Il Paese dove le banche non possono fallire



Andrea Fioravanti    24 Dicembre 2019       0

Che strano. Per un mese qualcuno ha fatto credere agli italiani che il Mes rubasse i loro risparmi per salvare le banche tedesche. Ora si scopre che i soldi dei contribuenti serviranno per aiutare una banca privata. Deutsche Bank? No, l’italianissima Banca Popolare di Bari. I 900 milioni previsti dal governo Conte per salvare l’istituto di credito pugliese dal fallimento attraverso Invitalia e la banca del Mediocredito centrale (ex Banca del Mezzogiorno) sono l’ennesimo intervento diretto o indiretto dello Stato per gestire una banca in crisi.

Negli ultimi cinque anni tra maxi salvataggi, commissariamenti, prestiti, ricapitalizzazioni precauzionali e anticipi cassa, i vari governi giallo, rossi e verdi hanno aiutato Monte dei Paschi di Siena, Banca dell’Etruria, Banca Marche, Cassa di risparmio di Ferrara, Carichieti, Casse di risparmio di Cesena, di Rimini e di San Miniato, Banca Popolare di Vicenza, Veneto banca e Banca Carige. Secondo l’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, capitali e risparmi azzerati, interventi del sistema bancario e intervento pubblico sono costati tra i 60 e 70 miliardi di euro. E lo Stato ha coperto un terzo della spesa totale.

In alcuni casi è giusto intervenire, soprattutto se la banca è considerata di sistema e un eventuale crack porterebbe a una reazione a catena. Bisogna fare attenzione anche quando si parla di banche fondamentali per il tessuto economico di una regione. Chiudere un istituto dalla sera alla mattina porterebbe a un mini shock per famiglie, risparmiatori e imprenditori della zona. Non esiste un’unica ricetta applicabile e i casi sono stati diversi. Ma non si capisce perché in Italia una banca non possa mai fallire quando ci sono ingerenze politiche, governance opaca, conflitti d’interesse, nepotismo, vertici inavomibili, comportamenti clientelari, manager che usano la banca come bancomat per elargire favori personali. E soprattuto perché a pagare debbano sempre essere tutti i contribuenti, quando si parla di banche private.

L’Italia non è stata l’unica a intervenire nel proprio settore bancario. Dopo la crisi economica del 2007 tante banche europee avevano i conti pieni di crediti deteriorati. Ovvero mutui, finanziamenti o prestiti che i debitori non riescono più a ripagare regolarmente o del tutto alla banca. Tra il 2008 e il 2015 i vari governi europei hanno sostenuto le banche per oltre 654 miliardi tra ricapitalizzazioni e interventi sulle attività deteriorate (dati Commissione Europea). Per evitare che si abusasse di nazionalizzazioni e fondi pubblici, nel 2016 l’Unione europea ha varato la direttiva bail-in per coinvolgere nella risoluzione di una crisi bancaria solo azionisti, obbligazionisti e correntisti. Far scomparire a poco a poco le banche malgestite e irrecuperabili per far sì che quelle rimaste potessero erogare con più facilità il credito e fossero più credibili per tutelare i risparmi. Un’idea eversiva per la politica italiana, da sempre pronta a dare una seconda possibilità alla banca che sbaglia. Tutti generosi con i soldi degli altri.

Per questo si parla senza pudore di nazionalizzare e si ringhia al primo giornalista che fa notare che sarebbe un’infrazione delle regole europee contro gli aiuti di Stato. C’è del patologico nella schizofrenia di alcuni partiti italiani che criticano la Commissione europea per aver dato il via libera alla ricapitalizzazione per 2,8 miliardi della banca tedesca Norddeutsche Landesbank. Ricordiamo in quel caso, fatta dai due azionisti pubblici: i lander Sassonia-Anhalt e Bassa Sassonia. Eppure i politici di casa nostra pretendono di fare lo stesso per la Popolare di Bari, anche se è una cooperativa di 69mila azionisti privati. Non si capisce poi con quale criterio la diciannovesima banca italiana con il record di perdite accumulate nel 2018 (420 milioni) che ha quote di mercato intorno al 10% in Puglia, Basilicata e Abruzzo (10% non 60%) con almeno un quarto di crediti che non riavrà mai più possa diventare con soli 900 milioni lo strumento per rilanciare il Mezzogiorno. Un’ipotesi irrealizzabile anche nei sogni più sovranisti.

Anche la Banca d’Italia in questi anni forse non ha gestito al meglio le crisi. Sembra che l’unico strumento di Palazzo Koch per vigilare sia quello di autorizzare senza problemi richieste di aggregazioni tra banche. Ovvero far assorbire una banca piccola e malgestita da una più grande e sana, forse sperando che il fiume sporco si pulisse entrando in un mare. Ma quando un torrente entra in un laghetto allora sono guai. È stato così per Mps con Banca Antonveneta. E Banca d’Italia nel 2014 ha permesso alla Popolare di Bari di acquisire la Cassa di risparmio di Teramo (Tercas), rimasta senza soldi e con un prestito di 480 milioni da restituire a Bankitalia. Dopo l’acquisizione Tercas ha restituito il prestito alla Banca d’Italia ma per la Bpb il boccone è stato amaro: tra il 2015 e il 2016 i crediti deterioriati sono raddoppiati: da 700 milioni a 1,4 miliardi. Anche così si è arrivati in questa situazione.

«Non ci siamo ancora sull’efficacia e sul funzionamento del meccanismo per gestire le crisi bancarie», ha fatto notare anche Andrea Enris il presidente della Vigilanza della Banca centrale europea, durante una conversazione con gli studenti all’Università La Sapienza. «In Europa si è raggiunta una convergenza su tre aspetti chiave. Primo, servono solide posizioni patrimoniali, che mettano gli investitori nella condizione di assorbire un certo ammontare di perdite. Secondo, gli interventi devono essere tempestivi. Terzo, che serve un meccanismo efficace nel rimuovere le banche dal mercato quando non operano bene».

Ecco, invece di criticare in modo confuso e fazioso il MES, le banche tedesche e il bail-in per togliere ai nostri amici europei la pagliuzza nell’occhio, forse sarebbe meglio occuparsi della trave che ci impedisce di vedere una soluzione diversa dalla nazionalizzazione o dall’accorpamento per i risolvere i problemi di una banca.

(Tratto da www.linkiesta.it)


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