Dalla rivista “Rocca”, voce della Pro Civitate Christiana di Assisi, rilanciamo un articolo del teologo Piana sul recente intervento della Corte Costituzionale nei confronti del suicidio assistito, che ha sollevato reazioni opposte (e in ogni caso vivacissime) nei vari ambiti dell’opinione pubblica. La delicatezza e la complessità del tema, che ha risvolti inquietanti in quanto chiama in causa questioni radicali come quelle sul senso e sulla qualità della vita, non possono che suscitare prese di posizione profondamente coinvolgenti.
Quella della Corte Costituzionale non è stata certo una decisione assunta alla leggera: lo testimoniano i due giorni di discussione che, come risulta dalle notizie trapelate all’esterno, lasciano intravedere un serio travaglio dettato dalla presenza di sensibilità diverse che hanno tuttavia trovato un terreno di convergenza comune.
Per questo appaiono del tutto gratuite (e decisamente inaccettabili) tanto le manifestazioni di esultanza scomposta di alcune frange del mondo laicista quanto le forme di forte allarmismo di alcuni settori più retrivi del mondo cattolico. Nel primo caso a mancare è infatti la consapevolezza della reale entità del valore in gioco, quello della vita, il diritto che sta a fondamento di tutti i diritti umani; nel secondo, è invece l’attenzione alla concretezza delle situazioni esistenziali, di quelle estreme in particolare, nelle quali la vita risulta gravemente compromessa nella sua qualità umana, e dunque nella sua stessa dignità.
Il comunicato della Consulta
Le considerazioni che vengono qui offerte rifiutano questi due atteggiamenti (entrambi superficiali), riconoscendo le lacerazioni della coscienza che una decisione come quella assunta dalla Consulta può suscitare in molti, ma tenendo nello stesso tempo conto della necessità di affrontare la condizione di persone che versano in uno stato di intollerabile sofferenza e chiedono di essere per questo aiutate a morire.
Per affrontare in modo adeguato la questione è anzitutto necessario procedere a una rapida ricostruzione dell’itinerario che ha condotto alla produzione della sentenza le cui motivazioni peraltro non sono ancora state rese pubbliche.
Un passaggio obbligato in questa ricostruzione va in primo luogo riservato al primo intervento della Corte, cioè all’ordinanza 207 del 23 ottobre 2018, depositata il 16 novembre dello stesso anno, in cui si differiva la decisione del pronunciamento al 24 settembre del 2019, auspicando che si pervenisse nel frattempo a un intervento legislativo del Parlamento. Al centro del giudizio vi era l’articolo 580 del codice penale, il quale punisce l’istigazione al suicidio, includendo nella fattispecie l’aiuto dato adesso, anche nel caso in cui questo non implichi una partecipazione alla decisione ma soltanto una collaborazione all’esecuzione.
L’ordinanza, sollecitata dal ricorso pervenuto alla Corte a proposito della vicenda del radicale Cappato, che aveva accompagnato in Svizzera a morire il dj Fabo, riconosceva il diritto alla vita come «primo dei diritti inviolabili dell’uomo» e rilevava il «dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo», aggiungendo che il divieto di istigazione al suicidio «conserva una propria evidente ragion d’essere». Ma invitava poi a «considerare situazioni inimmaginabili, all’epoca in cui la norma incriminata fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali».
Quest’ultima considerazione apriva la strada – si osservava – a una possibile deroga alla norma, nel caso in cui si fosse in presenza di persone: a) affette da una patologia irreversibile, b) fonte di sofferenze fisiche o psichiche, c) tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale e d) capaci di prendere decisioni libere e consapevoli. Sono le quattro condizioni che si trovano nel Comunicato che annuncia la sentenza appena emessa dalla Corte Costituzionale, con la quale si dichiara non incostituzionale, e dunque non punibile, il comportamento di chi agevola il proposito di suicidio «autonomamente e liberamente formatosi» di un paziente che vive in uno stato di estrema difficoltà.
Si tratta pertanto di situazioni gravissime e delimitate, che evidenziano la estrema cautela con cui la Consulta è intervenuta; cautela peraltro confermata dalla precisazione che l’introduzione dei «paletti» ha come finalità quella di «evitare i rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili»; che il trattamento può avvenire soltanto, caso per caso, «in una struttura pubblica del Sistema Sanitario Nazionale sentito il parere del comitato etico territorialmente competente»; e infine che si rende necessario l’intervento del Parlamento per sciogliere i nodi critici aperti con una precisa normativa di legge.
A conferma di questa attenzione scrupolosa va sottolineato – pochi purtroppo lo hanno fatto – che l’articolo 580 del Codice Penale non è qui per nulla abrogato – l’istigazione al suicidio continua ad essere reato –, ma viene semplicemente depenalizzato il comportamento di chi non partecipa alla decisione estrema, ma si limita a fornire un aiuto a morire ad un malato che si trova in uno stato di patologia irreversibile e che è in grado di decidere liberamente e responsabilmente di morire.
A questo si deve aggiungere – come già si è ricordato – che l’abolizione della pena è dovuta alla presenza di situazioni drammatiche, non previste né prevedibili quando la norma è stata redatta; situazioni venutesi a creare a causa degli sviluppi delle tecnologie biomediche, le quali consentono prolungamenti artificiali della vita biologica con la perdita talora della sua qualità e del suo significato umano.
Il giudizio negativo della Chiesa
La reazione della Chiesa italiana alla sentenza è stata di grande durezza. La Conferenza episcopale ha espresso subito il proprio forte dissenso, manifestando profondo «sconcerto» e marcando la propria «distanza» dal Comunicato della Corte, con la sottolineatura che la maggiore preoccupazione (peraltro non infondata e peregrina) è costituita dalla «spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità».
Il rischio ventilato è dunque la trasmissione di un messaggio pericoloso che incentivi il suicidio, ma è anche (e forse soprattutto) la paura che la soluzione prevista per casi limitatissimi possa venire estesa a situazioni non necessariamente soltanto estreme; e che questo, considerando la riduzione dei sistemi di welfare delle nostre società, possa comportare una grave assenza di garanzie nei confronti di soggetti particolarmente deboli o non autosufficienti.
Nell’esprimere tale giudizio decisamente negativo la Conferenza episcopale fa diretto riferimento all’insegnamento di papa Francesco, il quale, oltre ai ripetuti appelli contro la «cultura dello scarto» e alla considerazione, più volte ribadita, che «la difesa della vita deve essere integrale» non ha mancato di recente, in occasione dell’udienza concessa alla Federazione nazionale dei medici chirurghi e degli odontoiatri, di dichiarare, senza mezzi termini, la necessità di «respingere la tentazione – indotta anche dai mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia». Facendo propri questi orientamenti, i vescovi italiani assicurano che «vigileranno» su come legifererà il Parlamento, sollecitando la predisposizione di «paletti forti», che delimitino con precisione l’area del possibile intervento e chiedendo che venga garantito il diritto all’obiezione di coscienza per il personale sanitario.
Non si possono certo ignorare tali richiami , che mettono in guardia da pericoli reali, primo fra tutti – come già si è rilevato – quello della cosiddetta «china sdrucciolevole»; come non si può non riflettere sul fatto che il «suicidio assistito», il quale altro non è che una forma di suicidio agevolato (sia pure legato a casi particolari), in quanto equiparato a una prestazione sanitaria che si può richiedere e ottenere da parte del Servizio sanitario nazionale, diventi una via accreditata come eticamente accettabile.
A riprova della pertinenza di queste osservazioni vi è chi ha provato ad analizzare le quattro condizioni richieste per la fornitura di aiuto, dimostrando come ciascuna di esse possa andare soggetta a interpretazioni diverse – più meno estese o restrittive –; e mettendo, in particolare, in evidenza come il riferimento alle «sofferenze fisiche o psicologiche» del paziente quale ragione della domanda di morte possa dare corso a una pericolosa deriva. Se infatti si accetta che la sofferenza psicologica costituisca un presupposto sufficiente per la richiesta del suicidio, anche fattispecie di malattie non terminali ma «percepite» come tali dal paziente finirebbero per giustificarne il ricorso e consentire l’aiuto legale.
Quali forme di impegno?
Va detto poi che a esprimere contrarietà nei confronti della sentenza non vi è stata soltanto la Chiesa cattolica, ma anche un numero consistente di medici, e che il Presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri Filippo Anelli ha ricordato, in un’intervista rilasciata al quotidiano «Avvenire», come all’art. 17 del Codice deontologico dei medici in vigore venga espresso il fermo divieto di «effettuare o favorire atti finalizzati a provocare la morte del paziente anche se su sua richiesta»; e come dunque si debba in questo caso prevedere l’obiezione di coscienza del medico, osservando che «se si devono rispettare i convincimenti profondi di ogni cittadino, tra questi ci sono anche i medici» (venerdì 27 settembre 2019, p. 6).
A questa ultima richiesta, formulata – come già si è detto – anche dai vescovi italiani, che chiedono di estenderla all’intero personale sanitario, è difficile rifiutare una risposta positiva; si tratta infatti di interventi di particolare rilevanza etica che interpellano direttamente la coscienza di ciascuno.
D’altronde – è giusto rilevarlo – uno Stato che fa sempre più spazio al rispetto della coscienza individuale di fronte a questioni di tale entità, lungi dall’essere uno Stato debole, è uno Stato forte, che manifesta di possedere una seria concezione della democrazia, la quale è tale nella misura in cui riconosce la centralità della persona.
A chi obietta che si corre in questo modo il rischio di rendere inapplicabile (come già avviene nel caso dell’aborto) la legge, occorre ricordare che la via da seguire è quella di chiedere a chi obietta una prestazione gratuita al servizio della comunità. Questo consentirebbe di ridurre il numero degli obiettori, garantendo l’applicazione della legge, e conferirebbe dignità e credibilità alla stessa obiezione.
Ma l’assenso alla sentenza della Corte e a una legge parlamentare che si muova nell’alveo delle indicazioni da essa fornite – assenso che, al di là delle pur legittime riserve sollevate, sembra debba essere dato se si vogliono affrontare con umanità situazioni estreme come quelle (e non sono certo le sole) che hanno, negli ultimi anni, profondamente scosso la coscienza civile del Paese – deve accompagnarsi a una serie di importanti interventi in campo sociale e culturale.
Da una parte si rende infatti necessaria la promozione di una serie di iniziative che consentano di ridurre il numero dei casi nei quali si verificano le condizioni per il ricorso al suicidio assistito – dallo sviluppo delle cure palliative, e in particolare della terapia del dolore, ancora troppo limitate, alla creazione di un sistema di sostegno alle persone non autosufficienti e alle loro famiglie lasciate spesso sole –; dall’altra, assume un’importanza del tutto particolare la crescita di una cultura della solidarietà, che sappia dar vita a forme di accompagnamento di coloro che vivono in situazioni particolarmente difficili, consentendo loro di uscire dalla solitudine e di vivere esperienze di vicinanza discreta e amorevole.
Non può forse diventare questa l’occasione opportuna per dare una spinta decisiva a tali iniziative e contribuire in tal modo a una ulteriore (e più seria) umanizzazione delle condizioni di fine vita?
Quella della Corte Costituzionale non è stata certo una decisione assunta alla leggera: lo testimoniano i due giorni di discussione che, come risulta dalle notizie trapelate all’esterno, lasciano intravedere un serio travaglio dettato dalla presenza di sensibilità diverse che hanno tuttavia trovato un terreno di convergenza comune.
Per questo appaiono del tutto gratuite (e decisamente inaccettabili) tanto le manifestazioni di esultanza scomposta di alcune frange del mondo laicista quanto le forme di forte allarmismo di alcuni settori più retrivi del mondo cattolico. Nel primo caso a mancare è infatti la consapevolezza della reale entità del valore in gioco, quello della vita, il diritto che sta a fondamento di tutti i diritti umani; nel secondo, è invece l’attenzione alla concretezza delle situazioni esistenziali, di quelle estreme in particolare, nelle quali la vita risulta gravemente compromessa nella sua qualità umana, e dunque nella sua stessa dignità.
Il comunicato della Consulta
Le considerazioni che vengono qui offerte rifiutano questi due atteggiamenti (entrambi superficiali), riconoscendo le lacerazioni della coscienza che una decisione come quella assunta dalla Consulta può suscitare in molti, ma tenendo nello stesso tempo conto della necessità di affrontare la condizione di persone che versano in uno stato di intollerabile sofferenza e chiedono di essere per questo aiutate a morire.
Per affrontare in modo adeguato la questione è anzitutto necessario procedere a una rapida ricostruzione dell’itinerario che ha condotto alla produzione della sentenza le cui motivazioni peraltro non sono ancora state rese pubbliche.
Un passaggio obbligato in questa ricostruzione va in primo luogo riservato al primo intervento della Corte, cioè all’ordinanza 207 del 23 ottobre 2018, depositata il 16 novembre dello stesso anno, in cui si differiva la decisione del pronunciamento al 24 settembre del 2019, auspicando che si pervenisse nel frattempo a un intervento legislativo del Parlamento. Al centro del giudizio vi era l’articolo 580 del codice penale, il quale punisce l’istigazione al suicidio, includendo nella fattispecie l’aiuto dato adesso, anche nel caso in cui questo non implichi una partecipazione alla decisione ma soltanto una collaborazione all’esecuzione.
L’ordinanza, sollecitata dal ricorso pervenuto alla Corte a proposito della vicenda del radicale Cappato, che aveva accompagnato in Svizzera a morire il dj Fabo, riconosceva il diritto alla vita come «primo dei diritti inviolabili dell’uomo» e rilevava il «dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo», aggiungendo che il divieto di istigazione al suicidio «conserva una propria evidente ragion d’essere». Ma invitava poi a «considerare situazioni inimmaginabili, all’epoca in cui la norma incriminata fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali».
Quest’ultima considerazione apriva la strada – si osservava – a una possibile deroga alla norma, nel caso in cui si fosse in presenza di persone: a) affette da una patologia irreversibile, b) fonte di sofferenze fisiche o psichiche, c) tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale e d) capaci di prendere decisioni libere e consapevoli. Sono le quattro condizioni che si trovano nel Comunicato che annuncia la sentenza appena emessa dalla Corte Costituzionale, con la quale si dichiara non incostituzionale, e dunque non punibile, il comportamento di chi agevola il proposito di suicidio «autonomamente e liberamente formatosi» di un paziente che vive in uno stato di estrema difficoltà.
Si tratta pertanto di situazioni gravissime e delimitate, che evidenziano la estrema cautela con cui la Consulta è intervenuta; cautela peraltro confermata dalla precisazione che l’introduzione dei «paletti» ha come finalità quella di «evitare i rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili»; che il trattamento può avvenire soltanto, caso per caso, «in una struttura pubblica del Sistema Sanitario Nazionale sentito il parere del comitato etico territorialmente competente»; e infine che si rende necessario l’intervento del Parlamento per sciogliere i nodi critici aperti con una precisa normativa di legge.
A conferma di questa attenzione scrupolosa va sottolineato – pochi purtroppo lo hanno fatto – che l’articolo 580 del Codice Penale non è qui per nulla abrogato – l’istigazione al suicidio continua ad essere reato –, ma viene semplicemente depenalizzato il comportamento di chi non partecipa alla decisione estrema, ma si limita a fornire un aiuto a morire ad un malato che si trova in uno stato di patologia irreversibile e che è in grado di decidere liberamente e responsabilmente di morire.
A questo si deve aggiungere – come già si è ricordato – che l’abolizione della pena è dovuta alla presenza di situazioni drammatiche, non previste né prevedibili quando la norma è stata redatta; situazioni venutesi a creare a causa degli sviluppi delle tecnologie biomediche, le quali consentono prolungamenti artificiali della vita biologica con la perdita talora della sua qualità e del suo significato umano.
Il giudizio negativo della Chiesa
La reazione della Chiesa italiana alla sentenza è stata di grande durezza. La Conferenza episcopale ha espresso subito il proprio forte dissenso, manifestando profondo «sconcerto» e marcando la propria «distanza» dal Comunicato della Corte, con la sottolineatura che la maggiore preoccupazione (peraltro non infondata e peregrina) è costituita dalla «spinta culturale implicita che può derivarne per i soggetti sofferenti a ritenere che chiedere di porre fine alla propria esistenza sia una scelta di dignità».
Il rischio ventilato è dunque la trasmissione di un messaggio pericoloso che incentivi il suicidio, ma è anche (e forse soprattutto) la paura che la soluzione prevista per casi limitatissimi possa venire estesa a situazioni non necessariamente soltanto estreme; e che questo, considerando la riduzione dei sistemi di welfare delle nostre società, possa comportare una grave assenza di garanzie nei confronti di soggetti particolarmente deboli o non autosufficienti.
Nell’esprimere tale giudizio decisamente negativo la Conferenza episcopale fa diretto riferimento all’insegnamento di papa Francesco, il quale, oltre ai ripetuti appelli contro la «cultura dello scarto» e alla considerazione, più volte ribadita, che «la difesa della vita deve essere integrale» non ha mancato di recente, in occasione dell’udienza concessa alla Federazione nazionale dei medici chirurghi e degli odontoiatri, di dichiarare, senza mezzi termini, la necessità di «respingere la tentazione – indotta anche dai mutamenti legislativi – di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia». Facendo propri questi orientamenti, i vescovi italiani assicurano che «vigileranno» su come legifererà il Parlamento, sollecitando la predisposizione di «paletti forti», che delimitino con precisione l’area del possibile intervento e chiedendo che venga garantito il diritto all’obiezione di coscienza per il personale sanitario.
Non si possono certo ignorare tali richiami , che mettono in guardia da pericoli reali, primo fra tutti – come già si è rilevato – quello della cosiddetta «china sdrucciolevole»; come non si può non riflettere sul fatto che il «suicidio assistito», il quale altro non è che una forma di suicidio agevolato (sia pure legato a casi particolari), in quanto equiparato a una prestazione sanitaria che si può richiedere e ottenere da parte del Servizio sanitario nazionale, diventi una via accreditata come eticamente accettabile.
A riprova della pertinenza di queste osservazioni vi è chi ha provato ad analizzare le quattro condizioni richieste per la fornitura di aiuto, dimostrando come ciascuna di esse possa andare soggetta a interpretazioni diverse – più meno estese o restrittive –; e mettendo, in particolare, in evidenza come il riferimento alle «sofferenze fisiche o psicologiche» del paziente quale ragione della domanda di morte possa dare corso a una pericolosa deriva. Se infatti si accetta che la sofferenza psicologica costituisca un presupposto sufficiente per la richiesta del suicidio, anche fattispecie di malattie non terminali ma «percepite» come tali dal paziente finirebbero per giustificarne il ricorso e consentire l’aiuto legale.
Quali forme di impegno?
Va detto poi che a esprimere contrarietà nei confronti della sentenza non vi è stata soltanto la Chiesa cattolica, ma anche un numero consistente di medici, e che il Presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri Filippo Anelli ha ricordato, in un’intervista rilasciata al quotidiano «Avvenire», come all’art. 17 del Codice deontologico dei medici in vigore venga espresso il fermo divieto di «effettuare o favorire atti finalizzati a provocare la morte del paziente anche se su sua richiesta»; e come dunque si debba in questo caso prevedere l’obiezione di coscienza del medico, osservando che «se si devono rispettare i convincimenti profondi di ogni cittadino, tra questi ci sono anche i medici» (venerdì 27 settembre 2019, p. 6).
A questa ultima richiesta, formulata – come già si è detto – anche dai vescovi italiani, che chiedono di estenderla all’intero personale sanitario, è difficile rifiutare una risposta positiva; si tratta infatti di interventi di particolare rilevanza etica che interpellano direttamente la coscienza di ciascuno.
D’altronde – è giusto rilevarlo – uno Stato che fa sempre più spazio al rispetto della coscienza individuale di fronte a questioni di tale entità, lungi dall’essere uno Stato debole, è uno Stato forte, che manifesta di possedere una seria concezione della democrazia, la quale è tale nella misura in cui riconosce la centralità della persona.
A chi obietta che si corre in questo modo il rischio di rendere inapplicabile (come già avviene nel caso dell’aborto) la legge, occorre ricordare che la via da seguire è quella di chiedere a chi obietta una prestazione gratuita al servizio della comunità. Questo consentirebbe di ridurre il numero degli obiettori, garantendo l’applicazione della legge, e conferirebbe dignità e credibilità alla stessa obiezione.
Ma l’assenso alla sentenza della Corte e a una legge parlamentare che si muova nell’alveo delle indicazioni da essa fornite – assenso che, al di là delle pur legittime riserve sollevate, sembra debba essere dato se si vogliono affrontare con umanità situazioni estreme come quelle (e non sono certo le sole) che hanno, negli ultimi anni, profondamente scosso la coscienza civile del Paese – deve accompagnarsi a una serie di importanti interventi in campo sociale e culturale.
Da una parte si rende infatti necessaria la promozione di una serie di iniziative che consentano di ridurre il numero dei casi nei quali si verificano le condizioni per il ricorso al suicidio assistito – dallo sviluppo delle cure palliative, e in particolare della terapia del dolore, ancora troppo limitate, alla creazione di un sistema di sostegno alle persone non autosufficienti e alle loro famiglie lasciate spesso sole –; dall’altra, assume un’importanza del tutto particolare la crescita di una cultura della solidarietà, che sappia dar vita a forme di accompagnamento di coloro che vivono in situazioni particolarmente difficili, consentendo loro di uscire dalla solitudine e di vivere esperienze di vicinanza discreta e amorevole.
Non può forse diventare questa l’occasione opportuna per dare una spinta decisiva a tali iniziative e contribuire in tal modo a una ulteriore (e più seria) umanizzazione delle condizioni di fine vita?
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