Non risulta che Luigi Sturzo e Adriano Olivetti si siano mai incontrati “de visu”, ma certamente si conoscevano e si stimavano, come risulta da uno scambio di due lettere nel 1957, nonché dal fatto che nel 1948 l’ingegner Olivetti possedeva una copia del libro più importante scritto dal sacerdote di Caltagirone, La Vera Vita, Sociologia del Soprannaturale.
Non vi è dubbio che fra questi due grandi italiani vi sia stato un comune “idem sentire” su come affrontare e risolvere i principali problemi della società. Furono due grandi italiani dotati di una dote rara: quella di essere stati sia uomini di pensiero che uomini di azione. Infatti entrambi hanno ben scritto e ben fatto. Molto di più ha potuto scrivere Sturzo, grazie al suo lungo esilio a Londra e a New York (1924-1946) e alle centinaia di articoli scritti dopo il suo ritorno a Roma sino a pochi giorni dalla sua scomparsa, avvenuta a circa 88 anni. Non vi è dubbio che la sua voluminosa Opera Omnia (oltre 50 libri) sia anche il frutto della sua lunga esperienza di “uomo del fare” come promotore sociale, consigliere comunale, consigliere provinciale di Catania, pro-sindaco di Caltagirone e segretario politico del Partito popolare italiano.
Olivetti, sempre molto impegnato nel “fare impresa” e scomparso prematuramente a 59 anni, ha scritto di meno, ma la qualità innovativa dei suoi libri e opuscoli rivela anche la dote di grande uomo di pensiero, che “volò” dall’architettura istituzionale dell’Italia all’architettura ambientale e sociale delle sue “comunità” a Ivrea, Pozzuoli e Matera.
Una grande fede nei valori responsabilizzanti del Cristianesimo
Perché due “anime gemelle”, anche se distanziate da 30 anni di età? Innanzitutto le univa una grande fede nei valori responsabilizzanti del cristianesimo, valori da loro ritenuti fondamentali per la realizzazione di una società libera e giusta.
In Sturzo la “scintilla” si manifestò con la Rerum novarum del 1891, quando aveva 20 anni. L’Enciclica di Leone XIII gli fornì la pietra angolare su cui costruire gran parte della sua attività politica e sociale. Fu l’Enciclica che infranse il mito del liberalismo individualista (“laissez faire, laissez passer”) e il mito del nascente comunismo, definito dal Papa come una medicina peggiore del male che voleva curare.
La Rerum novarum contribuì a radicare in Sturzo un solido convincimento: gli ideali di libertà e di giustizia sociale si possono realizzare solo nel rispetto dei valori del cristianesimo che alla loro base hanno innanzitutto l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Valori che richiedono l’uso responsabile del dono più prezioso donato da Dio agli esseri umani: la libertà.
Né il liberalismo né il comunismo si fondavano su questi valori e non potevano quindi essere utili per la società. Il liberalismo o, meglio, il liberismo selvaggio non poneva limiti alla libertà e quindi sacrificava la giustizia sociale a favore degli imprenditori-padroni, i cosiddetti possidenti, che consideravano i lavoratori come semplici strumenti di produzione. Invece il comunismo sperava di raggiungere la massima giustizia sociale ponendo in “fuori gioco” l’iniziativa privata e affidando la gestione dell’economia all’unico imprenditore-padrone: lo Stato.
Leone XIII, ben “istruito” dal grande economista cattolico (e ora Beato) Giuseppe Toniolo (1845-1918), introdusse una terza via tra queste due visioni conflittuali, ma entrambe sbagliate, parlando per la prima volta di “stretta alleanza” tra imprenditori e lavoratori per risolvere la “questione operaia”. È con la libertà economica responsabile, cioè con la buona formazione culturale degli imprenditori e con il cointeressamento dei lavoratori alla salute e agli utili dell’impresa, che si può realizzare la giustizia sociale.
L’idea “rivoluzionaria” dell’Enciclica leoniana è sintetizzata nel seguente concetto fondamentale: “Nella presente questione operaia lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra, quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile, cosa tanto contraria alla ragione e alla verità (…), perché la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.” Era questa la positiva esperienza maturata da Giuseppe Toniolo in Veneto a diretto contatto con il diffuso fenomeno delle cooperative sociali e delle casse rurali.
Fu così che Sturzo, studente all’Università Gregoriana e allievo del professor Toniolo, si rese conto delle tragedie umane causate da tanta “confusione e barbarie” nel corso dei secoli, e si convinse che benessere e giustizia sociale si potevano conseguire solo con la “conversione” del capitalismo ai valori e ai principi del cristianesimo. Una fede, che si fonda sul reciproco amore tra Dio e gli esseri umani, e di questi fra loro, non può che invitare alla massima concordia e intesa anche nel campo economico e sociale. L’ispirazione cristiana era quindi indispensabile per favorire la libertà responsabile di tutti e la giustizia per tutti.
Tutti proprietari, non tutti proletari
L’etica cristiana dell’economia si basa su questa stretta alleanza fra capitale e lavoro, senza la quale non può che prevalere l’egoismo dei poteri forti e lo sfruttamento dei più deboli, due mali contro i quali si scagliò Marx. Ma la sua era una cura sbagliata, perché lo Stato – per voler fare giustizia sociale – avrebbe prodotto l’ingiustizia dell’abolizione del diritto di proprietà privata, ossia di un diritto naturale che spettava a tutti.
L’incisivo auspicio di Leone XIII, forse suggerito proprio da Toniolo (“tutti proprietari, non tutti proletari”), rimase impresso nella mente del giovane Sturzo, che poi agì per tutta la sua vita con una “missione” ben precisa da compiere: promuovere la funzione sociale del diritto di proprietà. Bisognava far capire quanto importante fosse il valore della libertà economica responsabile e il conseguente principio della difesa e della promozione dell’iniziativa privata. Si poteva così diffondere al massimo il diritto di proprietà privata per il benessere di tutti e non – come era sempre avvenuto nei secoli passati – per il benessere di pochi.
L’incisivo auspicio di Leone XIII, espresso con soltanto cinque parole, abbatteva d’un colpo il monumentale impianto dottrinale di Marx. Ma quelle cinque parole rappresentavano anche un atto di accusa contro l’esperienza storica del potere temporale della Chiesa (“sono lieto di essere nato nel 1871, un anno dopo la fine di quel potere” diceva Sturzo), perché anche i Papi – prima di Leone XIII – affermavano rassegnati: “Così va il mondo, chi nasce povero muore povero e chi nasce ricco muore ricco”. Ciò equivaleva a dire che Dio aveva creato il mondo per donare ricchezze naturali immense solo a una ristretta minoranza di esseri umani, vietandole a tutti gli altri; o a dire che il “crescete e moltiplicatevi” si doveva rivelare come un generoso invito al paradiso terrestre per pochi e come una ingiusta condanna all’inferno su questa terra per tutti gli altri; o a dire che “il sudore della fronte” era riservato a molti per porli al servizio dell’esclusivo piacere di pochi. Come dire che l’ingiustizia sociale era in effetti di origine divina.
Ma Sturzo capì che l’ingiustizia sociale era invece di origine umana, prodotta dal violento predominio del ristretto vertice dei poteri forti sull’ampia e debole base della società. Pertanto lo stimolo culturale e pedagogico della Rerum novarum fu determinante nel motivarlo all’azione sociale.
In breve tempo egli si rivelò nella sua Caltagirone come un efficiente promotore di iniziative produttive e solidali, dando vita a cooperative di lavoro e di consumo, nonché alla costituzione nel 1897 di una cassa rurale in funzione anti-usura. Fu il suo metodo concreto di tradurre il pensiero – nutrito di buona cultura – in azione costruttiva. Il sistema economico-sociale della sua città doveva trasformarsi in un sistema aperto a tutti, a partire dall’istruzione di base, cioè dalla scuola elementare, sino ad allora praticamente “chiusa” ai figli dei poveri, ossia alla maggioranza dei bambini. Il saggio incitamento, che Dante fece dire a Ulisse per motivare i suoi marinai – esausti e bloccati dalla mancanza di vento – a mettere di nuovo mano ai remi per proseguire il loro coraggioso viaggio (“Considerate la vostra semenza, fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”), non fu mai capito dai governanti del mondo né dalla Chiesa. La conoscenza (nell’italiano di Dante “canoscenza”) fu sempre riservata al vertice, mentre la base – per lo più formata da soldati e contadini – era condannata a sudare utilizzando soltanto i muscoli delle braccia; muscoli deboli, poco produttivi e quindi mal pagati, causa prima della povertà di massa, dell’ingiustizia sociale e del “viver come bruti”.
La vera “rivoluzione” è quella cristiana
Se questa era stata la “cultura” prevalente nella lunga storia dell’umanità, non sorprende che nel 1894 – all’inaugurazione dell’anno giudiziario – il Procuratore del Regno di Caltagirone dicesse: “Il saper leggere e scrivere ha dato luogo a molti inconvenienti e, specie nelle contese elettorali, alla rovina delle masse”. E nelle sue memorie, Giolitti ricordava che da Caltagirone, in quegli stessi anni, venne la richiesta dell’abolizione dell’istruzione elementare, “perché i contadini non potessero, leggendo, assorbire idee nuove”. Quelle idee nuove che invece Leone XIII promuoveva con la sua Enciclica più famosa, che infiammò la mente del seminarista Luigi Sturzo, divenuto sacerdote proprio nell’anno in cui il suddetto Procuratore si lamentava dei danni prodotti dalla “conoscenza”.
E nei 15 anni in cui fu pro-sindaco di Caltagirone (1905-1920), Sturzo riuscì a portare nel territorio calatino molte innovazioni “rivoluzionarie” (ma si trattava della più vera delle “rivoluzioni”, quella cristiana, non della più falsa, quella comunista), così da trasformare un popolo da sempre “estraneo” allo sviluppo economico-sociale in un popolo destinato – nelle sue intenzioni – a essere sempre più “partecipativo”, ossia protagonista nello sviluppo dell’economia, in quanto coinvolto e cointeressato. Di qui il nome di “popolarismo” dato al suo metodo di governo, quando nel 1919 fondò il Partito popolare italiano.
In quell’anno Adriano Olivetti, 18enne, conobbe Piero Gobetti a Torino. Fra i due giovani si stabilì subito una sincera amicizia, poi consolidata in una forte intesa culturale, quando nel 1922 Gobetti – poco più che ventenne – fondò la rivista di cultura politica “Rivoluzione Liberale” sotto l’influenza di Gaetano Salvemini.
Fu quindi tramite Gobetti che ci fu il primo contatto indiretto tra Sturzo e Olivetti. Questi certamente sapeva della grande stima che Gobetti nutriva per il fondatore del PPI. Il 26 aprile 1923, a pochi giorni dalla fine del Congresso del PPI svoltosi a Torino (12-14 aprile), dove si decise l’uscita dei ministri Popolari dal governo Mussolini, Piero Gobetti scriveva la seguente lettera a Sturzo: “Non ho voluto disturbarLa al Congresso, perché La vedevo preso in tante cose più importanti, ma L’ho seguita con animo da liberale. Anche per ‘Rivoluzione Liberale’ Ella mi aveva promesso qualche frammento di studio o qualche spunto: ce lo manderà?” Altroché “frammento di studio” o “spunto”… Sturzo era talmente in sintonia culturale con il giovane Gobetti che nei mesi successivi decise di affidare alla sua Casa Editrice ben tre libri: Popolarismo e fascismo, Pensiero antifascista e La libertà in Italia. Furono decisioni coraggiose, sia per l’Autore che per l’Editore, perché l’esito del Congresso di Torino determinò la fine dell’attività politica di Sturzo (nel luglio del 1923 egli fu costretto a dimettersi da Segretario Nazionale del PPI su pressione del Vaticano) sino a obbligarlo all’esilio nell’ottobre del 1924.
La fama di editore antifascista costrinse anche Gobetti all’esilio, che fu di breve durata, in quanto morì a Parigi nel febbraio del 1926 in seguito alle ferite causate da diversi violenti pestaggi subiti per mano di fanatici fascisti italiani.
L'impresa come “fabbrica di bene”
Il destino di Adriano Olivetti si intrecciò con quello di Sturzo e di Gobetti, perché nel 1925 suo padre Camillo – seriamente preoccupato per l’amicizia del figlio con il giovane editore antifascista e con Carlo Rosselli – decise di allontanarlo da queste amicizie “pericolose” e di inviarlo negli Stati Uniti per un lungo viaggio di studio, che lo portò a visitare ben 105 imprese. Ritornò in Italia dopo sei mesi con una cinquantina di libri di economia e di organizzazione scientifica del lavoro che lo influenzarono molto, sino a maturare nel tempo una sua originale concezione dell’impresa come “fabbrica di bene”. Questa doveva essere un luogo a misura d’uomo, nel pieno rispetto della dignità del lavoratore e del suo vivere in armonia con l’ambiente circostante.
Riuscì a realizzare il suo sogno nel secondo dopoguerra, culturalmente arricchito da tante letture (fra i quali alcuni libri dell’Opera Omnia di Sturzo) e dalla conversione al cristianesimo, che lo portarono a vedere la salvezza dell’economia attraverso l’economia della salvezza contenuta nel Vangelo e nelle Encicliche sociali da lui certamente lette e meditate.
Il lungo viaggio negli Stati Uniti, compiuto quando Olivetti aveva solo 24 anni, contribuì anche ad “aprirlo” al concetto di multinazionalità dell’impresa e di globalizzazione dell’economia, che lo portò dapprima a sviluppare la rete commerciale della Olivetti all’estero e più tardi – negli anni ’50 – ad aprire negli Stati Uniti un laboratorio di ricerca sui calcolatori elettronici, uno stabilimento a San Paolo in Brasile e infine ad acquisire la Underwood, storica azienda USA di macchine da scrivere con quasi 11.000 dipendenti.
Alla prematura morte di Adriano (27 febbraio 1960), la Olivetti poteva considerarsi – con circa 40.000 dipendenti – la prima impresa italiana multinazionale e una delle più innovative.
Sturzo profeta: la globalizzazione sarà inarrestabile, ma positiva solo se ben gestita
Nello stesso periodo del primo viaggio americano del giovane Olivetti, Sturzo – già in esilio a Londra – iniziò a riflettere sui benefici e sui pericoli di un fenomeno da lui ritenuto inarrestabile: la globalizzazione dell’economia mondiale.
Nel libro La comunità internazionale e il diritto di guerra, pubblicato nel 1928, egli fa capire cosa ci avrebbe riservato il futuro con il graduale abbattimento dei confini fisici e ideologici. Ecco un brano significativo: “Alcuni hanno timore della potenza enorme che ha acquistato e acquista sempre più il capitalismo internazionale, che – superando confini statali e limiti geografici – viene quasi a costituire uno Stato nello Stato. Tale timore è simile a quello per le acque di un fiume. Davanti al pericolo di uno straripamento, gli uomini si sforzano di garantire città e campagne con canali, dighe e altre opere di difesa. Nel medesimo tempo lo utilizzano per la navigazione, l’irrigazione, la forza motrice e così via. Il grande fiume è una grande ricchezza, ma può essere un grave danno: dipende dagli uomini, in gran parte, evitare questo. Quello che non dipende dagli uomini è che il fiume non esista. Così è del grande fiume dell’economia internazionale. La sua importanza moderna risale alla grande industria del secolo scorso: il suo sviluppo, attraverso invenzioni scientifiche di assai grande portata nel campo della fisica e della chimica, diverrà ancora più importante, anzi gigantesco, con la razionale utilizzazione delle grandi forze della natura. Nessuno può ragionevolmente opporsi a simile prospettiva. Ciascuno deve concorrere a indirizzare il grande fiume verso il vantaggio comune. Contro l’allargamento delle frontiere economiche, dai singoli Stati ai continenti insorgono i piccoli e grandi interessi nazionali, ma il movimento è inarrestabile: l’estensione dei confini economici precederà quella dei confini politici. Chi non sente ciò è fuori dalla realtà”.
Con la sua innovativa azione di imprenditore, Olivetti cercò di non restare fuori dalla realtà e anticipò i tempi aprendosi all’estero. Ma per i posteri Sturzo lanciò un ammonimento sin dal 1928: il buon capitalismo prevarrà se il mondo della politica e dell’economia riuscirà a stabilire e a rispettare le buone regole di navigazione, nonché a costruire canali scorrevoli, dighe solide e altre opere di difesa contro le avversità causate dai comportamenti irrazionali e quindi immorali dei naviganti. Comportamenti che comunque esisteranno sempre, ma si tratta di ridurli e isolarli gradualmente nel tempo per neutralizzare i loro effetti negativi. Di qui l’enorme importanza del rispetto dei valori morali nel fissare le regole di navigazione e nel controllare che i naviganti le rispettino.
I valori del Cristianesimo vanno posti alla base della società civile
Pertanto Sturzo e Olivetti si possono considerare “anime gemelle” soprattutto per la loro convinzione di porre i valori morali del cristianesimo alla base della società civile. Tutto ciò che inquina o annulla quei valori danneggia la vita umana fino al rischio di distruggerla. Sono valori non solo di promozione, ma anche e soprattutto di difesa dell’uomo.
In un articolo pubblicato sul quotidiano “El Matì” di Barcellona del 12 novembre 1933 dal titolo Schiavitù antiche e moderne, Sturzo scriveva: “Occorre avvicinare gli uomini fra di loro, padroni e operai, capi di Stato e cittadini, popoli e popoli, per rompere i vincoli di schiavitù che si vanno formando, come cerchi infrangibili. Occorre perciò elevare il senso morale dei popoli, riabilitare la personalità e la dignità umana, ridare valore alla responsabilità personale, proclamare il primato dell’amore del prossimo. Tutto ciò è in sostanza cristianesimo e solo dal cristianesimo può trarre forza e vigore ogni azione diretta a sì nobile fine. La civiltà cristiana, per quello che ha realizzato di bene nel mondo, è tutta fondata sull’amore del prossimo. Tutto ciò che vi contraddice deriva dall’egoismo dell’uomo. La penetrazione dello spirito cristiano nei rapporti sociali è un ideale altissimo, che deve spingere i cattolici a lavorare e a lottare sul terreno politico-sociale, nazionale e internazionale”.
Sono parole che Adriano Olivetti avrebbe sottoscritto in pieno.
Anche dal seguente profondo pensiero, espresso nella sua principale opera sociologica (La società, sua natura e leggi), si capisce come secondo Sturzo ogni elemento sociale – e quindi anche il capitalismo – per porsi in maniera positiva e costruttiva al servizio dell’uomo, doveva avere un forte contenuto morale, doveva cioè rispettare i valori fondamentali del cristianesimo: “La base della vita individuale e della vita sociale è identica: conoscenza e amore. È impossibile concepire una società senza questo binomio (…). Non può darsi perfezione umana senza la verità, che è l’oggetto della conoscenza, e senza il bene, che è l’oggetto della volontà. Ogni elemento sociale, se non è trasformato in verità e amore, non ha valore”.
Un sistema economico dominato dal conflitto fra capitale e lavoro o sullo sfruttamento del primo sul secondo, non importa se in mano pubblica o privata, non può avere valore e non può quindi creare valore. Pertanto tutto il pensiero economico sturziano si fondava sulla solida base morale del cristianesimo.
È poi interessante il suo ammonimento contro chi desiderava tirare l’acqua al proprio mulino nell’interpretare la dottrina sociale della Chiesa. Il 18 marzo 1939, in un articolo pubblicato sul quotidiano “Il Lavoro” di Lugano dal titolo Quadragesimo anno e Divini Redemptoris, egli scriveva: “Non mi pare esigere troppo che a fianco della giusta critica e autorevole condanna del socialismo marxista e del comunismo ateo, si parlasse anche un po’ del capitalismo anonimo e sfruttatore. Ma, secondo me, mentre è un dovere mettere in guardia gli operai per non correre dietro a teorie pericolose e condannate dalla ragione naturale e dalla morale cristiana, è un più pressante dovere attuare quel che le encicliche sociali dei Papi suggeriscono o comandano per il bene della classe operaia in nome della giustizia e della carità. Se dal lato dei padroni ci fosse un po’ più di giustizia; se dal lato dei governi ci fosse più premura a sviluppare il lato sociale degli organismi professionali e corporativi per migliorare la legislazione assicurativa; a rendere meno acuta la crisi di disoccupazione; a diminuire le spese militari improduttive per migliorare la produzione e i commerci, allora ci sarebbero meno motivi per gli agitatori socialisti e comunisti a eccitare le masse e a monopolizzarne le rivendicazioni. Le due encicliche di Pio XI hanno i due aspetti: critica e costruzione; insegnamenti e pratica; condanne ed esortazioni. Non bisogna pigliare solo quello che ci piace: i padroni prendono la condanna del socialismo e del comunismo; gli operai prendono le proposte pratiche sui salari, il giusto prezzo, le unioni professionali e così via. Solo nell’integrità dottrinale e nell’esecuzione pratica si onorerà la memoria di Pio XI e si creerà tra i cattolici lo spirito e la realtà cristianosociale”.
Il capitalismo pericoloso e il capitalismo virtuoso
È bene ricordare che la Quadragesimo anno del 1931 sottolineava la grande importanza e validità di una proposta-cardine della Rerum novarum di Leone XIII e che il Partito popolare italiano tentò invano nel 1920 di realizzare con una legge sull’azionariato dei lavoratori. L’Enciclica di Pio XI giustamente diceva: “Se quel che più conta – l’intelligenza, il capitale e il lavoro – non si associano, quasi a formare una cosa sola, l’umana attività non può produrre i suoi frutti”.
Alla fine della seconda guerra mondiale l’attuazione di questo principio fondamentale (la stretta alleanza fra capitale e lavoro) veniva considerato da Sturzo come una condizione per la realizzazione di una vera pace a livello mondiale: “Il problema della pace, che deve seguire questa guerra, sarà un problema di organizzazione economica sul piano internazionale o non vi sarà pace. Il capitale e il lavoro dovranno collaborare per trovare una giusta soluzione, abolendo il capitale anonimo e irresponsabile, e dirigendo la produzione e l’occupazione verso grandi lavori di ricostruzione per il benessere generale”.
Negli anni ’50 Sturzo ritornò più volte sul capitalismo pericoloso (quello anonimo, invadente, oppressivo, speculativo) e sul capitalismo virtuoso (quello popolare e partecipativo, funzionante in un sistema di vera democrazia economica, qualità indispensabile per avere un sistema di vera democrazia politica). In piena sintonia con Olivetti, anche Sturzo avrebbe detto che l’impresa privata poteva rivelarsi “fabbrica di bene” solo se inquadrata in un sistema capitalistico popolare e partecipativo, cioè il capitalismo di tutti auspicato da Leone XIII nel lontano 1891 (“tutti proprietari non tutti proletari”). Ma certamente non proprietari del capitalismo di carta oggi rampante in seguito all’invenzione di prodotti finanziari puramente speculativi, che nulla hanno a che fare con il sostegno dell’economia reale.
Concetti poi ripresi e approfonditi da altre encicliche formidabili come la Mater et magistra, la Populorum progressio, la Gaudium et spes, la Centesimus annus, la Caritas in veritate e dalle recenti “esortazioni” di papa Francesco. È un prezioso patrimonio culturale rimasto sulla carta e che ancora attende – da ben 128 anni! – di essere tradotto in pratica…
Altro punto di incontro fra le due “anime gemelle” riguarda il principio di sussidiarietà, “coniugato” da Sturzo con la sua visione municipalista e da Olivetti con la sua visione comunitaria, visioni entrambe finalizzate a difendere l’autonomia creativa, organizzativa e decisionale del singolo Comune (Sturzo) e della singola comunità (Olivetti) contro l’invadenza e l’incompetenza – se non altro per ragioni di “distanza” – dello Stato. Per sua natura questo è incapace di gestire il “particolare” della vita locale che può essere ben conosciuto solo da chi vive vicino alle esigenze e ai problemi dei cittadini. È la democrazia dal basso, che nella visione sturziana e olivettiana va inquadrata in un sistema federale, intelligente gestore del decentramento amministrativo.
Purtroppo l’abilità di Sturzo nel gestire per ben 15 anni il suo comune e l’abilità di Olivetti nel gestire la sua comunità di Ivrea e quelle nascenti di Pozzuoli e Matera non hanno fatto scuola in un Paese dominato dal centralismo invadente e inefficiente dello Stato. Ma possono ancora essere di esempio e di insegnamento per le prossime generazioni chiamate a riparare i guasti dello statalismo e del liberismo selvaggio.
Le buone “medicine” esistono, ci dicono da tempo Luigi Sturzo e Adriano Olivetti. Un nuovo partito di vera e coerente ispirazione cristiana non può farne a meno. L’Italia (e non solo) ne ha un gran bisogno!
(Tratto da www.servirelitalia.it)
Non vi è dubbio che fra questi due grandi italiani vi sia stato un comune “idem sentire” su come affrontare e risolvere i principali problemi della società. Furono due grandi italiani dotati di una dote rara: quella di essere stati sia uomini di pensiero che uomini di azione. Infatti entrambi hanno ben scritto e ben fatto. Molto di più ha potuto scrivere Sturzo, grazie al suo lungo esilio a Londra e a New York (1924-1946) e alle centinaia di articoli scritti dopo il suo ritorno a Roma sino a pochi giorni dalla sua scomparsa, avvenuta a circa 88 anni. Non vi è dubbio che la sua voluminosa Opera Omnia (oltre 50 libri) sia anche il frutto della sua lunga esperienza di “uomo del fare” come promotore sociale, consigliere comunale, consigliere provinciale di Catania, pro-sindaco di Caltagirone e segretario politico del Partito popolare italiano.
Olivetti, sempre molto impegnato nel “fare impresa” e scomparso prematuramente a 59 anni, ha scritto di meno, ma la qualità innovativa dei suoi libri e opuscoli rivela anche la dote di grande uomo di pensiero, che “volò” dall’architettura istituzionale dell’Italia all’architettura ambientale e sociale delle sue “comunità” a Ivrea, Pozzuoli e Matera.
Una grande fede nei valori responsabilizzanti del Cristianesimo
Perché due “anime gemelle”, anche se distanziate da 30 anni di età? Innanzitutto le univa una grande fede nei valori responsabilizzanti del cristianesimo, valori da loro ritenuti fondamentali per la realizzazione di una società libera e giusta.
In Sturzo la “scintilla” si manifestò con la Rerum novarum del 1891, quando aveva 20 anni. L’Enciclica di Leone XIII gli fornì la pietra angolare su cui costruire gran parte della sua attività politica e sociale. Fu l’Enciclica che infranse il mito del liberalismo individualista (“laissez faire, laissez passer”) e il mito del nascente comunismo, definito dal Papa come una medicina peggiore del male che voleva curare.
La Rerum novarum contribuì a radicare in Sturzo un solido convincimento: gli ideali di libertà e di giustizia sociale si possono realizzare solo nel rispetto dei valori del cristianesimo che alla loro base hanno innanzitutto l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Valori che richiedono l’uso responsabile del dono più prezioso donato da Dio agli esseri umani: la libertà.
Né il liberalismo né il comunismo si fondavano su questi valori e non potevano quindi essere utili per la società. Il liberalismo o, meglio, il liberismo selvaggio non poneva limiti alla libertà e quindi sacrificava la giustizia sociale a favore degli imprenditori-padroni, i cosiddetti possidenti, che consideravano i lavoratori come semplici strumenti di produzione. Invece il comunismo sperava di raggiungere la massima giustizia sociale ponendo in “fuori gioco” l’iniziativa privata e affidando la gestione dell’economia all’unico imprenditore-padrone: lo Stato.
Leone XIII, ben “istruito” dal grande economista cattolico (e ora Beato) Giuseppe Toniolo (1845-1918), introdusse una terza via tra queste due visioni conflittuali, ma entrambe sbagliate, parlando per la prima volta di “stretta alleanza” tra imprenditori e lavoratori per risolvere la “questione operaia”. È con la libertà economica responsabile, cioè con la buona formazione culturale degli imprenditori e con il cointeressamento dei lavoratori alla salute e agli utili dell’impresa, che si può realizzare la giustizia sociale.
L’idea “rivoluzionaria” dell’Enciclica leoniana è sintetizzata nel seguente concetto fondamentale: “Nella presente questione operaia lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra, quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile, cosa tanto contraria alla ragione e alla verità (…), perché la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.” Era questa la positiva esperienza maturata da Giuseppe Toniolo in Veneto a diretto contatto con il diffuso fenomeno delle cooperative sociali e delle casse rurali.
Fu così che Sturzo, studente all’Università Gregoriana e allievo del professor Toniolo, si rese conto delle tragedie umane causate da tanta “confusione e barbarie” nel corso dei secoli, e si convinse che benessere e giustizia sociale si potevano conseguire solo con la “conversione” del capitalismo ai valori e ai principi del cristianesimo. Una fede, che si fonda sul reciproco amore tra Dio e gli esseri umani, e di questi fra loro, non può che invitare alla massima concordia e intesa anche nel campo economico e sociale. L’ispirazione cristiana era quindi indispensabile per favorire la libertà responsabile di tutti e la giustizia per tutti.
Tutti proprietari, non tutti proletari
L’etica cristiana dell’economia si basa su questa stretta alleanza fra capitale e lavoro, senza la quale non può che prevalere l’egoismo dei poteri forti e lo sfruttamento dei più deboli, due mali contro i quali si scagliò Marx. Ma la sua era una cura sbagliata, perché lo Stato – per voler fare giustizia sociale – avrebbe prodotto l’ingiustizia dell’abolizione del diritto di proprietà privata, ossia di un diritto naturale che spettava a tutti.
L’incisivo auspicio di Leone XIII, forse suggerito proprio da Toniolo (“tutti proprietari, non tutti proletari”), rimase impresso nella mente del giovane Sturzo, che poi agì per tutta la sua vita con una “missione” ben precisa da compiere: promuovere la funzione sociale del diritto di proprietà. Bisognava far capire quanto importante fosse il valore della libertà economica responsabile e il conseguente principio della difesa e della promozione dell’iniziativa privata. Si poteva così diffondere al massimo il diritto di proprietà privata per il benessere di tutti e non – come era sempre avvenuto nei secoli passati – per il benessere di pochi.
L’incisivo auspicio di Leone XIII, espresso con soltanto cinque parole, abbatteva d’un colpo il monumentale impianto dottrinale di Marx. Ma quelle cinque parole rappresentavano anche un atto di accusa contro l’esperienza storica del potere temporale della Chiesa (“sono lieto di essere nato nel 1871, un anno dopo la fine di quel potere” diceva Sturzo), perché anche i Papi – prima di Leone XIII – affermavano rassegnati: “Così va il mondo, chi nasce povero muore povero e chi nasce ricco muore ricco”. Ciò equivaleva a dire che Dio aveva creato il mondo per donare ricchezze naturali immense solo a una ristretta minoranza di esseri umani, vietandole a tutti gli altri; o a dire che il “crescete e moltiplicatevi” si doveva rivelare come un generoso invito al paradiso terrestre per pochi e come una ingiusta condanna all’inferno su questa terra per tutti gli altri; o a dire che “il sudore della fronte” era riservato a molti per porli al servizio dell’esclusivo piacere di pochi. Come dire che l’ingiustizia sociale era in effetti di origine divina.
Ma Sturzo capì che l’ingiustizia sociale era invece di origine umana, prodotta dal violento predominio del ristretto vertice dei poteri forti sull’ampia e debole base della società. Pertanto lo stimolo culturale e pedagogico della Rerum novarum fu determinante nel motivarlo all’azione sociale.
In breve tempo egli si rivelò nella sua Caltagirone come un efficiente promotore di iniziative produttive e solidali, dando vita a cooperative di lavoro e di consumo, nonché alla costituzione nel 1897 di una cassa rurale in funzione anti-usura. Fu il suo metodo concreto di tradurre il pensiero – nutrito di buona cultura – in azione costruttiva. Il sistema economico-sociale della sua città doveva trasformarsi in un sistema aperto a tutti, a partire dall’istruzione di base, cioè dalla scuola elementare, sino ad allora praticamente “chiusa” ai figli dei poveri, ossia alla maggioranza dei bambini. Il saggio incitamento, che Dante fece dire a Ulisse per motivare i suoi marinai – esausti e bloccati dalla mancanza di vento – a mettere di nuovo mano ai remi per proseguire il loro coraggioso viaggio (“Considerate la vostra semenza, fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”), non fu mai capito dai governanti del mondo né dalla Chiesa. La conoscenza (nell’italiano di Dante “canoscenza”) fu sempre riservata al vertice, mentre la base – per lo più formata da soldati e contadini – era condannata a sudare utilizzando soltanto i muscoli delle braccia; muscoli deboli, poco produttivi e quindi mal pagati, causa prima della povertà di massa, dell’ingiustizia sociale e del “viver come bruti”.
La vera “rivoluzione” è quella cristiana
Se questa era stata la “cultura” prevalente nella lunga storia dell’umanità, non sorprende che nel 1894 – all’inaugurazione dell’anno giudiziario – il Procuratore del Regno di Caltagirone dicesse: “Il saper leggere e scrivere ha dato luogo a molti inconvenienti e, specie nelle contese elettorali, alla rovina delle masse”. E nelle sue memorie, Giolitti ricordava che da Caltagirone, in quegli stessi anni, venne la richiesta dell’abolizione dell’istruzione elementare, “perché i contadini non potessero, leggendo, assorbire idee nuove”. Quelle idee nuove che invece Leone XIII promuoveva con la sua Enciclica più famosa, che infiammò la mente del seminarista Luigi Sturzo, divenuto sacerdote proprio nell’anno in cui il suddetto Procuratore si lamentava dei danni prodotti dalla “conoscenza”.
E nei 15 anni in cui fu pro-sindaco di Caltagirone (1905-1920), Sturzo riuscì a portare nel territorio calatino molte innovazioni “rivoluzionarie” (ma si trattava della più vera delle “rivoluzioni”, quella cristiana, non della più falsa, quella comunista), così da trasformare un popolo da sempre “estraneo” allo sviluppo economico-sociale in un popolo destinato – nelle sue intenzioni – a essere sempre più “partecipativo”, ossia protagonista nello sviluppo dell’economia, in quanto coinvolto e cointeressato. Di qui il nome di “popolarismo” dato al suo metodo di governo, quando nel 1919 fondò il Partito popolare italiano.
In quell’anno Adriano Olivetti, 18enne, conobbe Piero Gobetti a Torino. Fra i due giovani si stabilì subito una sincera amicizia, poi consolidata in una forte intesa culturale, quando nel 1922 Gobetti – poco più che ventenne – fondò la rivista di cultura politica “Rivoluzione Liberale” sotto l’influenza di Gaetano Salvemini.
Fu quindi tramite Gobetti che ci fu il primo contatto indiretto tra Sturzo e Olivetti. Questi certamente sapeva della grande stima che Gobetti nutriva per il fondatore del PPI. Il 26 aprile 1923, a pochi giorni dalla fine del Congresso del PPI svoltosi a Torino (12-14 aprile), dove si decise l’uscita dei ministri Popolari dal governo Mussolini, Piero Gobetti scriveva la seguente lettera a Sturzo: “Non ho voluto disturbarLa al Congresso, perché La vedevo preso in tante cose più importanti, ma L’ho seguita con animo da liberale. Anche per ‘Rivoluzione Liberale’ Ella mi aveva promesso qualche frammento di studio o qualche spunto: ce lo manderà?” Altroché “frammento di studio” o “spunto”… Sturzo era talmente in sintonia culturale con il giovane Gobetti che nei mesi successivi decise di affidare alla sua Casa Editrice ben tre libri: Popolarismo e fascismo, Pensiero antifascista e La libertà in Italia. Furono decisioni coraggiose, sia per l’Autore che per l’Editore, perché l’esito del Congresso di Torino determinò la fine dell’attività politica di Sturzo (nel luglio del 1923 egli fu costretto a dimettersi da Segretario Nazionale del PPI su pressione del Vaticano) sino a obbligarlo all’esilio nell’ottobre del 1924.
La fama di editore antifascista costrinse anche Gobetti all’esilio, che fu di breve durata, in quanto morì a Parigi nel febbraio del 1926 in seguito alle ferite causate da diversi violenti pestaggi subiti per mano di fanatici fascisti italiani.
L'impresa come “fabbrica di bene”
Il destino di Adriano Olivetti si intrecciò con quello di Sturzo e di Gobetti, perché nel 1925 suo padre Camillo – seriamente preoccupato per l’amicizia del figlio con il giovane editore antifascista e con Carlo Rosselli – decise di allontanarlo da queste amicizie “pericolose” e di inviarlo negli Stati Uniti per un lungo viaggio di studio, che lo portò a visitare ben 105 imprese. Ritornò in Italia dopo sei mesi con una cinquantina di libri di economia e di organizzazione scientifica del lavoro che lo influenzarono molto, sino a maturare nel tempo una sua originale concezione dell’impresa come “fabbrica di bene”. Questa doveva essere un luogo a misura d’uomo, nel pieno rispetto della dignità del lavoratore e del suo vivere in armonia con l’ambiente circostante.
Riuscì a realizzare il suo sogno nel secondo dopoguerra, culturalmente arricchito da tante letture (fra i quali alcuni libri dell’Opera Omnia di Sturzo) e dalla conversione al cristianesimo, che lo portarono a vedere la salvezza dell’economia attraverso l’economia della salvezza contenuta nel Vangelo e nelle Encicliche sociali da lui certamente lette e meditate.
Il lungo viaggio negli Stati Uniti, compiuto quando Olivetti aveva solo 24 anni, contribuì anche ad “aprirlo” al concetto di multinazionalità dell’impresa e di globalizzazione dell’economia, che lo portò dapprima a sviluppare la rete commerciale della Olivetti all’estero e più tardi – negli anni ’50 – ad aprire negli Stati Uniti un laboratorio di ricerca sui calcolatori elettronici, uno stabilimento a San Paolo in Brasile e infine ad acquisire la Underwood, storica azienda USA di macchine da scrivere con quasi 11.000 dipendenti.
Alla prematura morte di Adriano (27 febbraio 1960), la Olivetti poteva considerarsi – con circa 40.000 dipendenti – la prima impresa italiana multinazionale e una delle più innovative.
Sturzo profeta: la globalizzazione sarà inarrestabile, ma positiva solo se ben gestita
Nello stesso periodo del primo viaggio americano del giovane Olivetti, Sturzo – già in esilio a Londra – iniziò a riflettere sui benefici e sui pericoli di un fenomeno da lui ritenuto inarrestabile: la globalizzazione dell’economia mondiale.
Nel libro La comunità internazionale e il diritto di guerra, pubblicato nel 1928, egli fa capire cosa ci avrebbe riservato il futuro con il graduale abbattimento dei confini fisici e ideologici. Ecco un brano significativo: “Alcuni hanno timore della potenza enorme che ha acquistato e acquista sempre più il capitalismo internazionale, che – superando confini statali e limiti geografici – viene quasi a costituire uno Stato nello Stato. Tale timore è simile a quello per le acque di un fiume. Davanti al pericolo di uno straripamento, gli uomini si sforzano di garantire città e campagne con canali, dighe e altre opere di difesa. Nel medesimo tempo lo utilizzano per la navigazione, l’irrigazione, la forza motrice e così via. Il grande fiume è una grande ricchezza, ma può essere un grave danno: dipende dagli uomini, in gran parte, evitare questo. Quello che non dipende dagli uomini è che il fiume non esista. Così è del grande fiume dell’economia internazionale. La sua importanza moderna risale alla grande industria del secolo scorso: il suo sviluppo, attraverso invenzioni scientifiche di assai grande portata nel campo della fisica e della chimica, diverrà ancora più importante, anzi gigantesco, con la razionale utilizzazione delle grandi forze della natura. Nessuno può ragionevolmente opporsi a simile prospettiva. Ciascuno deve concorrere a indirizzare il grande fiume verso il vantaggio comune. Contro l’allargamento delle frontiere economiche, dai singoli Stati ai continenti insorgono i piccoli e grandi interessi nazionali, ma il movimento è inarrestabile: l’estensione dei confini economici precederà quella dei confini politici. Chi non sente ciò è fuori dalla realtà”.
Con la sua innovativa azione di imprenditore, Olivetti cercò di non restare fuori dalla realtà e anticipò i tempi aprendosi all’estero. Ma per i posteri Sturzo lanciò un ammonimento sin dal 1928: il buon capitalismo prevarrà se il mondo della politica e dell’economia riuscirà a stabilire e a rispettare le buone regole di navigazione, nonché a costruire canali scorrevoli, dighe solide e altre opere di difesa contro le avversità causate dai comportamenti irrazionali e quindi immorali dei naviganti. Comportamenti che comunque esisteranno sempre, ma si tratta di ridurli e isolarli gradualmente nel tempo per neutralizzare i loro effetti negativi. Di qui l’enorme importanza del rispetto dei valori morali nel fissare le regole di navigazione e nel controllare che i naviganti le rispettino.
I valori del Cristianesimo vanno posti alla base della società civile
Pertanto Sturzo e Olivetti si possono considerare “anime gemelle” soprattutto per la loro convinzione di porre i valori morali del cristianesimo alla base della società civile. Tutto ciò che inquina o annulla quei valori danneggia la vita umana fino al rischio di distruggerla. Sono valori non solo di promozione, ma anche e soprattutto di difesa dell’uomo.
In un articolo pubblicato sul quotidiano “El Matì” di Barcellona del 12 novembre 1933 dal titolo Schiavitù antiche e moderne, Sturzo scriveva: “Occorre avvicinare gli uomini fra di loro, padroni e operai, capi di Stato e cittadini, popoli e popoli, per rompere i vincoli di schiavitù che si vanno formando, come cerchi infrangibili. Occorre perciò elevare il senso morale dei popoli, riabilitare la personalità e la dignità umana, ridare valore alla responsabilità personale, proclamare il primato dell’amore del prossimo. Tutto ciò è in sostanza cristianesimo e solo dal cristianesimo può trarre forza e vigore ogni azione diretta a sì nobile fine. La civiltà cristiana, per quello che ha realizzato di bene nel mondo, è tutta fondata sull’amore del prossimo. Tutto ciò che vi contraddice deriva dall’egoismo dell’uomo. La penetrazione dello spirito cristiano nei rapporti sociali è un ideale altissimo, che deve spingere i cattolici a lavorare e a lottare sul terreno politico-sociale, nazionale e internazionale”.
Sono parole che Adriano Olivetti avrebbe sottoscritto in pieno.
Anche dal seguente profondo pensiero, espresso nella sua principale opera sociologica (La società, sua natura e leggi), si capisce come secondo Sturzo ogni elemento sociale – e quindi anche il capitalismo – per porsi in maniera positiva e costruttiva al servizio dell’uomo, doveva avere un forte contenuto morale, doveva cioè rispettare i valori fondamentali del cristianesimo: “La base della vita individuale e della vita sociale è identica: conoscenza e amore. È impossibile concepire una società senza questo binomio (…). Non può darsi perfezione umana senza la verità, che è l’oggetto della conoscenza, e senza il bene, che è l’oggetto della volontà. Ogni elemento sociale, se non è trasformato in verità e amore, non ha valore”.
Un sistema economico dominato dal conflitto fra capitale e lavoro o sullo sfruttamento del primo sul secondo, non importa se in mano pubblica o privata, non può avere valore e non può quindi creare valore. Pertanto tutto il pensiero economico sturziano si fondava sulla solida base morale del cristianesimo.
È poi interessante il suo ammonimento contro chi desiderava tirare l’acqua al proprio mulino nell’interpretare la dottrina sociale della Chiesa. Il 18 marzo 1939, in un articolo pubblicato sul quotidiano “Il Lavoro” di Lugano dal titolo Quadragesimo anno e Divini Redemptoris, egli scriveva: “Non mi pare esigere troppo che a fianco della giusta critica e autorevole condanna del socialismo marxista e del comunismo ateo, si parlasse anche un po’ del capitalismo anonimo e sfruttatore. Ma, secondo me, mentre è un dovere mettere in guardia gli operai per non correre dietro a teorie pericolose e condannate dalla ragione naturale e dalla morale cristiana, è un più pressante dovere attuare quel che le encicliche sociali dei Papi suggeriscono o comandano per il bene della classe operaia in nome della giustizia e della carità. Se dal lato dei padroni ci fosse un po’ più di giustizia; se dal lato dei governi ci fosse più premura a sviluppare il lato sociale degli organismi professionali e corporativi per migliorare la legislazione assicurativa; a rendere meno acuta la crisi di disoccupazione; a diminuire le spese militari improduttive per migliorare la produzione e i commerci, allora ci sarebbero meno motivi per gli agitatori socialisti e comunisti a eccitare le masse e a monopolizzarne le rivendicazioni. Le due encicliche di Pio XI hanno i due aspetti: critica e costruzione; insegnamenti e pratica; condanne ed esortazioni. Non bisogna pigliare solo quello che ci piace: i padroni prendono la condanna del socialismo e del comunismo; gli operai prendono le proposte pratiche sui salari, il giusto prezzo, le unioni professionali e così via. Solo nell’integrità dottrinale e nell’esecuzione pratica si onorerà la memoria di Pio XI e si creerà tra i cattolici lo spirito e la realtà cristianosociale”.
Il capitalismo pericoloso e il capitalismo virtuoso
È bene ricordare che la Quadragesimo anno del 1931 sottolineava la grande importanza e validità di una proposta-cardine della Rerum novarum di Leone XIII e che il Partito popolare italiano tentò invano nel 1920 di realizzare con una legge sull’azionariato dei lavoratori. L’Enciclica di Pio XI giustamente diceva: “Se quel che più conta – l’intelligenza, il capitale e il lavoro – non si associano, quasi a formare una cosa sola, l’umana attività non può produrre i suoi frutti”.
Alla fine della seconda guerra mondiale l’attuazione di questo principio fondamentale (la stretta alleanza fra capitale e lavoro) veniva considerato da Sturzo come una condizione per la realizzazione di una vera pace a livello mondiale: “Il problema della pace, che deve seguire questa guerra, sarà un problema di organizzazione economica sul piano internazionale o non vi sarà pace. Il capitale e il lavoro dovranno collaborare per trovare una giusta soluzione, abolendo il capitale anonimo e irresponsabile, e dirigendo la produzione e l’occupazione verso grandi lavori di ricostruzione per il benessere generale”.
Negli anni ’50 Sturzo ritornò più volte sul capitalismo pericoloso (quello anonimo, invadente, oppressivo, speculativo) e sul capitalismo virtuoso (quello popolare e partecipativo, funzionante in un sistema di vera democrazia economica, qualità indispensabile per avere un sistema di vera democrazia politica). In piena sintonia con Olivetti, anche Sturzo avrebbe detto che l’impresa privata poteva rivelarsi “fabbrica di bene” solo se inquadrata in un sistema capitalistico popolare e partecipativo, cioè il capitalismo di tutti auspicato da Leone XIII nel lontano 1891 (“tutti proprietari non tutti proletari”). Ma certamente non proprietari del capitalismo di carta oggi rampante in seguito all’invenzione di prodotti finanziari puramente speculativi, che nulla hanno a che fare con il sostegno dell’economia reale.
Concetti poi ripresi e approfonditi da altre encicliche formidabili come la Mater et magistra, la Populorum progressio, la Gaudium et spes, la Centesimus annus, la Caritas in veritate e dalle recenti “esortazioni” di papa Francesco. È un prezioso patrimonio culturale rimasto sulla carta e che ancora attende – da ben 128 anni! – di essere tradotto in pratica…
Altro punto di incontro fra le due “anime gemelle” riguarda il principio di sussidiarietà, “coniugato” da Sturzo con la sua visione municipalista e da Olivetti con la sua visione comunitaria, visioni entrambe finalizzate a difendere l’autonomia creativa, organizzativa e decisionale del singolo Comune (Sturzo) e della singola comunità (Olivetti) contro l’invadenza e l’incompetenza – se non altro per ragioni di “distanza” – dello Stato. Per sua natura questo è incapace di gestire il “particolare” della vita locale che può essere ben conosciuto solo da chi vive vicino alle esigenze e ai problemi dei cittadini. È la democrazia dal basso, che nella visione sturziana e olivettiana va inquadrata in un sistema federale, intelligente gestore del decentramento amministrativo.
Purtroppo l’abilità di Sturzo nel gestire per ben 15 anni il suo comune e l’abilità di Olivetti nel gestire la sua comunità di Ivrea e quelle nascenti di Pozzuoli e Matera non hanno fatto scuola in un Paese dominato dal centralismo invadente e inefficiente dello Stato. Ma possono ancora essere di esempio e di insegnamento per le prossime generazioni chiamate a riparare i guasti dello statalismo e del liberismo selvaggio.
Le buone “medicine” esistono, ci dicono da tempo Luigi Sturzo e Adriano Olivetti. Un nuovo partito di vera e coerente ispirazione cristiana non può farne a meno. L’Italia (e non solo) ne ha un gran bisogno!
(Tratto da www.servirelitalia.it)
Non possiamo restare sordi o indifferenti all’esortazione di Don Sturzo,quando ci invita a “penetrare” con lo spirito cristiano la vita civile e sociale attraverso un rinnovato impegno dei cattolici a lavorare e a lottare sul terreno politico nazionale e internazionale.Tale impegno dei cattolici era per J.Maritain la vera rivoluzione alternativa alla logica materialistica della società e del lavoro proposta da Marx.