Sarebbe utile rileggere le pagine de “La politica come professione” di Max Weber per cogliere il nesso che lega l’essere politico di ‘mestiere’ con l’ispirazione etica che ne sottende e ne promuove il comportamento. Pena il decadere della politica ad una concezione mercantile e opportunistica, legata ad interessi personali e di parte e svincolata dalla motivazione ideale che invece la nobilita fino a renderla ad un tempo scienza e arte al servizio della collettività.
Così come sarebbe opportuno richiamare i principi elaborati da Elinor Ostrom, insignita nel 2009 del Premio Nobel per i suoi studi sul rapporto tra “buon governo” e ricerca del bene comune, per capire quanto sia importante la dimensione valoriale nei comportamenti umani: la consapevolezza che ci guida nelle nostre azioni nasce dal presupposto di essere parte dell’umanità, nel suo incessante cammino verso condizioni migliori di vita per tutti, senza sacche di privilegi o nicchie di profitto e speculazione.
Poiché se è vero che – come ricorda il filosofo Umberto Galimberti – è il “pensiero-che-fa-di-conto” la molla che spinge oggi l’organizzazione del mondo, diventa persino impensabile immaginare una politica come arte del buon governo al servizio di interessi superiori e condivisi, nelle azioni praticate e nei risultati conseguiti.
Il malessere e l’insoddisfazione diffusi, le mille sfumature della solitudine esistenziale sono lo specchio di una condizione antropologica piegata ad un destino di incertezza e soccombenza.
Dobbiamo peraltro esser grati a Zygmunt Bauman per le sue ricerche sulla “società liquida” che è stata forse la suggestione culturale più efficace e colorita per descrivere i fenomeni del nostro tempo e la collocazione dell’uomo negli eventi, nei disagi e nei conflitti della contemporaneità in una società dove sono venuti meno- ad uno ad uno – i punti di riferimento rassicuranti che costituivano la base dell’idea di progresso e di miglioramento della condizione esistenziale.
L’individualismo sfrenato che emerge con la crisi della comunità, rende fragili i contorni della società e la trasforma, appunto, in una entità liquida, dove tutto è possibile, nel trionfo del relativismo culturale e di un mondo dell’apparire più che dell’essere.
Pare utile infine richiamare l’analisi sociologica sempre puntuale del Rapporto Censis e del suo Presidente Prof. De Rita perché risulta una chiave di lettura straordinaria della società italiana e della politica nei loro rapporti speculari e non sempre univoci, tanto che da decenni viene evidenziato il gap che separa il Paese legale dal Paese reale.
L’arte del saper governare non è un dono di natura: in una società complessa e cosmopolita essa richiede una preparazione culturale che le è prodromica poiché è impensabile scindere o spezzare il nesso che lega l’esercizio della responsabilità con il possesso di una sicura competenza.
Il passaggio dalla protesta alla proposta non è facile e non sempre garantisce soluzioni praticabili.
Volendo contestualizzare questo assioma che è un po’ la sintesi dei riferimenti cui si è fatto cenno in premessa con la situazione attuale, si evidenziano alcuni passaggi che meglio spiegano il senso di una crisi tra popolo e istituzioni ormai di lunga deriva.
Il primo rilievo riguarda la discrasia tra rappresentanti e rappresentati, la difficoltà di osservare, leggere, cogliere, interpretare i problemi della società e di metabolizzarli nel contesto istituzionale.
Non per niente si invoca sempre il dovere di immedesimarsi nelle problematiche esistenziali della gente pena una evidente autoreferenzialità della politica.
Una seconda osservazione concerne la tendenza alla personalizzazione: la politica non è più luogo di elaborazione progettuale di nuovi modelli sociali poiché si esaurisce in una dimensione asfittica di appartenenza e in una organizzazione verticistica e piramidale. L’iconografia del leader riassume un bisogno positivo di identificazione ma impoverisce la dimensione dialogica interna ai partiti poiché prevalgono i valori dell’appartenenza e della fedeltà su quelli del confronto e del merito.
Nella tanto vituperata Prima Repubblica i partiti celebravano i congressi come momento di approfondimento e di elaborazione di proposte. Oggi la democrazia virtuale sembra sostituire quelle dinamiche: tutto è sincopato, ci si esprime per frasi fatte e luoghi comuni, gli slogan prevalgono sui ragionamenti, i blog sostituiscono le sezioni e i luoghi di incontro, si assiste ad un decadimento del linguaggio come strumento di comunicazione, poiché prevalgono gli insulti, le invettive e le mirabolanti promesse.
La politica come professione non è il “beruf” di cui ci parla Max Weber ma una ribalta per dilettanti allo sbaraglio. Tutto resta sottotraccia e sovente inespresso, la rete ha imposto schemi e metodi comunicativi che producono “effetti speciali” piuttosto che favorire l’interlocuzione e la comprensione.
Senza contare che molto deve essere ancora spiegato e capito sui meccanismi di funzionamento della democrazia on-line, delle candidature attraverso internet, della certificazione e validazione delle scelte, siano esse riferite alle singole persone o espressione di una linea politica senza matrice culturale e dalle origini incerte.
Molto di quanto avviene oggi si esaurisce nelle suggestioni del momento.
Manca alla politica – per diventare luogo del buon governo e della tutela degli interessi generali – una prospettiva di lungo periodo, una “stabilità” che consenta riforme strutturali durature e credibili, un aggancio paradigmatico alla dimensione internazionale delle dinamiche sociali e culturali del nostro tempo, una serietà propositiva che non ci renda ridicoli al cospetto degli osservatori esteri.
Un conto è raccogliere consensi sulla base di promesse elettorali – e sarebbe importante riflettere sul perché questo schema, nonostante la storia ci insegni il contrario funzioni sempre – un altro è esprimere una “visione” politica della società e delle sue istituzioni, degli stili di vita individuali e collettivi sostenibili.
Non è richiesto di seguire le derive e le scelte altrui: all’Italia serve oggi una dignità nazionale che si va affievolendo, la scelta di una classe dirigente capace e responsabile, la riconquista di un prestigio perduto. Non ci mancano tradizioni culturali, riferimenti ideali, risorse umane da valorizzare. Ma dobbiamo riprendere saldamente il timone della nostra navigazione nel mare magnum della contemporaneità e orientarlo verso mete più rassicuranti.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
Così come sarebbe opportuno richiamare i principi elaborati da Elinor Ostrom, insignita nel 2009 del Premio Nobel per i suoi studi sul rapporto tra “buon governo” e ricerca del bene comune, per capire quanto sia importante la dimensione valoriale nei comportamenti umani: la consapevolezza che ci guida nelle nostre azioni nasce dal presupposto di essere parte dell’umanità, nel suo incessante cammino verso condizioni migliori di vita per tutti, senza sacche di privilegi o nicchie di profitto e speculazione.
Poiché se è vero che – come ricorda il filosofo Umberto Galimberti – è il “pensiero-che-fa-di-conto” la molla che spinge oggi l’organizzazione del mondo, diventa persino impensabile immaginare una politica come arte del buon governo al servizio di interessi superiori e condivisi, nelle azioni praticate e nei risultati conseguiti.
Il malessere e l’insoddisfazione diffusi, le mille sfumature della solitudine esistenziale sono lo specchio di una condizione antropologica piegata ad un destino di incertezza e soccombenza.
Dobbiamo peraltro esser grati a Zygmunt Bauman per le sue ricerche sulla “società liquida” che è stata forse la suggestione culturale più efficace e colorita per descrivere i fenomeni del nostro tempo e la collocazione dell’uomo negli eventi, nei disagi e nei conflitti della contemporaneità in una società dove sono venuti meno- ad uno ad uno – i punti di riferimento rassicuranti che costituivano la base dell’idea di progresso e di miglioramento della condizione esistenziale.
L’individualismo sfrenato che emerge con la crisi della comunità, rende fragili i contorni della società e la trasforma, appunto, in una entità liquida, dove tutto è possibile, nel trionfo del relativismo culturale e di un mondo dell’apparire più che dell’essere.
Pare utile infine richiamare l’analisi sociologica sempre puntuale del Rapporto Censis e del suo Presidente Prof. De Rita perché risulta una chiave di lettura straordinaria della società italiana e della politica nei loro rapporti speculari e non sempre univoci, tanto che da decenni viene evidenziato il gap che separa il Paese legale dal Paese reale.
L’arte del saper governare non è un dono di natura: in una società complessa e cosmopolita essa richiede una preparazione culturale che le è prodromica poiché è impensabile scindere o spezzare il nesso che lega l’esercizio della responsabilità con il possesso di una sicura competenza.
Il passaggio dalla protesta alla proposta non è facile e non sempre garantisce soluzioni praticabili.
Volendo contestualizzare questo assioma che è un po’ la sintesi dei riferimenti cui si è fatto cenno in premessa con la situazione attuale, si evidenziano alcuni passaggi che meglio spiegano il senso di una crisi tra popolo e istituzioni ormai di lunga deriva.
Il primo rilievo riguarda la discrasia tra rappresentanti e rappresentati, la difficoltà di osservare, leggere, cogliere, interpretare i problemi della società e di metabolizzarli nel contesto istituzionale.
Non per niente si invoca sempre il dovere di immedesimarsi nelle problematiche esistenziali della gente pena una evidente autoreferenzialità della politica.
Una seconda osservazione concerne la tendenza alla personalizzazione: la politica non è più luogo di elaborazione progettuale di nuovi modelli sociali poiché si esaurisce in una dimensione asfittica di appartenenza e in una organizzazione verticistica e piramidale. L’iconografia del leader riassume un bisogno positivo di identificazione ma impoverisce la dimensione dialogica interna ai partiti poiché prevalgono i valori dell’appartenenza e della fedeltà su quelli del confronto e del merito.
Nella tanto vituperata Prima Repubblica i partiti celebravano i congressi come momento di approfondimento e di elaborazione di proposte. Oggi la democrazia virtuale sembra sostituire quelle dinamiche: tutto è sincopato, ci si esprime per frasi fatte e luoghi comuni, gli slogan prevalgono sui ragionamenti, i blog sostituiscono le sezioni e i luoghi di incontro, si assiste ad un decadimento del linguaggio come strumento di comunicazione, poiché prevalgono gli insulti, le invettive e le mirabolanti promesse.
La politica come professione non è il “beruf” di cui ci parla Max Weber ma una ribalta per dilettanti allo sbaraglio. Tutto resta sottotraccia e sovente inespresso, la rete ha imposto schemi e metodi comunicativi che producono “effetti speciali” piuttosto che favorire l’interlocuzione e la comprensione.
Senza contare che molto deve essere ancora spiegato e capito sui meccanismi di funzionamento della democrazia on-line, delle candidature attraverso internet, della certificazione e validazione delle scelte, siano esse riferite alle singole persone o espressione di una linea politica senza matrice culturale e dalle origini incerte.
Molto di quanto avviene oggi si esaurisce nelle suggestioni del momento.
Manca alla politica – per diventare luogo del buon governo e della tutela degli interessi generali – una prospettiva di lungo periodo, una “stabilità” che consenta riforme strutturali durature e credibili, un aggancio paradigmatico alla dimensione internazionale delle dinamiche sociali e culturali del nostro tempo, una serietà propositiva che non ci renda ridicoli al cospetto degli osservatori esteri.
Un conto è raccogliere consensi sulla base di promesse elettorali – e sarebbe importante riflettere sul perché questo schema, nonostante la storia ci insegni il contrario funzioni sempre – un altro è esprimere una “visione” politica della società e delle sue istituzioni, degli stili di vita individuali e collettivi sostenibili.
Non è richiesto di seguire le derive e le scelte altrui: all’Italia serve oggi una dignità nazionale che si va affievolendo, la scelta di una classe dirigente capace e responsabile, la riconquista di un prestigio perduto. Non ci mancano tradizioni culturali, riferimenti ideali, risorse umane da valorizzare. Ma dobbiamo riprendere saldamente il timone della nostra navigazione nel mare magnum della contemporaneità e orientarlo verso mete più rassicuranti.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
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