La possibile nascita di un nuovo soggetto politico dei “liberi e forti” sulla scia del “Manifesto Zamagni” ha innescato un inevitabile dibattito tra i Popolari, incentrato in particolare sui rapporti con il PD.
Per chi appartiene alla tradizione dei cattolici democratici – quelli che Sturzo opponeva ai clerico-conservatori, ieri rappresentati da Berlusconi e oggi attratti dai richiami di Salvini (come un secolo fa lo furono dall'uomo forte Mussolini) – è naturale “guardare a sinistra” e avere a cuore le vicende del Partito Democratico, nato per essere la “casa comune” del centrosinistra negli anni del bipolarismo. Consideriamo poi che molti ex Popolari, tramite la Margherita, erano confluiti nel PD rappresentando una delle culture di riferimento del nuovo “partito plurale” avviato da Veltroni.
Dal 2007 a oggi molta acqua è passata sotto i ponti. Il tempo ha disvelato i limiti di quel progetto, che si è progressivamente modificato (se “evoluto” o “involuto” lo decida chi legge) da contenitore delle culture riformiste alla “ditta” bersaniana al partito di Renzi alla confusa fase odierna guidata da Zingaretti. Nel tormentato percorso, alcuni Popolari (specialmente alla base) si sono allontanati dal PD, mentre altri (specialmente ai vertici) hanno mantenuto le posizioni nel partito. Questo mondo ha dato sabato scorso una prova di vitalità nel convegno di respiro nazionale organizzato al Sermig di Torino dall'onorevole Stefano Lepri e dalla consigliera regionale Monica Canalis, punti di riferimento per i cattolici subalpini impegnati nel PD. L'iniziativa – riuscita nei contenuti e nella folta partecipazione – ci permette di cogliere spunti utili per ampliare il dibattito in corso (vedi gli interventi in successione di Corsini, Ignesti e Infante) sull'alternativa tra la necessità di creare un nuovo partito “cristianamente ispirato” oppure l'opportunità di affidarsi al PD, unico interlocutore presente sul campo, ed eventualmente rinforzarlo.
Sui contenuti proposti nel convegno torinese si possono esprimere solo consensi. Non potrebbe essere diversamente, dato che sono stati messi in vetrina popolarismo e municipalismo, fraternità e personalismo, riformismo e comunità, evocando figure come Zaccagnini, Moro, La Pira, Sturzo.
Pierluigi Castagnetti e padre Francesco Occhetta hanno parlato del popolarismo nei suoi caratteri originali, che non solo lo distinguono ma lo mettono in contrapposizione con il populismo. Si è proseguito con le proposte di Lepri incentrate sul “riformismo comunitario”, individuato come antidoto per trasformare una società plasmata sul modello individualista di homo oeconomicus, risalente a Hobbes ed esaltato dal turbocapitalismo odierno, cui la cultura lib-lab si è uniformata. Il riferimento alla comunità del parlamentare PD si sposa perfettamente con la “fraternità” e la “generatività” – “felicità è far qualcosa di utile per gli altri” – richiamate da Leonardo Becchetti, uno dei promotori del “Manifesto Zamagni” (involontariamente evocato nella presentazione dell'iniziativa quando si parla degli organizzatori dell'incontro ispirati "alla Costituzione italiana e alla Dottrina Sociale della Chiesa").
E altri contenuti condivisibili sono emersi dai successivi interventi di Rosa Maria Di Giorgi, deputato e ricercatrice del CNR, sul sistema formativo; di Enrico Borghi, deputato ed ex presidente UNCEM, sull'importanza del territorio anche nelle sue articolazioni più periferiche; di Gianpiero Dalla Zuanna, ex senatore e docente di Saggistica, sull'emergenza della crisi demografica; di Giorgio Santini, ex senatore e sindacalista CISL, sulla centralità del lavoro.
Da quanto si è ascoltato, possiamo senz'altro ritenere che sui problemi concreti i democratici popolari di ispirazione cristiana, dentro e fuori il PD, si ritroverebbero facilmente su una comune piattaforma programmatica. “Oggi la sfida non è solo sulle ricette, ma sulla cultura politica che si deve tradurre in ricetta”, ha però ricordato Gianfranco Morgando, “padre nobile” della componente cattolica nel PD torinese. E di strategia politica – proprio nel giorno in cui il segretario Zingaretti ha prospettato, su “Repubblica”, un congresso di rifondazione del partito – hanno parlato Maurizio Martina, ex segretario nazionale, e Andrea Orlando, attuale vicesegretario PD. Se il primo si è limitato a un intervento di circostanza – “vi chiedo di mettere a disposizione il popolarismo, in chiave comunitaria, per rimediare alle fratture del mondo di oggi” –, Orlando ha invece brillato, tenendo l'unico intervento di prospettiva politica e partendo dall'autocritica (questa sconosciuta, a tutti i livelli, tra i Dem...): “Chiediamoci dove abbiamo sbagliato. In questi anni abbiamo sbeffeggiato la paura della gente. La destra ha invece lucidato vecchi elementi, come l'identità, e li ha proposti con successo come reazione alla paura, provocata in primis dalle disuguaglianze”. E ancora: “Non abbiamo capito che la famiglia aiuta a sopportare i cambiamenti indotti dalla globalizzazione. Abbiamo invece insistito su individuo e diritti, e questi non sono sufficienti”. Applausi convinti del pubblico. Avesse ancora aggiunto che il PD si è trasformato nel Partito Radicale di massa, avrebbe meritato la tessera dei Popolari ad honorem...
Come prospettiva per il futuro del partito, Orlando ritiene “che si debbano superare una volta per tutte gli schemi sorpassati degli anni '90: nel PD la divisione non deve essere tra ex democristiani ed ex comunisti, ma tra individualisti e solidaristi”.
Ora, ammettiamo che tutto il PD si possa tra qualche mese ritrovare sul progetto di un partito popolare, aperto e solidarista. Ammettiamo anche che contraddizioni e ambiguità – ad esempio sulla vocazione maggioritaria e sulla legge elettorale (vedi l'articolo di Cundari da noi rilanciato) – svaniscano per incanto. Se tutto ciò succedesse, allora sarebbe possibile compattare nel PD tutti i democratici popolari di ispirazione cristiana, compresi coloro che ritengono necessario un nuovo partito?
Per rispondere, dobbiamo ancora prendere in considerazione un elemento fondamentale: la credibilità.
Ci arriviamo servendoci di numeri. I dati sul voto dei cattolici praticanti (elettorato di riferimento dei Popolari, che vale circa un terzo del totale) sono noti, e sabato scorso li ha ricordati padre Occhetta: alle europee di maggio 16 su 100 hanno votato Lega, 13 il PD, 7 i Cinquestelle, 5 Forza Italia e 3 la Meloni. Il 52% (+5 rispetto al dato complessivo) si è astenuto. Poiché nel PD operano, come a Torino, persone di valore provenienti dal nostro mondo, è di tutta evidenza che – malgrado la loro presenza riesca già ad attirare voti alla persona pur con forti riserve sul partito – la capacità di rappresentanza è limitata a quel deludente 13%, e in una situazione di sostanziale monopolio del PD nel campo del centrosinistra.
Se la minoranza di fedeli tradizionalisti e conservatori – quelli che preferiscono Ruini a Bergoglio, per intenderci – trova oggi in Salvini un punto di riferimento, la maggioranza dei fedeli democratici e solidali – quelli orgogliosi di papa Francesco – non vede nel PD una forza credibile, e in gran parte si astiene dal voto.
I motivi sono molteplici: la “fusione a freddo” che non ha saputo creare una comunità politica coesa, la “vocazione maggioritaria” che ha preso il posto della cultura delle alleanze, il bipolarismo muscolare che ha eliminato il confronto e ridotto la politica a una guerra al “nemico”, il cinismo (“Enrico stai sereno”) e l'incoerenza eletti a virtù, la deriva leaderistica con toni populisti, il “partito liquido” che ha perso contatto con i territori, il rapido adeguarsi a logiche di recesso democratico (riduzione del voto, premi di maggioranza abnormi, “nominati”...), l'abbraccio acritico alla cultura dominante di stampo individualista, l'abbandono dei corpi intermedi, l'enfasi sui benefici della globalizzazione, l'incapacità nell'opporsi alla perdita di dignità del lavoro, il vuoto ottimismo nelle “magnifiche sorti e progressive” senza accorgersi dell'impoverimento dei ceti medi e popolari.
E tutto questo è avvenuto senza che i rappresentanti della nostra cultura politica all'interno del PD abbiamo fatto qualcosa di significativo per opporsi, per cambiare politiche (leggete Davicino su questo punto).
Nella migliore delle ipotesi ci troviamo di fronte a peccati di omissione, giustificati dal “tengo famiglia” che porta ad essere indulgenti e quasi a giustificare atteggiamenti donabbondieschi, cambi di opinione e salti sul carro del vincitore di turno.
La bonaria indulgenza viene però meno sentendo parlare, nell'intervento di chiusura al Sermig, di “importanza delle aree interne” e di “recupero del municipalismo” dal capogruppo alla Camera Graziano Delrio, lo stesso che da presidente ANCI ha avviato l'epopea metropolitana (poi proseguita da Chiamparino e Fassino) e da uomo di fiducia di Renzi al governo ha legato il suo nome al nefasto decreto sulle Autonomie locali. La crisi di credibilità del PD presso l'elettorato risale anche a giravolte e incoerenze di questo tipo, che un cittadino “cristianamente ispirato” comprende e “digerisce” ancor meno.
Quindi, costruire un nuovo soggetto politico è senz'altro un'impresa ardua, che può far tremare i polsi anche a chi è “libero e forte”. Ma restituire credibilità a un PD zavorrato da errori passati e, soprattutto, dall'incapacità dei suoi dirigenti di ammetterli e magari farsi da parte, pensando di essere adatti per tutte le stagioni, può essere considerata un'impresa non meno titanica.
Richiamo ancora un punto su cui bisogna essere chiari. È palpabile un certo timore degli ex Popolari nel PD di fronte alla prospettiva che possa nascere un nuovo partito “cristianamente ispirato”. L'iniziativa di sabato, il richiamo a Sturzo, al popolarismo, alla Dottrina sociale, al municipalismo – temi non di moda e a lungo snobbati in ambito PD – si possono anche leggere, almeno in parte, in quest'ottica. Ed è più che comprensibile il timore di avere una concorrenza che potrebbe sottrarre consenso.
Ma se l'obiettivo di un nuovo soggetto politico fosse soltanto quello di contendere al PD i voti espressi nelle parrocchie, non dovrebbe neppure nascere. Il nodo non è dividere quel deludente 13% di cittadini che va a votare – turandosi o meno il naso – il partito monopolista del centrosinistra. La sfida vera è quella di offrire al 52% di cattolici praticanti che decide di non andare a votare, a chi segue altre fedi e ai non credenti che non si riconoscono nell'attuale panorama partitico, uno sbocco elettorale credibile.
Servono idee forti e coerenti, con proposte coraggiose. Meglio se presentate da persone non compromesse con un passato da archiviare.
Per chi appartiene alla tradizione dei cattolici democratici – quelli che Sturzo opponeva ai clerico-conservatori, ieri rappresentati da Berlusconi e oggi attratti dai richiami di Salvini (come un secolo fa lo furono dall'uomo forte Mussolini) – è naturale “guardare a sinistra” e avere a cuore le vicende del Partito Democratico, nato per essere la “casa comune” del centrosinistra negli anni del bipolarismo. Consideriamo poi che molti ex Popolari, tramite la Margherita, erano confluiti nel PD rappresentando una delle culture di riferimento del nuovo “partito plurale” avviato da Veltroni.
Dal 2007 a oggi molta acqua è passata sotto i ponti. Il tempo ha disvelato i limiti di quel progetto, che si è progressivamente modificato (se “evoluto” o “involuto” lo decida chi legge) da contenitore delle culture riformiste alla “ditta” bersaniana al partito di Renzi alla confusa fase odierna guidata da Zingaretti. Nel tormentato percorso, alcuni Popolari (specialmente alla base) si sono allontanati dal PD, mentre altri (specialmente ai vertici) hanno mantenuto le posizioni nel partito. Questo mondo ha dato sabato scorso una prova di vitalità nel convegno di respiro nazionale organizzato al Sermig di Torino dall'onorevole Stefano Lepri e dalla consigliera regionale Monica Canalis, punti di riferimento per i cattolici subalpini impegnati nel PD. L'iniziativa – riuscita nei contenuti e nella folta partecipazione – ci permette di cogliere spunti utili per ampliare il dibattito in corso (vedi gli interventi in successione di Corsini, Ignesti e Infante) sull'alternativa tra la necessità di creare un nuovo partito “cristianamente ispirato” oppure l'opportunità di affidarsi al PD, unico interlocutore presente sul campo, ed eventualmente rinforzarlo.
Sui contenuti proposti nel convegno torinese si possono esprimere solo consensi. Non potrebbe essere diversamente, dato che sono stati messi in vetrina popolarismo e municipalismo, fraternità e personalismo, riformismo e comunità, evocando figure come Zaccagnini, Moro, La Pira, Sturzo.
Pierluigi Castagnetti e padre Francesco Occhetta hanno parlato del popolarismo nei suoi caratteri originali, che non solo lo distinguono ma lo mettono in contrapposizione con il populismo. Si è proseguito con le proposte di Lepri incentrate sul “riformismo comunitario”, individuato come antidoto per trasformare una società plasmata sul modello individualista di homo oeconomicus, risalente a Hobbes ed esaltato dal turbocapitalismo odierno, cui la cultura lib-lab si è uniformata. Il riferimento alla comunità del parlamentare PD si sposa perfettamente con la “fraternità” e la “generatività” – “felicità è far qualcosa di utile per gli altri” – richiamate da Leonardo Becchetti, uno dei promotori del “Manifesto Zamagni” (involontariamente evocato nella presentazione dell'iniziativa quando si parla degli organizzatori dell'incontro ispirati "alla Costituzione italiana e alla Dottrina Sociale della Chiesa").
E altri contenuti condivisibili sono emersi dai successivi interventi di Rosa Maria Di Giorgi, deputato e ricercatrice del CNR, sul sistema formativo; di Enrico Borghi, deputato ed ex presidente UNCEM, sull'importanza del territorio anche nelle sue articolazioni più periferiche; di Gianpiero Dalla Zuanna, ex senatore e docente di Saggistica, sull'emergenza della crisi demografica; di Giorgio Santini, ex senatore e sindacalista CISL, sulla centralità del lavoro.
Da quanto si è ascoltato, possiamo senz'altro ritenere che sui problemi concreti i democratici popolari di ispirazione cristiana, dentro e fuori il PD, si ritroverebbero facilmente su una comune piattaforma programmatica. “Oggi la sfida non è solo sulle ricette, ma sulla cultura politica che si deve tradurre in ricetta”, ha però ricordato Gianfranco Morgando, “padre nobile” della componente cattolica nel PD torinese. E di strategia politica – proprio nel giorno in cui il segretario Zingaretti ha prospettato, su “Repubblica”, un congresso di rifondazione del partito – hanno parlato Maurizio Martina, ex segretario nazionale, e Andrea Orlando, attuale vicesegretario PD. Se il primo si è limitato a un intervento di circostanza – “vi chiedo di mettere a disposizione il popolarismo, in chiave comunitaria, per rimediare alle fratture del mondo di oggi” –, Orlando ha invece brillato, tenendo l'unico intervento di prospettiva politica e partendo dall'autocritica (questa sconosciuta, a tutti i livelli, tra i Dem...): “Chiediamoci dove abbiamo sbagliato. In questi anni abbiamo sbeffeggiato la paura della gente. La destra ha invece lucidato vecchi elementi, come l'identità, e li ha proposti con successo come reazione alla paura, provocata in primis dalle disuguaglianze”. E ancora: “Non abbiamo capito che la famiglia aiuta a sopportare i cambiamenti indotti dalla globalizzazione. Abbiamo invece insistito su individuo e diritti, e questi non sono sufficienti”. Applausi convinti del pubblico. Avesse ancora aggiunto che il PD si è trasformato nel Partito Radicale di massa, avrebbe meritato la tessera dei Popolari ad honorem...
Come prospettiva per il futuro del partito, Orlando ritiene “che si debbano superare una volta per tutte gli schemi sorpassati degli anni '90: nel PD la divisione non deve essere tra ex democristiani ed ex comunisti, ma tra individualisti e solidaristi”.
Ora, ammettiamo che tutto il PD si possa tra qualche mese ritrovare sul progetto di un partito popolare, aperto e solidarista. Ammettiamo anche che contraddizioni e ambiguità – ad esempio sulla vocazione maggioritaria e sulla legge elettorale (vedi l'articolo di Cundari da noi rilanciato) – svaniscano per incanto. Se tutto ciò succedesse, allora sarebbe possibile compattare nel PD tutti i democratici popolari di ispirazione cristiana, compresi coloro che ritengono necessario un nuovo partito?
Per rispondere, dobbiamo ancora prendere in considerazione un elemento fondamentale: la credibilità.
Ci arriviamo servendoci di numeri. I dati sul voto dei cattolici praticanti (elettorato di riferimento dei Popolari, che vale circa un terzo del totale) sono noti, e sabato scorso li ha ricordati padre Occhetta: alle europee di maggio 16 su 100 hanno votato Lega, 13 il PD, 7 i Cinquestelle, 5 Forza Italia e 3 la Meloni. Il 52% (+5 rispetto al dato complessivo) si è astenuto. Poiché nel PD operano, come a Torino, persone di valore provenienti dal nostro mondo, è di tutta evidenza che – malgrado la loro presenza riesca già ad attirare voti alla persona pur con forti riserve sul partito – la capacità di rappresentanza è limitata a quel deludente 13%, e in una situazione di sostanziale monopolio del PD nel campo del centrosinistra.
Se la minoranza di fedeli tradizionalisti e conservatori – quelli che preferiscono Ruini a Bergoglio, per intenderci – trova oggi in Salvini un punto di riferimento, la maggioranza dei fedeli democratici e solidali – quelli orgogliosi di papa Francesco – non vede nel PD una forza credibile, e in gran parte si astiene dal voto.
I motivi sono molteplici: la “fusione a freddo” che non ha saputo creare una comunità politica coesa, la “vocazione maggioritaria” che ha preso il posto della cultura delle alleanze, il bipolarismo muscolare che ha eliminato il confronto e ridotto la politica a una guerra al “nemico”, il cinismo (“Enrico stai sereno”) e l'incoerenza eletti a virtù, la deriva leaderistica con toni populisti, il “partito liquido” che ha perso contatto con i territori, il rapido adeguarsi a logiche di recesso democratico (riduzione del voto, premi di maggioranza abnormi, “nominati”...), l'abbraccio acritico alla cultura dominante di stampo individualista, l'abbandono dei corpi intermedi, l'enfasi sui benefici della globalizzazione, l'incapacità nell'opporsi alla perdita di dignità del lavoro, il vuoto ottimismo nelle “magnifiche sorti e progressive” senza accorgersi dell'impoverimento dei ceti medi e popolari.
E tutto questo è avvenuto senza che i rappresentanti della nostra cultura politica all'interno del PD abbiamo fatto qualcosa di significativo per opporsi, per cambiare politiche (leggete Davicino su questo punto).
Nella migliore delle ipotesi ci troviamo di fronte a peccati di omissione, giustificati dal “tengo famiglia” che porta ad essere indulgenti e quasi a giustificare atteggiamenti donabbondieschi, cambi di opinione e salti sul carro del vincitore di turno.
La bonaria indulgenza viene però meno sentendo parlare, nell'intervento di chiusura al Sermig, di “importanza delle aree interne” e di “recupero del municipalismo” dal capogruppo alla Camera Graziano Delrio, lo stesso che da presidente ANCI ha avviato l'epopea metropolitana (poi proseguita da Chiamparino e Fassino) e da uomo di fiducia di Renzi al governo ha legato il suo nome al nefasto decreto sulle Autonomie locali. La crisi di credibilità del PD presso l'elettorato risale anche a giravolte e incoerenze di questo tipo, che un cittadino “cristianamente ispirato” comprende e “digerisce” ancor meno.
Quindi, costruire un nuovo soggetto politico è senz'altro un'impresa ardua, che può far tremare i polsi anche a chi è “libero e forte”. Ma restituire credibilità a un PD zavorrato da errori passati e, soprattutto, dall'incapacità dei suoi dirigenti di ammetterli e magari farsi da parte, pensando di essere adatti per tutte le stagioni, può essere considerata un'impresa non meno titanica.
Richiamo ancora un punto su cui bisogna essere chiari. È palpabile un certo timore degli ex Popolari nel PD di fronte alla prospettiva che possa nascere un nuovo partito “cristianamente ispirato”. L'iniziativa di sabato, il richiamo a Sturzo, al popolarismo, alla Dottrina sociale, al municipalismo – temi non di moda e a lungo snobbati in ambito PD – si possono anche leggere, almeno in parte, in quest'ottica. Ed è più che comprensibile il timore di avere una concorrenza che potrebbe sottrarre consenso.
Ma se l'obiettivo di un nuovo soggetto politico fosse soltanto quello di contendere al PD i voti espressi nelle parrocchie, non dovrebbe neppure nascere. Il nodo non è dividere quel deludente 13% di cittadini che va a votare – turandosi o meno il naso – il partito monopolista del centrosinistra. La sfida vera è quella di offrire al 52% di cattolici praticanti che decide di non andare a votare, a chi segue altre fedi e ai non credenti che non si riconoscono nell'attuale panorama partitico, uno sbocco elettorale credibile.
Servono idee forti e coerenti, con proposte coraggiose. Meglio se presentate da persone non compromesse con un passato da archiviare.
Non ho nulla da eccepire su questo articolo. Aggiungo solo una osservazione simile a quella che in tempi ormai lontani feci ad un cattolico per il socialismo: rispettando l’ impegno e la buona fede degli amici operanti nel PD, constato che la loro opera ha limitato i danni e favorito scelte di “male minore”. Ottima cosa. Non basta però un bel convegno a far dimenticare dieci anni di emarginazione culturale di molti nostri valori. Il movimento cosiddetto “Zamagni” conserva la sua necessità e speriamo che un domani possa allearsi con un PD meno autoreferenziale e disponibile non solo per stato di necessità ad aprirsi a nuove alleanze. Certamente il tipo di nuova legge elettorale sostenuto dal PD dimostrerà le vere intenzioni in questo ambito.
Con estrema chiarezza Risso indica le questioni su cui i cattolici nel centrosinistra è bene che dialoghino. Perché alla fine, credo, ciò che conta, è volere insieme, anche con scelte di impegno diverse, cambiare il profilo programmatico e la leadership dell’intero schieramento riformatore. Per riuscire a riaffermare due punti chiave: che la persona viene prima del denaro (con tutte le conseguenze che ciò implica sulle politiche monetarie), e che con la politica, non con l’austerità, si costruisce l’Europa e dunque va rilanciato il dibattito sui tempi, certi, dell’unità europea. Sapendo che il tempo è poco perché proseguendo sulla china attuale il Paese incontrerà prima o poi il punto di non ritorno dall’ingovernabilità.
davvero utile l’incontro di sabato scorso
non mi dilungo nelle valutazioni positive
quello che mi preme rilevare è il distacco che, ancora una volta, si registra, tra dinamiche politiche ed elaborazioni culturali
ho vissuto l’epoca in cui gli anni di guerra e subito successivi consentirono l’espressione di movimenti che avevano avuto il tempo (drammaticamente generato dalle dittature) di pensare, elaborare, riconoscersi e organizzarsi
sia nel mondo cattolico (con le profonde prese di coscienza connesse con le vicende conciliari) sia nel mondo marxista il “nuovo” portò a una drastica separazione tra dinamiche culturali e politiche, con il prevalere dei tempi e dei modi di quest’ultima, squilibrio che non si è ancora recuperato (meno che mai con le cosiddette “scuole di politica”)
le nuove ipotesi non devono ripercorrere gli stessi itinerari: dunque occorre ridare stabilità e continuità alle persone, a modi, ai luoghi in cui l’elaborazione culturale (che ha tempi lunghi) si può raccordare con l’azione politica (che ha tempi dettati dalle scadenze elettorali, che solo così potranno tornare a essere meno farraginosi)
balbo, martinazzi, baroni (per parlare solo di torino) sono nomi quasi dimenticati, ma ricordano un tentativo di esprimere una realtà che mantenesse relazioni forti e tempi idonei con le elaborazioni culturali (dove si formano le scelte) e l’azione politica (dove si opera per maggioranze) ma furono divorati dal conflitto ideologico dei poteri di allora e per alcuni di loro fu perfino coniata l’orrendo termine di catto-comunisti
operiamo perchè non si ripetano questi errori