Su una cosa, Davide Casaleggio ha ragione: la democrazia liberale – quella che è nata nel 1689 nel Regno Unito al termine di anni di rivoluzioni gloriose – rischia la propria stessa sopravvivenza. E, tuttavia, è un grave errore di sottovalutazione ritenere che «i tempi di sperimentazione» sono finiti: non abbiamo ancora una ricetta uscita da qualche laboratorio di Silicon Valley ed è, anzi, urgentissimo costruire gli strumenti – intellettuali, politici – per governare la mutazione che internet ha avviato.
L’urgenza di capire cosa possiamo concretamente fare per salvare il nostro «stile di vita» è dimostrata dal fatto che nelle capitali dei due Paesi che hanno inventato, difeso e – con minore o maggiore successo – esportato la nozione di democrazia, la crisi di fiducia è andata al potere. La democrazia è in crisi, insomma, e stavolta non possiamo neppure aspettarci di essere salvati dagli americani o dagli inglesi, come quando pure riuscimmo a sconfiggere macchine da guerra di enorme potenza.
È una crisi di obsolescenza tecnologica, quella che stanno vivendo i processi attraverso i quali formiamo decisioni collettive e per avere un’idea sufficientemente potente della natura del problema che l’Occidente deve affrontare, può essere, infatti, utile ricorrere alla Storia. La rivoluzione tecnologica più simile a quella che internet ha avviato è quella cominciata a metà del Quattrocento, quando Johannes Gutenberg inventa la macchina per stampare, importandone la tecnica dalla Cina. Quell’oggetto modificò completamente la distribuzione dell’informazione e, siccome al controllo dell’informazione è legato il potere, cominciò da Magonza un processo storico dalle conseguenze straordinarie. La Chiesa non ebbe più il monopolio della riproduzione e dell’interpretazione della conoscenza; Martin Lutero – nella stessa nazione e mezzo secolo dopo l’impresa di Gutenberg – dichiarò di non aver più bisogno della Chiesa per leggere le scritture; si esaurì il Medio Evo e un paio di secoli dopo, a Westminster appunto, fu sancita la fine della monarchia assoluta e la nascita dei parlamenti. Oggi, come allora, la tecnologia ridistribuisce informazione e, dunque, esige nuove modalità – le chiamiamo istituzioni – attraverso le quali il potere si acquisisce, si limita, si esercita. Stavolta, però, come per una qualche legge del contrappasso, è la democrazia liberale che rischia di essere dalla parte sbagliata della Storia.
L’aspetto più grave è, però, che ci manca una teoria di ciò che sta succedendo. Ci manca, anzi, l’ambizione per immaginarne una nuova e la capacità di unire quelle competenze che – nelle migliori di università del mondo – si sono separate impedendoci di capire cosa sta davvero succedendo. Mancano le idee che possano ridare energia al regime politico che accompagnò il più grande balzo in avanti che l’Occidente abbia mai conosciuto. Ed è un vuoto che può certo essere colmato attraverso la piattaforma attraverso la quale gli aderenti a un movimento scelgono se appoggiare un governo. Anche perché, invece, dovremmo porre la necessità di regolare la vita dei partiti (cosa che i padri costituenti, esplicitamente, esclusero) e il voto elettronico (che in Estonia utilizzano regolarmente).
La prospettiva (ne parlo nel libro «Lezioni cinesi» nel quale osservo il paradosso della Cina che – senza aver mai avuto un’elezione politica – sta vincendo il ventunesimo secolo) può, forse, essere quella di trasformare l’idea stessa che abbiamo di democrazia. Non più solo meccanismo attraverso il quale ci limitiamo a scegliere la nostra classe dirigente o (nella stessa ipotesi di democrazia diretta) tra due possibili proposte; ma «sistema informativo» attraverso il quale far emergere bisogni e competenze individuali e aggregarle in intelligenza collettiva, coscienza di essere comunità. Democrazia come metodo per risolvere problemi e non solo, a questo si è ridotto in Italia, come mezzo di televoto per esprimere preferenze sui personaggi di una soap opera irrilevante.
Se fosse questa l’intuizione da cui partire, ne potremmo, forse, derivare innovazioni concrete. Riorganizzare i confronti elettorali per problemi (copiando gli svizzeri) e per servizi pubblici (un giorno potremmo immaginare di far eleggere il presidente della Rai a chi paga il canone), perché in fondo le elezioni politiche generali pongono agli elettori una scelta molto più complessa. Introdurre in Europa la possibilità di votare ed essere votati in collegi non più legati a un territorio. Dare un voto in più a ogni genitore per ciascun figlio minorenne, visto che sono gli adolescenti quelli che più hanno più da perdere per decisioni sbagliate. Spostare competenze e risorse dalle Regioni e dagli Stati alle città la cui stessa dimensione rende possibile il confronto.
La democrazia liberale è, come ricorderebbe Churchill, il migliore regime politico tra quelli che l’uomo ha inventato per stare insieme. La strada per salvarlo è restituirgli efficienza e la capacità di farci riconoscere come comunità. Per riuscirci bisognerebbe mettere insieme la sensibilità di chi ha vissuto di Costituzioni e ne riconosce la fragile importanza, e di chi ha consapevolezza delle forze che le tecnologie stanno scatenando.
(Tratto da www.corriere.it)
L’urgenza di capire cosa possiamo concretamente fare per salvare il nostro «stile di vita» è dimostrata dal fatto che nelle capitali dei due Paesi che hanno inventato, difeso e – con minore o maggiore successo – esportato la nozione di democrazia, la crisi di fiducia è andata al potere. La democrazia è in crisi, insomma, e stavolta non possiamo neppure aspettarci di essere salvati dagli americani o dagli inglesi, come quando pure riuscimmo a sconfiggere macchine da guerra di enorme potenza.
È una crisi di obsolescenza tecnologica, quella che stanno vivendo i processi attraverso i quali formiamo decisioni collettive e per avere un’idea sufficientemente potente della natura del problema che l’Occidente deve affrontare, può essere, infatti, utile ricorrere alla Storia. La rivoluzione tecnologica più simile a quella che internet ha avviato è quella cominciata a metà del Quattrocento, quando Johannes Gutenberg inventa la macchina per stampare, importandone la tecnica dalla Cina. Quell’oggetto modificò completamente la distribuzione dell’informazione e, siccome al controllo dell’informazione è legato il potere, cominciò da Magonza un processo storico dalle conseguenze straordinarie. La Chiesa non ebbe più il monopolio della riproduzione e dell’interpretazione della conoscenza; Martin Lutero – nella stessa nazione e mezzo secolo dopo l’impresa di Gutenberg – dichiarò di non aver più bisogno della Chiesa per leggere le scritture; si esaurì il Medio Evo e un paio di secoli dopo, a Westminster appunto, fu sancita la fine della monarchia assoluta e la nascita dei parlamenti. Oggi, come allora, la tecnologia ridistribuisce informazione e, dunque, esige nuove modalità – le chiamiamo istituzioni – attraverso le quali il potere si acquisisce, si limita, si esercita. Stavolta, però, come per una qualche legge del contrappasso, è la democrazia liberale che rischia di essere dalla parte sbagliata della Storia.
L’aspetto più grave è, però, che ci manca una teoria di ciò che sta succedendo. Ci manca, anzi, l’ambizione per immaginarne una nuova e la capacità di unire quelle competenze che – nelle migliori di università del mondo – si sono separate impedendoci di capire cosa sta davvero succedendo. Mancano le idee che possano ridare energia al regime politico che accompagnò il più grande balzo in avanti che l’Occidente abbia mai conosciuto. Ed è un vuoto che può certo essere colmato attraverso la piattaforma attraverso la quale gli aderenti a un movimento scelgono se appoggiare un governo. Anche perché, invece, dovremmo porre la necessità di regolare la vita dei partiti (cosa che i padri costituenti, esplicitamente, esclusero) e il voto elettronico (che in Estonia utilizzano regolarmente).
La prospettiva (ne parlo nel libro «Lezioni cinesi» nel quale osservo il paradosso della Cina che – senza aver mai avuto un’elezione politica – sta vincendo il ventunesimo secolo) può, forse, essere quella di trasformare l’idea stessa che abbiamo di democrazia. Non più solo meccanismo attraverso il quale ci limitiamo a scegliere la nostra classe dirigente o (nella stessa ipotesi di democrazia diretta) tra due possibili proposte; ma «sistema informativo» attraverso il quale far emergere bisogni e competenze individuali e aggregarle in intelligenza collettiva, coscienza di essere comunità. Democrazia come metodo per risolvere problemi e non solo, a questo si è ridotto in Italia, come mezzo di televoto per esprimere preferenze sui personaggi di una soap opera irrilevante.
Se fosse questa l’intuizione da cui partire, ne potremmo, forse, derivare innovazioni concrete. Riorganizzare i confronti elettorali per problemi (copiando gli svizzeri) e per servizi pubblici (un giorno potremmo immaginare di far eleggere il presidente della Rai a chi paga il canone), perché in fondo le elezioni politiche generali pongono agli elettori una scelta molto più complessa. Introdurre in Europa la possibilità di votare ed essere votati in collegi non più legati a un territorio. Dare un voto in più a ogni genitore per ciascun figlio minorenne, visto che sono gli adolescenti quelli che più hanno più da perdere per decisioni sbagliate. Spostare competenze e risorse dalle Regioni e dagli Stati alle città la cui stessa dimensione rende possibile il confronto.
La democrazia liberale è, come ricorderebbe Churchill, il migliore regime politico tra quelli che l’uomo ha inventato per stare insieme. La strada per salvarlo è restituirgli efficienza e la capacità di farci riconoscere come comunità. Per riuscirci bisognerebbe mettere insieme la sensibilità di chi ha vissuto di Costituzioni e ne riconosce la fragile importanza, e di chi ha consapevolezza delle forze che le tecnologie stanno scatenando.
(Tratto da www.corriere.it)
Articolo che in parte condivido. in parte meno.
Non condivido il riferimento della nozione di democrazia alla sola democrazia anglosassone. Si sono sviluppate storicamente infatti varie forme di “ democrazia”:
a) La democrazia anglosassone in cui due fazioni politiche contrapposte si confrontano per conquistare il potere. Ma sotto l’occhio vigile del sovrano che svolge la funzione di “bilanciamento attivo”.
b) La democrazia cantonale svizzera, in cui la comunità, ristretta e con analoghe origini culturali, esprime i suoi bisogni e li manifesta e decide in pubblico. c) Quella rivoluzionario-statualista francese in cui la “finzione” che la delega di potere elettorale ai rappresentanti del popolo porti, attraverso il dibattito parlamentare, alla decisione migliore, cioè la “legge”. In realtà si trattò della sostituzione di un Sovrano con la illusoria “ Sovranità popolare”.
d) Quella federalista statunitense delle origini, in cui i bilanciamenti sono plurimi: Stati vs Federazione; Presidente vs Congresso (in cui Camera dei rappresentanti e Senato rappresentano interessi diversi: la prima la Nazione, il secondo gli Stati); presidente e Congresso vs Corte Suprema, che svolge dichiaratamente un ruolo politico. e) Quella statunitense post-bellica in cui, dopo l’uso della bomba atomica prima e degli interventi federali a tutela dei diritti civili poi, il potere si è accentrato nelle mani del Presidente, trasformando, inevitabilmente, gli Stati Uniti in uno Stato nazionale, sempre più nazionalista, oltreché imperialista.
f) Quella comunitario europea che dalle speranze “federaliste” (sino a Delors) o “democrazia multilivello” è gradatamente stata fatta decadere a confederazione pseudo-democratica o meglio a democrazia “multi-nazionale” in cui ogni potere, nazionale, transnazionale, finanziario, economico, di gruppi organizzati, ritaglia la sua legittimazione nei fatti. Ne consegue che si tratta della crisi di questi modelli di democrazia, che a mio avviso non erano e non sono esportabili, pena la loro inevitabile “mutazione” o il loro “rigetto”, in quanto diversa era la “cornice” economico-sociale, culturale di partenza.
Concordo invece su tre proposte innovative:
1) Passare dal modello di democrazia rappresentativa a quello di “sistema informativo di comunità” purché distribuito, regolamentato e bilanciato, creando o sostenendo “contropoteri” (associazioni di utenti-consumatori, di giovani in cerca di lavoro, MPI in competizione con i colossi del web, o mettendoli in competizione fra loro, ecc.)
2) Rivalorizzare le comunità cittadine come centri di presa delle decisioni in contrasto con lo Stato nazionale e in collegamento con l’Europa.
3) Stimolare la creazione di think-thank interdisciplinari e multirappresentativi (Imprese, Università, associaz. di consumatori, giovani e istituti scolastici, ecc.) per problemi sociali e settori economici. Perché non coinvolgere nelle decisioni i vari “stakeholder” (portatori di interessi)? Il direttore di una ASL scelto anche con la partecipazione dei dipendenti, dei professionisti e dei pazienti, una impresa di servizi universali dai dipendenti e dagli utenti e una istituzione scolastica da coloro che usufruiscono e usufruiranno del patrimonio conoscitivo, critico e professionalizzante elaborato in comune.
Non avveniva così nel 1300-1400 italiano quando i rettori erano scelti dagli studenti, i detentori del potere “temporaneo” dai rappresentanti delle gilde, o prima ancora i vescovi dai credenti?
Non ci si dica che era Evo oscuro! Era fase di trasformazione in cui si definivano nuove regole di nomina e controllo diretto di nuovi poteri. Il grande storico del diritto e poi giudice costituzionale Paolo Grossi ce lo ricorda costantemente.