Quota 102? o piuttosto 73?



Andrea Fioravanti    12 Gennaio 2020       2

Nel Paese con il tasso di natalità più basso e il più alto numero di anziani di tutto l’Occidente, il governo pensa a come far andare in pensione prima i suoi cittadini. Non è una fiaba per sovranisti, ma una sciagurata riforma che potrebbe aggravare ancora di più il nostro sistema pensionistico: quota 102. Secondo una indiscrezione del “Sole 24 Ore”, nelle ultime ore il governo starebbe pensando di dare a chi ha 64 anni d’età e 38 di contributi la possibilità di andare in pensione prima del previsto ricalcolando però l'assegno interamente sulla base del metodo contributivo. Ovvero solo in base a quanto versato durante la loro carriera lavorativa. In questo caso la pensione sarebbe più bassa almeno del 15%.

L’obiettivo della maggioranza sarebbe quello di evitare lo scalone e rendere il più indolore possibile la conclusione della sperimentazione triennale di quota 100 che scadrà in modo naturale il 31 dicembre 2021. Tradotto: evitare che un beneficiario di quota 100 nato il 1 gennaio del 2022 debba aspettare 5 anni, invece di un suo omologo fortunato nato qualche mese prima che rientrerebbe appieno nella riforma salviniana. I numeri sono ancora imprecisi ma quota 102 potrebbe costare circa 2,5 miliardi l’anno fino al 2028, quasi due miliardi in meno della riforma che secondo Matteo Salvini avrebbe aumentato il PIL dell’1.5% perché per un pensionato sarebbero stati assunti tre giovani lavoratori. Non è successo.

E così invece di lasciar perdere l’esperimento che ha scassato i nostri conti pubblici è ripartita la corsa al riaprire il cantiere delle pensioni. Il presidente dell’INPS Pasquale Tridico ha lanciato l’idea di legare l’età di pensionamento al lavoro svolto. Per non sbagliare, la ministra del Lavoro grillina Nunzia Catalfo ha detto in un’intervista al “Fatto Quotidiano” che lancerà a gennaio una commissione di esperti per riformare una volta per tutte la legge Fornero.

Ma perché il governo del Paese con il sistema pensionistico più caro d’Europa continua a occuparsi di mandare prima le persone in pensione invece di pensare a quale assegno prenderanno i giovani lavoratori di oggi? Secondo l'INPS nel 2018 la spesa complessiva per le pensioni è stata di 204,3 miliardi di euro, per erogare 17.827.676 pensioni, di cui il 63,1% è sotto la soglia di 750 euro. Più o meno il 16% del nostro prodotto interno lordo, quattro punti in più della media dei Paesi dell'Unione Europea (12,6%). Solo la Grecia fa peggio di noi col 17,5%. Su 204 miliardi però solo 183 miliardi sono arrivati dai contributi versati dai lavoratori. La differenza di 21 miliardi? L'ha messa lo Stato, cioè gli italiani con le loro tasse.

Il problema è che questo sistema previdenziale era stato pensato per aspettative di vita molto più basse. E in questi decenni sono aumentate solo due cose in Italia: la longevità (la vita media degli uomini è di 80,8 anni, per le donne 85,2) e il debito pubblico, arrivato al 134% del prodotto interno lordo.

E i bambini che un giorno pagheranno con i loro contributi le pensioni dei nonni? Sono sempre meno. Nel 2018 sono nati solo 439.747 nuovi italiani, il dato peggiore dall’Unità d’Italia nel 1861. Se la popolazione invecchia crescono i costi delle pensioni pari al 90% dell'ultimo stipendio ricevuto, basate ancora sul vecchio sistema retributivo, non coperto dai contributi. E sono ancora tanti. Basta un dato per dare l’idea di come è messo il nostro Paese. Secondo il Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali dal 1983, 758mila persone in Italia continuano a ricevere la pensione tutti i giorni. Un numero impressionante, poco meno degli abitanti di Torino incassano la pensione da 37 anni, quando in media dovrebbero essere 25. Siamo sicuri che siano tutti centenari? No, perché li ha contati l’Istat e sono solo 14.456.

Gli abitanti italiani over 65 sono 13,8 milioni: il 22,8% della popolazione (dati Istat), nessuno in Europa ha un tasso così alto, neanche la Germania. I 14enni invece sono solo il 13,2% (8 milioni). Come ha fatto il sistema a non crollare?

Il merito è della ministra più odiata dai leghisti: Elsa Fornero. Alla fine del 2011 ha ideato una riforma che ha imposto il limite oltre i 66 anni per andare in pensione, ovviamente da ricalcolare in base all’adeguamento della prospettiva di vita. Sulla carta è il limite più alto d’Europa. La realtà è diversa. Secondo uno studio dell’OCSE nel 2018 gli italiani sono andati mediamente in pensione a 62 anni, due in meno della media dei 36 Paesi più avanzati del mondo e cinque in meno di quanto previsto dalla "cattivissima" legge. Sempre meglio del 1994 quando l’età media effettiva di pensionamento era scesa a 57 anni.

Se mancano le risorse per coprire il buco c’è solo un’alternativa: ridurre le pensioni o aumentare i contributi. Senza, i più giovani potranno smettere di lavorare molto più in là rispetto ai loro genitori e il loro assegno sarà molto più basso.

Un futuro lontano? Non proprio.

La data da segnarsi sul calendario c’è già: il 2036, per chi ci arriverà. Tra 16 anni inizieranno i primi pensionamenti dei lavoratori che hanno iniziato a versare i contributi dal 1° gennaio 1996. Secondo uno studio della CGIL i 40enni di oggi con un lavoro saltuario o part-time rischiano di andare in pensione non prima dei 73 anni. L’OCSE è un po’ più ottimista: 71 anni.

Ecco, più che di quota 100, 102 o 103, forse sarebbe meglio parlare di questa "quota 73". Ma il politico più popolare del Paese pensa addirittura a introdurre quota 41.

(Tratto da www.linkiesta.it)


2 Commenti

  1. Il difetto di queste formulazioni è il trascurare le differenze tra situazioni lavorative differenti.
    La Quota 100, invece di essere formulata “erga omnes” avrebbe dovuto essere la via d’uscita per situazioni particolari: lavoratori con un’età avanzata all’interno di aziende in crisi o prossime alla chiusura, individuazione di ulteriori attività usuranti quali gli operai di produzione nella generalità.
    Mancano infine gli strumenti che concorrano a formare degli idonei sostegni al reddito per chi ha avuto dei percorsi lavorativi discontinui e si ritrova fuori dal mondo del lavoro dai 58-62 anni di età.
    Viceversa, sentivo stamane un’ascoltatrice di “Circo Massimo” su Radio Capital che, docente di scuola superiore, si beava del fatto di poter andare in pensione con Quota 100, purtroppo certe categorie professionali (impiegati in aziende non in crisi, dipendenti di aziende di Stato, di enti pubblici, ecc.) sarebbe stato opportuno escluderle.

  2. Una visione che non tiene conto dei problemi sociali reali. Per chi ha 60 (ma anche 55) anni il mercato del lavoro è chiuso. Che fare? L’unica soluzione è offrire l’alternativa di un’uscita verso la pensione con conseguenti penalizzazioni. E’ il principio di libertà e autonomia che dovrebbe governare il sistema, soprattutto alla luce di un calcolo tutto contributivo dell’assegno pensionistico. D’altra parte cosa dobbiamo sostenere che i privilegiati in pensione senza quote hanno tutti i diritti e le persone ancora al lavoro tutti i doveri? Peraltro non è vero che il nostro è il sistema previdenziale più oneroso. Lo diventa perché dalla spesa previdenziale non si sottrare la spesa assistenziale. La prima dovrebbe avere carattere meramente assicurativo individuale, la seconda è una spesa sociale di carattere collettivo. E’ un tema complesso che va ripreso definendo intanto degli obiettivi e costruendo intorno agli obiettivi una sana politica dei redditi.

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