Giulio Prosperetti, con il suo Ripensiamo lo Stato Sociale (Ed. Wolters Kluwer Cedam), ci fa il dono di completare una riflessione lunga 25 anni.
Il ripensamento dello Stato Sociale è reso sempre più necessario per il permanere di una grave crisi che investe il mondo del lavoro, i pensionati, i giovani e quanti hanno bisogno di un welfare sempre più afflitto da criticità. Anche questo genere di difficoltà favoriscono i processi di decomposizione sociale e impoveriscono e deformano le relazioni pubbliche e private.
Siamo di fronte ad un intreccio di cause ed effetti che interagiscono le une sugli altri. Le loro conseguenze sono quelle di un vero e proprio liquefarsi di quel collante pubblico e civile che per lunghi decenni ha sostanziato nel Paese una effettiva comunità d’intenti e di prospettive, a dispetto di divisioni geografiche, sociali e politiche.
L’indebolimento dello Stato sociale è andato di pari passo con il diffondersi del germe della divisione radicale e delle estreme contrapposizioni scaturite in quelle che usiamo chiamare l’odio sociale. Tra le generazioni, tra gruppi e categorie, tra occupati, non occupati e immigrati, tra chi ha una specie di contratto di lavoro e il precario, tra chi la pensione già ce l’ha e chi, invece, non sa persino se l’avrà e se, con essa, sarà in grado di vedersi garantita una vecchiaia serena.
A livello politico, le conseguenze sono quelle dell’astensionismo. Nella dimensione civica, l’indifferenza e l’ostilità preconcetta. Nei rapporti con le istituzioni e le organizzazioni di rappresentanza, la diffidenza e la sfiducia. Nella realtà del nostro quotidiano, il ripiegamento nei piccoli egoismi e nella lettura parziale e interessata dei fenomeni privati e pubblici.
Eppure, questo volume che raccoglie gli scritti di Giulio Prosperetti dal 1994 ai giorni nostri va letto all’insegna di quell’ottimismo fondato sulla consapevolezza che esistono, nonostante tutto, ampi margini d’intervento. Egli, infatti, crede che la “ crisi economica- sociale non sia obiettiva. Ma in gran parte determinata dalla vetustà degli strumenti giuridici che regolano la società, tutti sorti in un contesto di società industriale avanzata e la cui utilizzazione, nell’attuale diverso scenario, finisce con l’accentuare i problemi, anziché risolverli”.
Quello di Prosperetti non è, dunque, un ragionamento accademico, ma diventa politico da scriversi con la “P” maiuscola perché con esso s’intende capacità e volontà di conoscere lo stato delle cose e intervenire per cambiarle. Non vi si coglie un’alea di astrattezza o un limitarsi ad una semplice disquisizione scientifica o alla contemplazione di una impossibilità, o persino, della inutilità di un’azione.Giulio Prosperetti è dal 2015 uno dei Giudici della Corte Costituzionale. Per decenni è stato uno dei pochi giuslavoristi a non aver “tradito” la grande e significativa stagione in cui ci si è impegnati, nonostante ritardi e contraddizioni, a impostare nuove relazioni giuridiche nel mondo del lavoro.
Quasi solitario nel suo campo, non ha partecipato alla demolizione della grande stagione aperta con il varo delle leggi di tutela del lavoro e dei lavoratori. Tra di esse spicca quello Statuto, legato ai nomi di Brodolini e di Donat-Cattin, che consentì un riequilibrio importante, anche sotto il profilo culturale, oltre che giuridico e giurisdizionale.
In effetti, oggi, assistiamo a un parziale smantellamento di un insieme di leggi e di regole, a suo tempo frutto di una convergenza di una gran parte del Paese. A ciò si aggiungono, all’interno del più ampio fenomeno della globalizzazione, le trasformazioni intervenute nel sociale, nei sistemi di produzione, nella presenza delle istituzioni, nella capacità pubblica di assicurare servizi essenziali.
Le riflessioni di Giulio Prosperetti prendono le prime mosse sin dal 1994. Già da allora, egli registrò l’impeto delle modifiche intervenute nel sistema economico. Inevitabili, a seguito della inarrestabile “internazionalizzazione dei mercati”, destinata a travolgere la “nazionalità del diritto”. A maggior ragione oggi, egli sottolinea, c’è la necessità di preoccuparci di concepire “ un sistema di tutele della persona all’interno di un sistema di sicurezza sociale basato sulla solidarietà” e in grado di giustapporsi al “libero fluttuare dell’economia”.
L’unica risposta avrebbe dovuto essere quella di pensare ad una della difesa della Persona nei confronti del potere economico “quale diretta derivazione dai principi dello Stato liberale”, simile a ciò che concerne “un’analoga difesa nei confronti del potere politico”.
Dunque, conclusioni consolidate. Valide e da ribadire più che mai ai giorni nostri: “siamo costretti ad usare strumenti vecchi, inadeguati (e per certi versi ingiusti), per affrontare problemi che presuppongono un quadro culturale ed istituzionale ancora da costruire; il dirigismo statale è caratterizzato dall’enfatizzazione delle politiche monetarie che potrebbero dirsi costituiscono, sul piano dell’ordinamento”, (non era ancora intervenuta l’introduzione dell’Euro, ma la questione è ancora molto agitata da chi pensa di risolvere tutti i problemi con l’intervento di natura specificamente monetaria, nda).
Il ragionamento di Giulio Prosperetti è del tutto coincidente con quanto scriviamo nel nostro Manifesto ( CLICCA QUI ) a proposito delle trasformazioni del welfare che deve diventare “welfare di comunità, grazie al quale è l’intera società, non solo lo Stato, a farsi carico del benessere di coloro che in essa vivono, con l’apporto degli enti pubblici, delle imprese e della società civile organizzata attorno alla famiglia”.
Giulio Prosperetti sostiene che sia necessario non continuare a valutare solamente la questione economica insita nella crisi dello Stato sociale. Ciò cui deve essere posta attenzione è in primo luogo la revisione degli strumenti giuridici che la riguardano.
“La società e le sue esigenze- riprende oggi il ragionamento del passato- stanno mutando velocemente, ma persistono istituti giuridici concepiti in realtà storiche diverse che nella loro applicazione ad una nuova realtà creano situazioni paradossali e disfunzioni”.
Va, ad esempio, ripensata la reazione alla disoccupazione che non può certamente essere delimitata solo ad un’area di lavoratori i quali, come accadeva nel passato, erano da considerarsi solo “temporaneamente disoccupati”. La mancanza di lavoro oggi non è più episodica: è strutturale. Può bastare allora pensare al solo reddito di cittadinanza?
Le trasformazioni, infatti, riguardano anche in quella che era la tradizionale divisione tra lavoro subordinato e quello autonomo a seguito dell’aumentata “flessibilizzazione delle modalità di prestazione di lavoro” che ha trasformato completamente i paradigmi di riferimento del passato.
Del resto, Prosperetti ricorda, si sono modificate anche le relazioni tra il datore di lavoro e i suoi dipendenti dei quali il primo non “compra” più l’orario di lavoro, bensì la professionalità e le competenze. Queste possono persino essere slegate dal luogo in cui la prestazione è effettuata e, così, tutto il ragionamento sul riconoscimento dell’attività lavorativa, o sul suo sfruttamento, finisce per interessare una produttività autonoma piuttosto che quella subordinata.
Necessario cambiare dunque la lettura delle cose. I primi che mostrano in questo una difficoltà sono i sindacati inadeguati a garantire la tutela dei diritti di un lavoratore non dipendente.
Secondo Prosperetti, non si può continuare a concepire un welfare finanziato solamente con le contribuzioni individuali dei lavoratori. I profitti più alti sono oggi garantiti , infatti, dalle imprese più automatizzate e, in proporzione, da quelle con un minor numero di addetti. Con il paradosso che le aziende con più dipendenti realizzano minor ricavi, ma è loro richiesto un esborso maggiore cui far fronte.
Questo è un punto su cui è possibile intervenire: reperire le risorse necessarie sulla base di un ricalcolo del prelievo in relazione al fatturato invece che al numero dei lavoratori impiegati.
Le riflessioni di Prosperetti riguardano pure i meccanismi che non consentiranno “ai precari di oggi di raggiungere un soddisfacente trattamento pensionistico” e che non tengono conto del fatto che, adesso, “l’abbandono dell’attività lavorativa non coincide con la decadenza fisica ( salvo i casi di lavoratori particolarmente usurati )” e quindi, inevitabilmente, ci troviamo di fronte ad una serie di fattori che pongono il problema della “sostenibilità del sistema”.
Anche sulle assicurazioni infortuni, sulla cassa integrazione e sui lavori socialmente utili è possibile avviare un ripensamento. A partire da quello che dovrebbe portare a non utilizzare più l’Inail quale finanziatore per “investimenti estranei ai propri fini istituzionali”, ridurre i premi assicurativi ed evitare, come accaduto ed accade per la cassa integrazione straordinaria, di distorcere l’utilizzazione di istituti giuridici nati per rispondere a situazioni episodiche e transitorie.
Si tratta dello stesso uso strumentale dei provvedimenti pensati per quanto sono impegnati in lavori socialmente utili da cui sono esclusi proprio i disoccupati di lunga durata per i quali si era prefigurato una tale forma d’intervento sociale.
Che l’inadeguatezza di tutto il nostro sistema di tutela sociale subisca l’influsso dei cambiamenti intervenuti a livello di macro dinamiche globali, extra nazionali, è confermato da ciò che Prosperetti definisce “dumping sociale”. Quello operato a danno delle nostra economia da paesi che, pur parte dell’Unione europea, praticano retribuzioni “incommensurabilmente “ più basse rispetto a quelle praticate in Italia.
Ciò dovrebbe spingere, a suo avviso, ad intervenire anche sulla politica retributiva. Come? Intanto diminuendo “radicalmente” il costo del lavoro in Italia e rispondendo così alla pratica della delocalizzazione. Lo Stato potrebbe integrare la retribuzione dei lavoratori che “operano in quei settori maggiormente esposti alla concorrenza internazionale”.
In questo modo, conclude Prosperetti, si supererebbe “l’alternativa occupazione – disoccupazione, nel senso che lavoratori destinati a ritrovarsi disoccupati per la delocalizzazione dell’impresa, troverebbero invece opportunità di continuare a lavorare, grazie a un’integrazione delle loro retribuzioni da parte della fiscalità generale che ne renderebbe accettabile il complessivo reddito”.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
Il ripensamento dello Stato Sociale è reso sempre più necessario per il permanere di una grave crisi che investe il mondo del lavoro, i pensionati, i giovani e quanti hanno bisogno di un welfare sempre più afflitto da criticità. Anche questo genere di difficoltà favoriscono i processi di decomposizione sociale e impoveriscono e deformano le relazioni pubbliche e private.
Siamo di fronte ad un intreccio di cause ed effetti che interagiscono le une sugli altri. Le loro conseguenze sono quelle di un vero e proprio liquefarsi di quel collante pubblico e civile che per lunghi decenni ha sostanziato nel Paese una effettiva comunità d’intenti e di prospettive, a dispetto di divisioni geografiche, sociali e politiche.
L’indebolimento dello Stato sociale è andato di pari passo con il diffondersi del germe della divisione radicale e delle estreme contrapposizioni scaturite in quelle che usiamo chiamare l’odio sociale. Tra le generazioni, tra gruppi e categorie, tra occupati, non occupati e immigrati, tra chi ha una specie di contratto di lavoro e il precario, tra chi la pensione già ce l’ha e chi, invece, non sa persino se l’avrà e se, con essa, sarà in grado di vedersi garantita una vecchiaia serena.
A livello politico, le conseguenze sono quelle dell’astensionismo. Nella dimensione civica, l’indifferenza e l’ostilità preconcetta. Nei rapporti con le istituzioni e le organizzazioni di rappresentanza, la diffidenza e la sfiducia. Nella realtà del nostro quotidiano, il ripiegamento nei piccoli egoismi e nella lettura parziale e interessata dei fenomeni privati e pubblici.
Eppure, questo volume che raccoglie gli scritti di Giulio Prosperetti dal 1994 ai giorni nostri va letto all’insegna di quell’ottimismo fondato sulla consapevolezza che esistono, nonostante tutto, ampi margini d’intervento. Egli, infatti, crede che la “ crisi economica- sociale non sia obiettiva. Ma in gran parte determinata dalla vetustà degli strumenti giuridici che regolano la società, tutti sorti in un contesto di società industriale avanzata e la cui utilizzazione, nell’attuale diverso scenario, finisce con l’accentuare i problemi, anziché risolverli”.
Quello di Prosperetti non è, dunque, un ragionamento accademico, ma diventa politico da scriversi con la “P” maiuscola perché con esso s’intende capacità e volontà di conoscere lo stato delle cose e intervenire per cambiarle. Non vi si coglie un’alea di astrattezza o un limitarsi ad una semplice disquisizione scientifica o alla contemplazione di una impossibilità, o persino, della inutilità di un’azione.Giulio Prosperetti è dal 2015 uno dei Giudici della Corte Costituzionale. Per decenni è stato uno dei pochi giuslavoristi a non aver “tradito” la grande e significativa stagione in cui ci si è impegnati, nonostante ritardi e contraddizioni, a impostare nuove relazioni giuridiche nel mondo del lavoro.
Quasi solitario nel suo campo, non ha partecipato alla demolizione della grande stagione aperta con il varo delle leggi di tutela del lavoro e dei lavoratori. Tra di esse spicca quello Statuto, legato ai nomi di Brodolini e di Donat-Cattin, che consentì un riequilibrio importante, anche sotto il profilo culturale, oltre che giuridico e giurisdizionale.
In effetti, oggi, assistiamo a un parziale smantellamento di un insieme di leggi e di regole, a suo tempo frutto di una convergenza di una gran parte del Paese. A ciò si aggiungono, all’interno del più ampio fenomeno della globalizzazione, le trasformazioni intervenute nel sociale, nei sistemi di produzione, nella presenza delle istituzioni, nella capacità pubblica di assicurare servizi essenziali.
Le riflessioni di Giulio Prosperetti prendono le prime mosse sin dal 1994. Già da allora, egli registrò l’impeto delle modifiche intervenute nel sistema economico. Inevitabili, a seguito della inarrestabile “internazionalizzazione dei mercati”, destinata a travolgere la “nazionalità del diritto”. A maggior ragione oggi, egli sottolinea, c’è la necessità di preoccuparci di concepire “ un sistema di tutele della persona all’interno di un sistema di sicurezza sociale basato sulla solidarietà” e in grado di giustapporsi al “libero fluttuare dell’economia”.
L’unica risposta avrebbe dovuto essere quella di pensare ad una della difesa della Persona nei confronti del potere economico “quale diretta derivazione dai principi dello Stato liberale”, simile a ciò che concerne “un’analoga difesa nei confronti del potere politico”.
Dunque, conclusioni consolidate. Valide e da ribadire più che mai ai giorni nostri: “siamo costretti ad usare strumenti vecchi, inadeguati (e per certi versi ingiusti), per affrontare problemi che presuppongono un quadro culturale ed istituzionale ancora da costruire; il dirigismo statale è caratterizzato dall’enfatizzazione delle politiche monetarie che potrebbero dirsi costituiscono, sul piano dell’ordinamento”, (non era ancora intervenuta l’introduzione dell’Euro, ma la questione è ancora molto agitata da chi pensa di risolvere tutti i problemi con l’intervento di natura specificamente monetaria, nda).
Il ragionamento di Giulio Prosperetti è del tutto coincidente con quanto scriviamo nel nostro Manifesto ( CLICCA QUI ) a proposito delle trasformazioni del welfare che deve diventare “welfare di comunità, grazie al quale è l’intera società, non solo lo Stato, a farsi carico del benessere di coloro che in essa vivono, con l’apporto degli enti pubblici, delle imprese e della società civile organizzata attorno alla famiglia”.
Giulio Prosperetti sostiene che sia necessario non continuare a valutare solamente la questione economica insita nella crisi dello Stato sociale. Ciò cui deve essere posta attenzione è in primo luogo la revisione degli strumenti giuridici che la riguardano.
“La società e le sue esigenze- riprende oggi il ragionamento del passato- stanno mutando velocemente, ma persistono istituti giuridici concepiti in realtà storiche diverse che nella loro applicazione ad una nuova realtà creano situazioni paradossali e disfunzioni”.
Va, ad esempio, ripensata la reazione alla disoccupazione che non può certamente essere delimitata solo ad un’area di lavoratori i quali, come accadeva nel passato, erano da considerarsi solo “temporaneamente disoccupati”. La mancanza di lavoro oggi non è più episodica: è strutturale. Può bastare allora pensare al solo reddito di cittadinanza?
Le trasformazioni, infatti, riguardano anche in quella che era la tradizionale divisione tra lavoro subordinato e quello autonomo a seguito dell’aumentata “flessibilizzazione delle modalità di prestazione di lavoro” che ha trasformato completamente i paradigmi di riferimento del passato.
Del resto, Prosperetti ricorda, si sono modificate anche le relazioni tra il datore di lavoro e i suoi dipendenti dei quali il primo non “compra” più l’orario di lavoro, bensì la professionalità e le competenze. Queste possono persino essere slegate dal luogo in cui la prestazione è effettuata e, così, tutto il ragionamento sul riconoscimento dell’attività lavorativa, o sul suo sfruttamento, finisce per interessare una produttività autonoma piuttosto che quella subordinata.
Necessario cambiare dunque la lettura delle cose. I primi che mostrano in questo una difficoltà sono i sindacati inadeguati a garantire la tutela dei diritti di un lavoratore non dipendente.
Secondo Prosperetti, non si può continuare a concepire un welfare finanziato solamente con le contribuzioni individuali dei lavoratori. I profitti più alti sono oggi garantiti , infatti, dalle imprese più automatizzate e, in proporzione, da quelle con un minor numero di addetti. Con il paradosso che le aziende con più dipendenti realizzano minor ricavi, ma è loro richiesto un esborso maggiore cui far fronte.
Questo è un punto su cui è possibile intervenire: reperire le risorse necessarie sulla base di un ricalcolo del prelievo in relazione al fatturato invece che al numero dei lavoratori impiegati.
Le riflessioni di Prosperetti riguardano pure i meccanismi che non consentiranno “ai precari di oggi di raggiungere un soddisfacente trattamento pensionistico” e che non tengono conto del fatto che, adesso, “l’abbandono dell’attività lavorativa non coincide con la decadenza fisica ( salvo i casi di lavoratori particolarmente usurati )” e quindi, inevitabilmente, ci troviamo di fronte ad una serie di fattori che pongono il problema della “sostenibilità del sistema”.
Anche sulle assicurazioni infortuni, sulla cassa integrazione e sui lavori socialmente utili è possibile avviare un ripensamento. A partire da quello che dovrebbe portare a non utilizzare più l’Inail quale finanziatore per “investimenti estranei ai propri fini istituzionali”, ridurre i premi assicurativi ed evitare, come accaduto ed accade per la cassa integrazione straordinaria, di distorcere l’utilizzazione di istituti giuridici nati per rispondere a situazioni episodiche e transitorie.
Si tratta dello stesso uso strumentale dei provvedimenti pensati per quanto sono impegnati in lavori socialmente utili da cui sono esclusi proprio i disoccupati di lunga durata per i quali si era prefigurato una tale forma d’intervento sociale.
Che l’inadeguatezza di tutto il nostro sistema di tutela sociale subisca l’influsso dei cambiamenti intervenuti a livello di macro dinamiche globali, extra nazionali, è confermato da ciò che Prosperetti definisce “dumping sociale”. Quello operato a danno delle nostra economia da paesi che, pur parte dell’Unione europea, praticano retribuzioni “incommensurabilmente “ più basse rispetto a quelle praticate in Italia.
Ciò dovrebbe spingere, a suo avviso, ad intervenire anche sulla politica retributiva. Come? Intanto diminuendo “radicalmente” il costo del lavoro in Italia e rispondendo così alla pratica della delocalizzazione. Lo Stato potrebbe integrare la retribuzione dei lavoratori che “operano in quei settori maggiormente esposti alla concorrenza internazionale”.
In questo modo, conclude Prosperetti, si supererebbe “l’alternativa occupazione – disoccupazione, nel senso che lavoratori destinati a ritrovarsi disoccupati per la delocalizzazione dell’impresa, troverebbero invece opportunità di continuare a lavorare, grazie a un’integrazione delle loro retribuzioni da parte della fiscalità generale che ne renderebbe accettabile il complessivo reddito”.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
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