Nella rappresentazione teatrale di questa inaudita crisi di Governo, tutto può essere spacciato per vero e messo in scena.
Anche l’accusa all’ipotizzato (se nascerà) nuovo governo PD-M5S di essere il frutto di una banale intesa per le “poltrone”, costruita nelle stanze del Parlamento e non di fronte agli elettori. Accusa prevedibile e scontata, ovviamente, resa ancor più facile dalla circostanza che i due partiti si sono dichiarati culturalmente e politicamente alternativi fino a pochi giorni fa.
Detto per inciso, anche per questa ragione, era preferibile che il PD e il centrosinistra provassero a dare vita a un Governo di “tregua operosa”, espresso dal M5S quale partito di maggioranza relativa in Parlamento, assicurando un appoggio esterno condizionato ad alcuni pochi punti programmatici e alla presenza di ministri tecnici di garanzia nei posti chiave.
E tuttavia, con quale credibilità può lanciare questa accusa un partito come la Lega che – dopo le ultime elezioni del marzo 2018 – ha fatto esattamente ciò che oggi condanna, rompendo la coalizione di centro destra con la quale si era presentato agli elettori, per dare vita un governo con i Grillini (pomposamente chiamato “del cambiamento”) e camuffando la semplice compilazione di un elenco di obiettivi tra loro incompatibili come “contratto di governo”?
Diciamo la verità: se vogliamo recuperare un qualche nesso tra voto degli elettori e assetto del potere occorre (tra l’altro) cambiare il sistema elettorale. Dovrebbe essere questo uno degli obbiettivi del nuovo eventuale Governo.
Nella fase precedente si è pensato che la nostra democrazia potesse trovare nuova linfa nella dialettica tra coalizioni alternative. Per questo si riteneva che – la vera competizione essendo “al centro” – destra e sinistra, per conquistare i consensi della prevalente parte centrale e mediana dell’elettorato, avessero la necessità di competere sul terreno della proposta “di governo”, cercando nel contempo di “tirarsi dietro” – da una parte e dall’altra, in ragione del primario obiettivo di sconfiggere la coalizione avversaria – le posizioni più radicali ed estreme dei rispettivi campi.
Qualcuno ha tradotto tutto ciò nella suggestione del “bipartitismo”, altri nella logica delle coalizioni organiche pur se rispettose della pluralità dei partiti che le componevano. La prima suggestione ha dimostrato tutti i suoi limiti. La seconda logica (coalizionale) funziona in realtà solo dove esiste l’elezione diretta del vertice di governo accompagnata dal sistema proporzionale per l’elezione delle Assemblee (Comuni e Regioni).
Rispetto a questi ragionamenti, cosa ci dice la realtà attuale del Paese?
Due cose. Primo: la competizione non è più “al centro” nel senso tradizionale del termine. La domanda sociale (o quanto meno quella che si esprime nelle urne) si è radicalizzata e molti elettori rifiutano di comporre le proprie singole aspettative in un disegno comune e mediato.
L’impoverimento del ceto medio, la crisi di carisma del sistema democratico rappresentativo e la predominanza dei nuovi strumenti di comunicazione producono una oggettiva rendita di posizione a favore delle proposte più eclatanti, demagogiche e populiste. Prevale una politica basata su offerte “a là carte” (illusorie, come si dimostra, ma efficaci nella conquista del consenso).
Secondo: in tutti i campi, conseguentemente, sono le posizioni radicali ed estreme che “si tirano dietro” quelle più equilibrate e responsabili, non il contrario.
Dobbiamo perciò prendere atto che la realtà esige un sistema elettorale più adatto per custodire i valori democratici, favorire quadri di governo stabili, dare forza alle posizioni più responsabili.
Del resto, i sistemi elettorali non sono “ideologie”, ma strumenti di regolazione della democrazia, rapportati alle condizioni date. Nel secondo dopoguerra, il sistema proporzionale ha assicurato efficienza democratica e sviluppo, in forza delle contingenze storiche e della presenza di un sistema dei partiti strutturato, solido, inclusivo e di una compagine sociale aggregata attorno a forti interessi collettivi. La politica suppliva ai potenziali limiti del sistema elettorale.
Nel periodo storico successivo, il proporzionale ha provocato instabilità e deficit di governo: la politica aveva cambiato consistenza e perduto una parte del suo ruolo. Poi, dopo Tangentopoli, col maggioritario si è cercato di supplire alla crisi della politica e dei partiti. Con luci ed ombre, per un po’ ha funzionato.
Oggi siamo in una sorta di limbo indefinito. La domanda politica è sempre più “individualizzata”; la risposta politica sempre più semplificata sul paradigma dei populismi; i riferimenti ideali e culturali sempre più flebili, se non confinati in una romantica nostalgia.
Chi dice che oggi “destra, sinistra, centro non contano più”, ha insieme ragione e torto. Torto, perché le grandi discriminati ideali non possono non avere ancora un senso e non è vero che tutto è uguale. Ragione, perché l’articolazione delle proposte è ormai molto più plurale di qualche anno fa e le vecchie culture politiche sono in gran parte spiazzate difronte ai nuovi scenari antropologici, culturali, tecnologici e sociali.
Una via di uscita da questo limbo è quella della “post democrazia”: meno libertà in cambio della promessa – da parte dell’uomo solo al comando – di ordine, sviluppo, sicurezza, rapidità delle decisioni ed efficienza. Se si vuole contrastare questa deriva autoritaria, occorre lavorare per soluzioni alternative: lo stallo non aiuta.
Dobbiamo dunque considerare in primo luogo che, oggi, un sistema “proporzionale” per l’elezione del Parlamento sarebbe quello più consono, se vogliamo rigenerare la politica, la democrazia, la ricomposizione virtuosa del circuito “popolo-potere”. Ogni cultura politica, veccia e nuova, ha bisogno di un “bagno salutare” che possa far ritrovare la bussola, stimolare nuove idee, riallacciare nuovi rapporti con la comunità delle persone e delle formazioni sociali.
Naturalmente ciò non basta. Servono meccanismi adeguati per aiutare la stabilità dei governi e la trasparenza delle alleanze politiche in Parlamento, ad esempio con l’istituto della sfiducia costruttiva. E, soprattutto, occorre che le aree culturali e politiche (vecchie e nuove) si rigenerino e si riorganizzino in base ai nuovi scenari anche con “forme partito” innovative e sperimentali.
Penso al rapporto tra “politica” e “società civile”: fino a quando potrà andare avanti una sorta di sostanziale separazione – anche, per esempio, nel mondo cattolico e popolare – tra chi si occupa di “comunità” e chi di “politica”?
Penso poi alla rappresentanza dei territori così diversi che compongono il nostro Paese. Vogliamo ancora riproporre un idea di partito nella quale il giusto “respiro” nazionale (ed europeo, auspico) tradisca in realtà una concezione omologante, verticistica e “romanocentrica”?
Mi riferisco al territorio che conosco di più: il Nord. Volgiamo lasciare che dopo il fallimento della “via sovranista nazionalista” la Lega torni impunemente a diventare il “Partito del Nord”?
Oppure pensiamo che – per stare al nostro campo – le radici autonomistiche di matrice cattolico democratica e popolare possano ridiventare punto di riferimento per le aspirazioni di quel Nord operoso, solidale ed europeo che ancora, sotto sotto, resiste ma che richiede soluzioni nuove e coraggiose, magari rilanciando il concetto (molto nostro) di “Repubblica delle Autonomie” e di una Autonomia concepita come responsabilità?
Non è forse il caso di immaginare una nuova “forma partito” fortemente federativa, che ricomponga dal basso, tra l’altro, l’istanza “civica” con la necessità di una visione politica generale?
Lavoriamoci, almeno per quanto sta in noi, visto che siamo oggi fuori dalle stanze del Potere (anche se non rinunciamo al dovere della responsabilità) e, forse, possiamo parlare ed agire con maggiore libertà e sincerità.
Anche l’accusa all’ipotizzato (se nascerà) nuovo governo PD-M5S di essere il frutto di una banale intesa per le “poltrone”, costruita nelle stanze del Parlamento e non di fronte agli elettori. Accusa prevedibile e scontata, ovviamente, resa ancor più facile dalla circostanza che i due partiti si sono dichiarati culturalmente e politicamente alternativi fino a pochi giorni fa.
Detto per inciso, anche per questa ragione, era preferibile che il PD e il centrosinistra provassero a dare vita a un Governo di “tregua operosa”, espresso dal M5S quale partito di maggioranza relativa in Parlamento, assicurando un appoggio esterno condizionato ad alcuni pochi punti programmatici e alla presenza di ministri tecnici di garanzia nei posti chiave.
E tuttavia, con quale credibilità può lanciare questa accusa un partito come la Lega che – dopo le ultime elezioni del marzo 2018 – ha fatto esattamente ciò che oggi condanna, rompendo la coalizione di centro destra con la quale si era presentato agli elettori, per dare vita un governo con i Grillini (pomposamente chiamato “del cambiamento”) e camuffando la semplice compilazione di un elenco di obiettivi tra loro incompatibili come “contratto di governo”?
Diciamo la verità: se vogliamo recuperare un qualche nesso tra voto degli elettori e assetto del potere occorre (tra l’altro) cambiare il sistema elettorale. Dovrebbe essere questo uno degli obbiettivi del nuovo eventuale Governo.
Nella fase precedente si è pensato che la nostra democrazia potesse trovare nuova linfa nella dialettica tra coalizioni alternative. Per questo si riteneva che – la vera competizione essendo “al centro” – destra e sinistra, per conquistare i consensi della prevalente parte centrale e mediana dell’elettorato, avessero la necessità di competere sul terreno della proposta “di governo”, cercando nel contempo di “tirarsi dietro” – da una parte e dall’altra, in ragione del primario obiettivo di sconfiggere la coalizione avversaria – le posizioni più radicali ed estreme dei rispettivi campi.
Qualcuno ha tradotto tutto ciò nella suggestione del “bipartitismo”, altri nella logica delle coalizioni organiche pur se rispettose della pluralità dei partiti che le componevano. La prima suggestione ha dimostrato tutti i suoi limiti. La seconda logica (coalizionale) funziona in realtà solo dove esiste l’elezione diretta del vertice di governo accompagnata dal sistema proporzionale per l’elezione delle Assemblee (Comuni e Regioni).
Rispetto a questi ragionamenti, cosa ci dice la realtà attuale del Paese?
Due cose. Primo: la competizione non è più “al centro” nel senso tradizionale del termine. La domanda sociale (o quanto meno quella che si esprime nelle urne) si è radicalizzata e molti elettori rifiutano di comporre le proprie singole aspettative in un disegno comune e mediato.
L’impoverimento del ceto medio, la crisi di carisma del sistema democratico rappresentativo e la predominanza dei nuovi strumenti di comunicazione producono una oggettiva rendita di posizione a favore delle proposte più eclatanti, demagogiche e populiste. Prevale una politica basata su offerte “a là carte” (illusorie, come si dimostra, ma efficaci nella conquista del consenso).
Secondo: in tutti i campi, conseguentemente, sono le posizioni radicali ed estreme che “si tirano dietro” quelle più equilibrate e responsabili, non il contrario.
Dobbiamo perciò prendere atto che la realtà esige un sistema elettorale più adatto per custodire i valori democratici, favorire quadri di governo stabili, dare forza alle posizioni più responsabili.
Del resto, i sistemi elettorali non sono “ideologie”, ma strumenti di regolazione della democrazia, rapportati alle condizioni date. Nel secondo dopoguerra, il sistema proporzionale ha assicurato efficienza democratica e sviluppo, in forza delle contingenze storiche e della presenza di un sistema dei partiti strutturato, solido, inclusivo e di una compagine sociale aggregata attorno a forti interessi collettivi. La politica suppliva ai potenziali limiti del sistema elettorale.
Nel periodo storico successivo, il proporzionale ha provocato instabilità e deficit di governo: la politica aveva cambiato consistenza e perduto una parte del suo ruolo. Poi, dopo Tangentopoli, col maggioritario si è cercato di supplire alla crisi della politica e dei partiti. Con luci ed ombre, per un po’ ha funzionato.
Oggi siamo in una sorta di limbo indefinito. La domanda politica è sempre più “individualizzata”; la risposta politica sempre più semplificata sul paradigma dei populismi; i riferimenti ideali e culturali sempre più flebili, se non confinati in una romantica nostalgia.
Chi dice che oggi “destra, sinistra, centro non contano più”, ha insieme ragione e torto. Torto, perché le grandi discriminati ideali non possono non avere ancora un senso e non è vero che tutto è uguale. Ragione, perché l’articolazione delle proposte è ormai molto più plurale di qualche anno fa e le vecchie culture politiche sono in gran parte spiazzate difronte ai nuovi scenari antropologici, culturali, tecnologici e sociali.
Una via di uscita da questo limbo è quella della “post democrazia”: meno libertà in cambio della promessa – da parte dell’uomo solo al comando – di ordine, sviluppo, sicurezza, rapidità delle decisioni ed efficienza. Se si vuole contrastare questa deriva autoritaria, occorre lavorare per soluzioni alternative: lo stallo non aiuta.
Dobbiamo dunque considerare in primo luogo che, oggi, un sistema “proporzionale” per l’elezione del Parlamento sarebbe quello più consono, se vogliamo rigenerare la politica, la democrazia, la ricomposizione virtuosa del circuito “popolo-potere”. Ogni cultura politica, veccia e nuova, ha bisogno di un “bagno salutare” che possa far ritrovare la bussola, stimolare nuove idee, riallacciare nuovi rapporti con la comunità delle persone e delle formazioni sociali.
Naturalmente ciò non basta. Servono meccanismi adeguati per aiutare la stabilità dei governi e la trasparenza delle alleanze politiche in Parlamento, ad esempio con l’istituto della sfiducia costruttiva. E, soprattutto, occorre che le aree culturali e politiche (vecchie e nuove) si rigenerino e si riorganizzino in base ai nuovi scenari anche con “forme partito” innovative e sperimentali.
Penso al rapporto tra “politica” e “società civile”: fino a quando potrà andare avanti una sorta di sostanziale separazione – anche, per esempio, nel mondo cattolico e popolare – tra chi si occupa di “comunità” e chi di “politica”?
Penso poi alla rappresentanza dei territori così diversi che compongono il nostro Paese. Vogliamo ancora riproporre un idea di partito nella quale il giusto “respiro” nazionale (ed europeo, auspico) tradisca in realtà una concezione omologante, verticistica e “romanocentrica”?
Mi riferisco al territorio che conosco di più: il Nord. Volgiamo lasciare che dopo il fallimento della “via sovranista nazionalista” la Lega torni impunemente a diventare il “Partito del Nord”?
Oppure pensiamo che – per stare al nostro campo – le radici autonomistiche di matrice cattolico democratica e popolare possano ridiventare punto di riferimento per le aspirazioni di quel Nord operoso, solidale ed europeo che ancora, sotto sotto, resiste ma che richiede soluzioni nuove e coraggiose, magari rilanciando il concetto (molto nostro) di “Repubblica delle Autonomie” e di una Autonomia concepita come responsabilità?
Non è forse il caso di immaginare una nuova “forma partito” fortemente federativa, che ricomponga dal basso, tra l’altro, l’istanza “civica” con la necessità di una visione politica generale?
Lavoriamoci, almeno per quanto sta in noi, visto che siamo oggi fuori dalle stanze del Potere (anche se non rinunciamo al dovere della responsabilità) e, forse, possiamo parlare ed agire con maggiore libertà e sincerità.
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