che in passato contribuiva a conferire loro autorità disciplinare nell'aula e all'esterno (presso le famiglie).


Tuttavia, c'è comunque un pesante prezzo da pagare da parte degli insegnanti all'autonomia, alla sperimentazione e alla modernità pedagogica: esso consiste nella burocratizzazione della scuola, con il moltiplicarsi di “istanze” di cui tenere conto, nella mole di lavoro connessa a relazioni, riunioni, assemblee con i relativi verbali e documenti da riempire.


Purtroppo, nella società odierna, la figura dell'insegnante ha perso prestigio. Chi insegna è percepito come una persona che opera in un settore di non grande rilievo, con remunerazione modesta e senza possibilità di carriera. È questo un fatto che incide negativamente sull'autostima e sull'impegno degli insegnanti.


Scuola democratica e scuola di classe


La selezione di classe operata dalla scuola del passato era reale: infatti, le differenze nella condizione familiare e sociale degli studenti pesavano fortemente sul rendimento scolastico. Moltissimi degli scolari di umile condizione non hanno potuto proseguire gli studi, ancorché qualcuno di essi ce l'abbia fatta. Anche se la vecchia scuola è stata, per un certo qual numero di studenti di umile origine, un formidabile strumento di emancipazione, doveva necessariamente cambiare perché escludeva troppi giovani. Purtroppo oggi, dietro le promozioni per tutti, la selezione di classe rimane: i diplomi rilasciati sono svalutati e non costituiscono più uno strumento di ascesa sociale. La selezione viene attuata nel mondo reale in una società sempre più competitiva. Ciò che è necessario non è promuovere tutti, ma fare in modo che tutti meritino di essere promossi e che, soprattutto, non si perda nessuno dei capaci e meritevoli.


Mi fermo a questo punto, e passo ad alcune considerazioni.


I giornali ci hanno più volte detto che, da periodiche ricerche (ad esempio l’indagine PISA 2018), gli studenti italiani risultano fra i peggiori dell'OCSE. Abbiamo sentito lamentare da molti autorevoli docenti universitari che la preparazione degli studenti che si affacciano agli studi universitari è da tempo molto scadente. Forse è il caso di interrogarsi sul perché, di chiedersi se alla base di ciò non ci siano quanto meno forti carenze, se non un fallimento, dei nuovi orientamenti didattici della scuola del fare.


Dalle comparazioni fra i rendimenti scolastici realizzati in vari Paesi, si nota che non c'è una stretta correlazione tra buoni risultati e spesa pubblica nell'istruzione. Ad esempio, come ha scritto Federico Fubini sul “Corriere della sera”, la Svezia spende moltissimo ma gli esiti scolastici sono modesti, mentre vari Paesi europei che spendono meno dell'Italia hanno risultati migliori dei nostri.


Aggiungo che, a fronte di una spesa contenuta, alcuni Paesi del sud-est asiatico garantiscono ai giovani una buona preparazione. Inoltre, agli investimento nei mezzi informatici e negli strumenti digitali interattivi, non sembra corrispondere un visibile miglioramento delle performance degli studenti. Se investire nella scuola è indubbiamente necessario, non concentriamo l’attenzione solo sul quanto, ma guardiamo anche e soprattutto al come spendere e in che cosa.


Il Parlamento UE, enunciando (nel 2006) le otto competenze chiave per la cittadinanza europea, ha collocato all'ultimo posto la competenza relativa ai saperi umanistici, dopo la competenza digitale e quella imprenditoriale. Scrive Galli della Loggia che proprio dai vertici dell'oligarchia tecnocratica comunitaria e dall'OCSE, viene l'esaltazione della scuola “del fare” con il relativo declassamento di tutte le materie umanistiche e la loro espulsione dal centro identitario dell'istituzione scolastica.


Ma, mi chiedo, se si cancellano nelle giovani generazioni la memoria storica, le radici europee e il bagaglio culturale ereditato dalle passate generazioni, quale senso di appartenenza all'Europa può restare in coloro che non sanno più chi sono e da dove vengono?


Per questa strada, viene meno lo stesso concetto di Europa. Resta solo un vocabolo che indica uno spazio geografico.




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