Dopo il fallimento dei populisti



Lorenzo Dellai    12 Agosto 2019       0

La crisi di governo certifica il fallimento del governo populista, e in particolar modo del Movimento 5 Stelle. Tre elementi della sua crisi strutturale vanno approfonditi con attenzione.

Il primo riguarda la strategia politica.

I Grillini sono passati dalla orgogliosa rivendicazione di una assoluta “alternativitá” rispetto ai partiti tradizionali ad una alleanza di Governo con la Lega. Poco importa che lo abbiano fatto sotto la foglia di fico di un cosiddetto semplice “contratto”. L’errore è stato non capire che la Lega di Salvini, nonostante la sua indubbia innovazione metodologica, è il partito più “tradizionale” che esista oggi in Italia: altro non è che l’evoluzione della vecchia destra nazionalista ed illiberale.

Il vero “caso”, infatti, non è la vicenda TAV (importante, certo, ma non tale da determinare un antagonismo sul piano della visione della società) bensì la incredibile decisione dei senatori grillini di accettare il diktat leghista sul decreto “(in)sicurezza bis”.

Il secondo elemento riguarda la questione della “leadership” nel campo populista e si traduce in una semplice domanda: esiste un “populismo buono” capace di scacciare quello cattivo, come si suole dire per le monete?

L’esperienza del Governo Giallo-Verde sembrerebbe suggerire di no. Il populismo non si può dispensare in quantità omeopatiche, a fin di bene. Il populismo è droga che crea dipendenza: non prevede né “dosi scalari” né terapie di mantenimento per la riduzione del danno. Chi ha le maggiori chances ed il “physique di role” per capitalizzare il vento populista è la destra. Punto. La storia lo insegna. L’attualità italiana lo conferma.

Osservo peraltro che questa considerazione vale anche per ciò che resta di Forza Italia: pensare di rappresentare una istanza “moderata” a fianco di un Salvini egemone, che butta all’aria il Governo per poter chiedere agli elettori “i pieni poteri”, è semplicemente una follia.

Il terzo elemento di riflessione intorno alla crisi del M5S è più profondo e chiama in causa la possibilità di dare voce democratica e progettualità di governo alla insoddisfazione di larga parte della popolazione.

Il M5S ci ha provato. Su coordinate politico-culturali e con una idea della democrazia che non condivido affatto (tema non certo superabile), ma ci ha provato. Ed ha fallito.

La questione però rimane.

Che futuro si può immaginare per la nostra democrazia, che rischia lo svuotamento di “senso” delle sue forme rappresentative e la perdita di carisma popolare nella sua costitutiva missione di giustizia sociale?

Che alternativa si può credibilmente presentare ai cittadini, che in una larga, crescente parte sembrano affidare le proprie paure e le proprie aspettative di sicurezza fisica, identitaria e socio-economica alla destra post democratica?

Esiste una possibile terza via tra l’improbabile conservazione dello status quo e la deriva democratica rappresentata dal baratto “meno libertà (effettiva) per più sicurezza (illusoria)”?

Questo mi sembra essere il vero terreno di discussione politica del futuro, che dovrebbe interessare le culture politiche democratiche, riformiste e popolari (nella prospettiva di una loro auspicata radicale rigenerazione) ma anche chi volesse rielaborare – su basi nuove – le ragioni originarie di una parte del consenso dato al M5S.

Non so se il Presidente Conte intenda cimentarsi in questo: staremo a vedere.

Ciò che è certo è il rischio evidente di un possibile nuovo Parlamento che incoroni Matteo Salvini come primo leader “post democratico” e, dopo Mattarella, elegga un sovranista al Quirinale.

Motivo più che sufficiente per mettere in campo con urgenza nuovi progetti ed alleanze politiche e sociali all’altezza del rischio.


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