La proposta di riforma costituzionale che prevede la riduzione da 630 deputati a 400 e dei senatori da 315 a 200 non ha suscitato grandi commenti. Eppure, la stessa rappresenta un colpo violento alla democrazia e all’ordine costituzionale.
Qualunque opinione si sia avuta, tale riforma non può essere confusa con quella promossa dal Governo Renzi. In quel caso i deputati venivano mantenuti nel numero di 630 e si provvedeva a una profonda revisione di compiti, numero e modalità elettive del Senato, portato a 100 membri eletti in secondo grado da grandi elettori espressione delle autonomie locali.
Va notato che in Europa e in genere nelle democrazie rappresentative, mentre la cosiddetta Camera bassa ha caratteristiche omogenee, la Camera alta (il nostro Senato) ha caratteristiche specifiche e proprie di ciascun ordinamento con importanti differenziazioni in termini di funzioni.
Per comprendere l’importanza del tema ai fini della rappresentanza, occorre ricordare che solo la legge costituzionale n. 2 del 1963 introdusse un numero fisso di deputati e senatori. Nella precedente formulazione, approvata dall’Assemblea Costituente, il numero dei parlamentari era determinato in rapporto con la popolazione: per la Camera, un deputato ogni 80.000 abitanti (o frazioni superiori a 40.000); per il Senato, un senatore ogni 200.000 abitanti (o frazioni superiori a 100.000). Il Costituente esprimeva un’idea molto concreta di rappresentanza, e cioè il collegamento fra l’eletto e un numero di abitanti compatibile con le esigenze di relazione e comunicazione. Il legislatore del 1963 con buon senso puntò a definire un numero certo, evitando una indeterminatezza del numero di membri di così importanti assemblee elettive. Non poteva certo immaginare che oltre 50 anni dopo, un legislatore più superficiale ritesse disponibile il “numero” e dimenticasse le logiche e i limiti che i Padri costituenti ritennero di fissare al fine di rendere più densa la rappresentanza democratica.
La nuova proposta di legge costituzionale dispone, per ciascuno dei due rami del Parlamento, una riduzione pari – in termini percentuali – al 36,5 per cento degli attuali componenti elettivi. A seguito della modifica costituzionale muta dunque il numero medio di abitanti per ciascun parlamentare eletto. Per la Camera dei deputati tale rapporto aumenta da 96.006 a 151.210. Il numero medio di abitanti per ciascun senatore cresce, a sua volta, da 188.424 a 302.420 (assumendo il dato della popolazione quale reso da Eurostat).
Oggi l’Italia esprime all’incirca (e con arrotondamenti) 1 deputato ogni 100.000 abitanti, la Francia 0,9, la Germania 0,9, il Regno Unito 1,0 e la Spagna 0,8. Con la riforma l’Italia si posiziona a quota 0,7. La più bassa rappresentatività in Europa su tutti i Paesi membri.
La riduzione del numero di parlamentari con l’attuale legge elettorale implica tra l’altro una forte spinta maggioritaria che in alcune situazioni del Senato, alla luce di un’elezione su base regionale, giunge a promuovere l’affermazione del partito unico. Quindi il calo di rappresentatività si accompagna alla forte riduzione del pluralismo.
Se il correttivo fosse l’aumento del territorio dei collegi si arriverebbe a grandezze la cui copertura richiederebbe ingenti risorse economiche, comunque superiori alle attuali, con una agibilità elettorale riservata solo ai portatori di interessi forti che imporrebbero una spinta neo-corporativa o lobbistica all’ordine costituzionale. E qui per inciso occorre notare che la distanza fra il cittadino e l’Europa ha anche una causa in un meccanismo elettorale che rende abissale la distanza fra eletto ed elettore.
Ciò che preoccupa di più, tuttavia, sono le motivazioni della riforma. E non tanto il perseguimento di una riduzione dei costi della politica che può vedere tutti concordi, quanto la realizzazione di tale obiettivo solo a scapito degli organismi di rappresentanza, senza una riforma organica degli organi costituzionali e senza una proposta di riforma elettorale.
L’obiettivo economico della riforma (davvero modesto: si dice 500 milioni a legislatura) avrebbe ben potuto realizzarsi con una serie più bilanciata di interventi che avrebbero potuto riguardare in misura più limitata la riduzione del numero dei parlamentari e in misura più sostenuta il complesso dei privilegi che nel tempo hanno definito la posizione dei parlamentari più come una élite che come una parte del demos. Fra questi privilegi, definiamoli indiretti, anche i costi di funzionamento delle Camere, dove i membri rischiano di perdere il carattere di “rappresentanti” per assumere quello di “funzionari” peraltro spesso assenti e inefficienti.
Si è, invece, preferito attaccare direttamente gli organi costituzionali più centrali del nostro ordinamento, con una sorta di intimidazione che asseconda il livore dell’opinione pubblica. Il disagio sociale, purtroppo esistente e persistente, viene così scaricato direttamente contro gli organi elettivi, aprendo la strada a una sorta di autocrazia plebiscitaria e autoreferenziale.
In sintesi, si sarebbe potuto rilanciare una discussione sul modello di democrazia, cercando di rafforzarne il valore morale e l’effettività pratica. Si è, invece, preferito il gioco dei numeri, cui chiamare l’opinione pubblica, con il rischio che il popolo insegua il flauto magico che passo dopo passo lo porti alla perdita, prima della dignità, e poi della libertà.
Qualunque opinione si sia avuta, tale riforma non può essere confusa con quella promossa dal Governo Renzi. In quel caso i deputati venivano mantenuti nel numero di 630 e si provvedeva a una profonda revisione di compiti, numero e modalità elettive del Senato, portato a 100 membri eletti in secondo grado da grandi elettori espressione delle autonomie locali.
Va notato che in Europa e in genere nelle democrazie rappresentative, mentre la cosiddetta Camera bassa ha caratteristiche omogenee, la Camera alta (il nostro Senato) ha caratteristiche specifiche e proprie di ciascun ordinamento con importanti differenziazioni in termini di funzioni.
Per comprendere l’importanza del tema ai fini della rappresentanza, occorre ricordare che solo la legge costituzionale n. 2 del 1963 introdusse un numero fisso di deputati e senatori. Nella precedente formulazione, approvata dall’Assemblea Costituente, il numero dei parlamentari era determinato in rapporto con la popolazione: per la Camera, un deputato ogni 80.000 abitanti (o frazioni superiori a 40.000); per il Senato, un senatore ogni 200.000 abitanti (o frazioni superiori a 100.000). Il Costituente esprimeva un’idea molto concreta di rappresentanza, e cioè il collegamento fra l’eletto e un numero di abitanti compatibile con le esigenze di relazione e comunicazione. Il legislatore del 1963 con buon senso puntò a definire un numero certo, evitando una indeterminatezza del numero di membri di così importanti assemblee elettive. Non poteva certo immaginare che oltre 50 anni dopo, un legislatore più superficiale ritesse disponibile il “numero” e dimenticasse le logiche e i limiti che i Padri costituenti ritennero di fissare al fine di rendere più densa la rappresentanza democratica.
La nuova proposta di legge costituzionale dispone, per ciascuno dei due rami del Parlamento, una riduzione pari – in termini percentuali – al 36,5 per cento degli attuali componenti elettivi. A seguito della modifica costituzionale muta dunque il numero medio di abitanti per ciascun parlamentare eletto. Per la Camera dei deputati tale rapporto aumenta da 96.006 a 151.210. Il numero medio di abitanti per ciascun senatore cresce, a sua volta, da 188.424 a 302.420 (assumendo il dato della popolazione quale reso da Eurostat).
Oggi l’Italia esprime all’incirca (e con arrotondamenti) 1 deputato ogni 100.000 abitanti, la Francia 0,9, la Germania 0,9, il Regno Unito 1,0 e la Spagna 0,8. Con la riforma l’Italia si posiziona a quota 0,7. La più bassa rappresentatività in Europa su tutti i Paesi membri.
La riduzione del numero di parlamentari con l’attuale legge elettorale implica tra l’altro una forte spinta maggioritaria che in alcune situazioni del Senato, alla luce di un’elezione su base regionale, giunge a promuovere l’affermazione del partito unico. Quindi il calo di rappresentatività si accompagna alla forte riduzione del pluralismo.
Se il correttivo fosse l’aumento del territorio dei collegi si arriverebbe a grandezze la cui copertura richiederebbe ingenti risorse economiche, comunque superiori alle attuali, con una agibilità elettorale riservata solo ai portatori di interessi forti che imporrebbero una spinta neo-corporativa o lobbistica all’ordine costituzionale. E qui per inciso occorre notare che la distanza fra il cittadino e l’Europa ha anche una causa in un meccanismo elettorale che rende abissale la distanza fra eletto ed elettore.
Ciò che preoccupa di più, tuttavia, sono le motivazioni della riforma. E non tanto il perseguimento di una riduzione dei costi della politica che può vedere tutti concordi, quanto la realizzazione di tale obiettivo solo a scapito degli organismi di rappresentanza, senza una riforma organica degli organi costituzionali e senza una proposta di riforma elettorale.
L’obiettivo economico della riforma (davvero modesto: si dice 500 milioni a legislatura) avrebbe ben potuto realizzarsi con una serie più bilanciata di interventi che avrebbero potuto riguardare in misura più limitata la riduzione del numero dei parlamentari e in misura più sostenuta il complesso dei privilegi che nel tempo hanno definito la posizione dei parlamentari più come una élite che come una parte del demos. Fra questi privilegi, definiamoli indiretti, anche i costi di funzionamento delle Camere, dove i membri rischiano di perdere il carattere di “rappresentanti” per assumere quello di “funzionari” peraltro spesso assenti e inefficienti.
Si è, invece, preferito attaccare direttamente gli organi costituzionali più centrali del nostro ordinamento, con una sorta di intimidazione che asseconda il livore dell’opinione pubblica. Il disagio sociale, purtroppo esistente e persistente, viene così scaricato direttamente contro gli organi elettivi, aprendo la strada a una sorta di autocrazia plebiscitaria e autoreferenziale.
In sintesi, si sarebbe potuto rilanciare una discussione sul modello di democrazia, cercando di rafforzarne il valore morale e l’effettività pratica. Si è, invece, preferito il gioco dei numeri, cui chiamare l’opinione pubblica, con il rischio che il popolo insegua il flauto magico che passo dopo passo lo porti alla perdita, prima della dignità, e poi della libertà.
Mi sembra un buon contributo all’argomento. Non dimentichiamo che ogni Paese ha le sue particolarità, non si può dire “là fanno così” e l’Italia in modo particolare ha moltissime sue caratteristiche uniche.