L'Espresso di metà settembre ha pubblicato un articolo del suo direttore sulla formazione del governo giallorosso. Marco Damilano sostiene che la legge proporzionale, indicata come una delle questioni che dovrebbero caratterizzare le iniziative del Conte2 con l'obiettivo di bloccare l'onda sovranista e favorire la rifondazione dell'Unione europea, in realtà consentirebbe a tutti i partiti, in particolare al M5S, ai partiti centristi e a ciò che rimane della vecchia sinistra, di sopravvivere “in comode nicchie” al dilagare della destra sovranista..
Damilano non ha simpatia per il sovranismo, ma scrive che il PD doveva avere il coraggio di confrontarsi elettoralmente con la coalizione della destra, invece di partecipare a un “ribaltone” che finirà per radicalizzare la lotta politica e per regalare le piazze a Salvini e alla Meloni.
Nella stessa giornata, “Repubblica” ha scritto che giustamente Prodi e Veltroni difendono la legge maggioritaria, poiché questo sistema permette a chi vince di governare, mentre il proporzionale, che fotografa l'esistente, è responsabile della frammentazione dei partiti che si trasformano in tribù, dei continui cambi di casacca, dell'ingovernabilità.
Mi sono sentito provocato da queste opinioni, che meritano rispetto, ma anche dalla lettera di Gianni Cuperlo ricordata da Damilano; condivido le riflessioni accorate di Cuperlo, sulla necessità per il PD, se vuole vincere, di rinnovarsi e ricostruire un rapporto con la società. Ma sono dubbioso quando sostiene che “se il confronto sulla legge elettorale si conclude con un ritorno al proporzionale puro, avrebbe tra gli effetti il superamento di ogni logica di coalizione e intaccherebbe lo spirito fondante del PD, comprese primarie e vocazione maggioritaria”.
Le cose stanno proprio così?
Per quanto ricordo, la personalizzazione della politica, il trasformismo, il cambio di casacche, hanno poco a che fare con il proporzionale: sono un'esperienza della Seconda Repubblica, del tempo dei sistemi maggioritari, che non hanno neppure risolto la questione della stabilità delle maggioranze di governo. Anche D'Alema ha nostalgia del maggioritario, eppure per giustificare il fallimento dell'esperienza che ha segnato la transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica ha parlato di “amalgama mal riuscito”.
Qualche giorno dopo “Repubblica” è tornata sulla questione con un articolo di Stefano Folli, uno dei più attenti giornalisti del quotidiano, che ha criticato il ritorno al proporzionale, per la mancanza di un dibattito che la giustificasse, e ribadito la preferenza per il maggioritario; ma riconoscendo che le leggi elettorali debbono essere giudicate con riferimento alla concreta situazione in cui operano.
Da questo punto di vista negli anni della Prima Repubblica il proporzionale ha evitato una regressione conservatrice della DC, ha favorito la politica delle alleanze con i partiti laici, la vittoria del centrismo contro il frontismo nel '48; e poi, negli anni '60, l'autonomia socialista e il centrosinistra; e infine la solidarietà nazionale Si possono classificare questa storia, e la democrazia difficile, come esempio di trasformismo?
Chi mi conosce sa che non ho aderito alla Margherita e al PD, pure avendo sempre votato per il centrosinistra. Temevo che, passando da un'alleanza strategica tra centro e sinistra a un partito unico, le diverse nomenclature risolvessero i problemi di un equilibrio politico “nuovo” sottovalutando le difficoltà che questa scelta, questa “rivoluzione dall'alto”, poneva all'elettorato tradizionale del centro e della sinistra: anche del “centro che guarda a sinistra” e della sinistra del “nuovo inizio”. Comprendo quindi le tensioni che sono riaffiorate anche negli ultimi giorni, che provocano scissioni o fanno sognare nuovi partiti.
Tuttavia se queste tentazioni – che non sono prodotte dalla proporzionale – non si risolvono con l'intelligenza politica, come si può pensare di risolverle con il maggioritario? Semplicemente le renderebbe irrisolvibili, le diversità si radicalizzerebbero, si indebolirebbero le ragioni del dialogo che accompagna ogni vero cambiamento.
È vero che stiamo vivendo una crisi di sistema, non solo di governo; ma questa crisi, il naufragio del governo gialloverde, è dovuta anche alla riforma elettorale approvata nel 2017 da quasi tutti i partiti, per garantire la stabilità di governo, ma anche per permettere alle maggioranze dei diversi partiti di “nominare” la propria rappresentanza parlamentare.
Chi aveva progettato il maggioritario del 2017 (e la torsione della democrazia dei partiti in personalizzazione della politica) pensava con quella legge di favorire la svolta politica annunciata dalle precedenti elezioni europee. Le cose sono andate diversamente...
Le leggi di riforma definiscono gli obiettivi che il legislatore si propone, non possono garantirli, poiché l'esito del voto è imprevedibile, e imprevedibili sono i comportamenti indotti dalle leggi. Quando Salvini esalta il maggioritario, affermando che “chi ha un voto in più deve poter governare” dovrebbe precisare che governa “chi ha un voto in più in Parlamento”. E quando si propone di chiedere un referendum per cancellare dal Rosatellum i seggi attribuiti con la proporzionale al fine di sperimentare in Italia il sistema uninominale inglese, dovrebbe riflettere sui risultati prodotti dalla quota uninominale del Rosatellum: un sistema tripolare, non una maggioranza di governo...
Così, lo dico per inciso, è accaduto anche con l'elezione diretta dei sindaci. Quella legge (una delle ultime leggi approvate dalla Prima Repubblica), personalizzando la competizione elettorale con l'elezione diretta del sindaco, ha influito sullo svolgimento di elezioni che riguardano anche il Consiglio comunale, inducendo quasi tutti i partiti a presentare, insieme alla lista per il Consiglio, anche la candidatura a sindaco: le candidature si sono moltiplicate, l'elettorato si è frammentato e al ballottaggio tra le due candidature a sindaco più votate, le coalizioni – necessarie per vincere – si sono spesso costruite come un “inciucio”. Resta comunque vero che l'elezione diretta del Sindaco ha cambiato in profondità l'amministrazione dei Comuni. Non contesto questo risultato.
Aggiungo una osservazione, sull'uninominale (ricordando che può coniugarsi anche con il proporzionale): come “uninominale-maggioritario” sarebbe di gran lunga preferibile il sistema previsto in Francia per l'elezione dell'Assemblea nazionale: tutti candidati al primo turno, poi – se nessun candidato conquista, nel collegio elettorale, la maggioranza assoluta – ballottaggio tra i primi due. Il professor Giovanni Sartori, che ho avuto la fortuna di conoscere, preferiva tra tutti i sistemi elettorali quello francese, e sconsigliava i sistemi uninominali americano e inglese.
Torno alle elezioni politiche del 2018 : il M5S ha conquistato quasi tutti i collegi uninominali del Sud, mentre al Nord ha vinto la Lega. Questo imprevisto risultato ha costretto DiMaio e Salvini, leader di due partiti alternativi, a sottoscrivere un “contratto” per governare insieme con una maggioranza gialloverde, che ha lasciato all'opposizione il PD, “quelli di prima”. Quella maggioranza parlamentare è durata, tra i contrasti, 14 mesi: con Giuseppe Conte arbitro, Luigi Di Maio e Matteo Salvini vicepresidenti. Poi lo stesso Salvini ne ha decretato la fine.
Resta aperta la discussione sulle ragioni che hanno indotto Salvini a provocare la crisi del governo dopo aver ottenuto l'approvazione del Decreto sulla sicurezza (Dl che attendeva di essere convertito in legge dal Parlamento), e a presentare una mozione di sfiducia contro Conte. In realtà Salvini ha chiesto “elezioni subito” per trasformare i sondaggi in voti, nella convinzione che, con il M5S in difficoltà, una coalizione di destra (nazional-populista) da lui guidata, avrebbe conquistato quasi tutti i collegi uninominali, e i “pieni poteri”.
Questo resta il suo obiettivo.
Salvini con quella decisione ha del tutto ignorato che la Costituzione definisce in cinque anni la durata di una legislatura, e impone di verificare – in caso di crisi di governo – se nel Parlamento esiste la possibilità di formare una diversa maggioranza di governo. O di ricostruire quella entrata in crisi. Ed è responsabilità del Presidente della Repubblica verificarlo, decidere lo scioglimento di Camera e Senato e indire nuove elezioni. Alla Costituzione si è attenuto il presidente Mattarella.
In questo contesto si è avviato, sin dall'inizio della crisi, un dibattito che continua anche dopo la formazione del Conte2, e si è subito intrecciato con quello sulla riforma della legge elettorale.
Così dalle ceneri della Seconda Repubblica è rinata la querelle sulla legge proporzionale che aveva caratterizzato il declino della Prima Repubblica. La legge proporzionale può essere criticata, come vedremo, ma è la più fedele interprete della Costituzione, poiché riconosce – più di ogni altra legge elettorale – la centralità del Parlamento.
Non esiste una legge elettorale perfetta.
La proporzionale pura, che rispetta le minoranze, favorisce la dispersione del voto; e se nessun partito ottiene la maggioranza assoluta dei consensi, produce un Parlamento che garantisce la stabilità dei governo solo se si formano coalizioni pluripartitiche. Questo è “il tallone d'Achille” del sistema proporzionale.
Il declino della DC, del “centro che guarda a sinistra” e il dibattito sulla “democrazia difficile”, hanno fatto aprire negli anni '70 una discussione tra PSI e DC su “come correggere” la legge proporzionale al fine di favorire la stabilità del governo. Per Craxi (che è ricordato soprattutto per la “Grande riforma” presidenziale) il proporzionale poteva essere corretto con una clausola di esclusione dal Parlamento delle liste che conquistassero meno del 3% dei voti a livello nazionale. Per la DC era preferibile assegnare un premio di maggioranza al partito – o alla coalizione – che aveva conquistato almeno il 40% dei voti, permettendogli così di avere la maggioranza assoluta dei seggi. Questa era la filosofia cui si era ispirata la DC nel '53, la legge che fu definita “legge truffa”, e che non fu ratificata dagli elettori.
Quando la discussione si è riaccesa, Craxi pensava di costringere i partiti laici (liberali e repubblicani) che avevano formato governi di centro con la DC, ma rischiavano di restare senza rappresentanza – ad allearsi con i socialisti, cioè a dare vita ad una possibile alternativa alla DC; mentre la DC voleva costringere i socialisti a dichiarare, prima del voto, con chi intendevano fare il governo: con la DC, o con il PCI? I contrasti sulle leggi elettorali nascondono quasi sempre un contrasto di strategia politica, riflettono la necessità di valorizzare, in maggioranza o in opposizione, i consensi ottenuti. E quando la politica si “personalizza”, diventa “spettacolo” e si intreccia sempre più con la comunicazione, diventa più difficile evitare che la strategia politica si sottragga alle tentazioni del trasformismo, e anche all'invasione delle fake-news.
Così, quando si discute del tramonto del bipolarismo, del declino della vocazione maggioritaria del PD, delle coalizioni possibili, queste questioni – quale progetto, con quali alleanze, e quale sistema elettorale per vincere – si intrecciano. E quando il PD riconosce (come hanno fatto recentemente il suo segretario, e poi il suo ex segretario) che per essere alternativo al sovranismo, per contenerne una marcia che pare irresistibile in tutta Europa, si capisce che bisogna tornare alla politica delle alleanze, il PD dovrebbe riconoscere anche che il bipolarismo di cui si discute, con riferimento alle coalizioni, è molto diverso da quello di cui abbiamo fatto esperienza...
In questo contesto, dove vince chi riesce a costruire politicamente la coalizione più forte, a questo obiettivo debbono riferirsi sia i sostenitori del maggioritario sia quelli del proporzionale, nelle loro diverse formulazioni. Bisogna tornare comunque alla politica, per proporre riforme che si possano calare nella realtà italiana e in quella europea. Chi vuole riformare la legge elettorale del 2016, in coerenza con una riforma costituzionale che comporta il taglio dei parlamentari (decisione che penalizza la rappresentanza delle fasce marginali del Paese), se pensa ad una legge proporzionale propone semplicemente la cancellazione della quota uninominale, con pochi aggiustamenti dei collegi e un modesto recupero della rappresentatività delle fasce marginali. Se invece pensa, come propone la Lega, a un rilancio del maggioritario (con un referendum?) vuole cancellare la quota riservata alla rappresentanza proporzionale per assegnare tutti i seggi all'uninominale... Le elezioni del 2018, hanno dimostrato che questa riforma non garantirebbe una maggioranza in Parlamento.
I proporzionalisti sono convinti di respingere, con il proporzionale, l'ondata sovranista, che si fonda sul maggioritario. I maggioritari sono convinti di poter mettere in campo una coalizione di destra più forte di quella organizzabile dal fronte di sinistra. Decideranno gli elettori.
In realtà, l'uninominale a un solo turno non garantisce una maggioranza parlamentare, e nello stesso tempo minaccia un potere senza limiti. Tutto dipende dal clima politico del momento...
E se si dovesse varare una legge a doppio turno, sarebbero le coalizioni che si confrontano nel secondo turno a decidere la geografia del Parlamento. Come in Francia, dove il nazional-populismo di Le Pen, maggioranza relativa, si è trovata sbarrata la strada da coalizioni europeiste.
D'altra parte, se è difficile per l'elettorato di centrosinistra accettare un governo giallorosso, nel ricordo delle polemiche che hanno caratterizzato i “grillini”, contro ai “democratici” (il PD lo sta sperimentando), sarebbe anche più difficile fare accettare all'elettorato di centrosinistra (e forse anche a quello di Cinquestelle) una coalizione elettorale giallorossa, che un sistema maggioritario renderebbe “obbligata”. Questo è il nodo da sciogliere per le prossime elezioni regionali.
Qui si ferma la mia riflessione. Per queste ragioni sono favorevole a una riforma che sia caratterizzata da una “proporzionale corretta”: da una clausola di esclusione non superiore al 3% e, se possibile, da un premio di maggioranza che permetta alla lista (o alla coalizione) che supera il 45% dei voti, di diventare maggioranza di governo. Di un governo che potrà essere messo in crisi solo quando esista – come prevede il sistema tedesco – un'altra maggioranza parlamentare.
Discorso ampiamente condivisibile, a cui mi permetto di aggiungere due considerazioni.
Se il Parlamento è l’organo centrale di una democrazia rappresentativa, deve essere realmente rappresentativo, ciò che avviene solo con il proporzionale. Per evitare un eccessivo frazionamento possono essere accettabili soglie di sbarramento modeste, non soluzioni (uninominale, premi di maggioranza, doppi turni) che alterano profondamente il criterio di rappresentatività. Ne deriverebbe una frattura fra paese reale e organismi rappresentativi che snatura la vita politica allontanandone i cittadini.
I sistemi elettorali fondati su meccanismi in base ai quali chi ha un voto in più vince e governa impongono la formazione di partiti a vocazione maggioritaria. Questi (come già detto a suo tempo da Prodi e da Parisi), per l’esigenza di tenere insieme una pluralità di componenti di sensibilità e cultura diversificata, richiedono la semplificazione delle scelte e quindi di lasciare fuori dalla competizione politica le questioni etiche e le concezioni antropologiche. Se in argomento (viene detto) ci saranno leggi da approvare, i parlamentari eletti si esprimeranno secondo libertà di coscienza. Già, ma chiediamoci quale rappresentatività avrebbero costoro per imporre al paese le loro personali idee non avendo avuto nessun mandato dai cittadini in materia. Una politica che non esprima una visione del mondo e che non poggi su una concezione dell’essere umano e della sua natura si riduce a semplice gestione del presente. Di conseguenza, nella definizione dei valori, lascerebbe campo libero al mercato che oggi sta diventando l’unico arbitro in materia.
Bellissimo trattato dell’amico Bodrato tratto dalla sua lunga e fruttuosa attività di parlamentare. Dovrebbe essere attentamente tenuto presente dai numerosi neofiti, attualmente presenti nell’agone politico, traendone le più serie ed opportune conclusioni, sopratutto ricordandosi che, quasi sempre, le speranze di vittorie con furbizia e intenti di sopraffazione, si rivelano, poi, cocenti delusioni e disfatte!
Penso anch’io che il “trattato” di Guido sia da comprendere bene e poi da usare in modo deciso per non farsi deviare nei ragionamenti per le riforme della legge elettorale. E’ ormai accertato (anche fuori d’Italia) che il sistema può essere di aiuto, ma non risolve di per sè le questioni di governabilità. E’ la politica che deve essere usata bene e per il bene comune, per ottenere governabilità. Le ingegnerie costituzionali ed elettorali, da sole, senza politica possono dare risultati nell’immediato, ma alla lunga non risolvono granché. Perciò, Attenti popolari di ogni contrada della Repubblica: quando si discuterà di legge elettorale, ricordarsi di quanto suggerito da Bodrato. Non lasciatevi incantare da altre sirene.