La gioventù che emigra



Flavia Perina    2 Agosto 2019       0

È estate e in casa ci sono sempre amici dei figli di passaggio, arrivano prima di andare al mare, o la sera al ritorno, salgono un attimo o aspettano giù. Sono ex-romani a Roma per le vacanze, una categoria nuova e stupefacente. Giulia parla tre lingue e lavora con la cooperazione in Africa, ha acquisito una notevole esperienza, aspira a un ruolo in un organismo internazionale come il suo amico Claudio. Federico fa il maestro di nuoto a Berlino da due anni: aveva lavoro anche qui in Italia, al Nord, ma lì lo pagano meglio e lo portano in palmo di mano, quando è arrivato “der Italienische trainer” hanno fatto persino un articolo sul giornale di quartiere. Carla e Fabiana vivono ancora a Roma ma a settembre si sposteranno a Tel Aviv, Israele: giocano a pallavolo, hanno offerto loro un ottimo contratto con vitto e alloggio come benefit (qui avevano solo un modesto rimborso spese). E poi Gino, ricercatore a Londra da due anni. Francesco, tecnico delle luci in Svezia (a teatro, mi sembra di aver capito, ma anche per eventi di piazza). Carola, laureata in Medicina, con un incarico all’Università di Tirana. Di tutto il loro giro ne sono rimasti solo un paio in Italia, Rossella che fa l’ingegnere e ha vinto un bando di ricerca a Perugia, e Carola, troppo legata al fidanzato per spostarsi anche se qui non ha lavoro.

Basta un qualunque, modesto, punto di vista individuale per capire che cosa significano i dati statistici confermati ieri dallo Svimez sull’emigrazione di massa degli italiani giovani e meno giovani. Il rapporto dell’associazione parla del Sud, che è la punta di diamante del fenomeno: in quindici anni, tra il 2002 e il 2017, se ne sono andati oltre due milioni di cittadini. Solo nel 2017 sono stati 132mila di cui la metà giovani e un terzo laureati.

Sì, c’è qualcuno che rientra. Ci sono anche i nuovi residenti immigrati. Ma il saldo negativo tra partenze e arrivi resta impressionante: meno 70mila in un anno. Lo Svimez è un ente di studi economici e quindi collega il fenomeno alla decadenza del tessuto produttivo meridionale, sempre più povero di opportunità. E tuttavia sappiamo da altre fonti, oltreché dalla personale esperienza di ciascuno di noi, che l’emigrazione è attivissima anche al Centro e al Nord, dove in teoria i posti di lavoro ci sono. Gli ultimi dati dell’AIRE tracciano una classifica rivelatrice: la prima regione per espatriati è la Lombardia, la seconda l’Emilia Romagna, la terza il Veneto. Seguono Sicilia e Puglia, in un’interessante inversione di tendenza rispetto alla secolare storia dell’emigrazione italiana.

Solo qualche anni fa la politica guardava con sufficienza al fenomeno, collegandolo alle esperienze obbligatorie della fatidica “Generazione Erasmus”: insomma, il lavoro all’estero come un intermezzo sabbatico, status symbol di ceti privilegiati che potevano permettersi un po’ di vagabondaggio per arricchire i curriculum in attesa delle sistemazioni definitive nello studio notarile di papà o nell’impresa di zio. Ora che persino la costiera romagnola fatica a trovare bagnini e camerieri, lo stereotipo comincia a cadere. I laureati che se ne vanno sono una minoranza, e la loro fuga è persino meno preoccupante di quella dei tecnici, degli operai specializzati, della manodopera qualificata in ogni settore.

La velocità con cui il fenomeno si estende ci parla di qualcosa di epidemico, molto simile al meccanismo che agli inizi del Novecento vide la curva della “grande fuga” salire di centomila unità ogni dieci anni, fino ad arrivare al milione di emigrati tra il ’21 e il ’30. Parte qualcuno, si sistema bene, informa gli amici, i parenti, che a loro volta fanno le valigie e tentano la sorte allargando a macchia d’olio la cerchia degli interessati. I Paesi europei più furbi si danno da fare da tempo per intercettare questi flussi. Non sono una leggenda i benefit offerti ai nostri infermieri in Gran Bretagna – alloggio, corsi di lingua, festivi pagati fino a 50 sterline l’ora – oppure in Germania, dove non solo ti assumono full time a tempo indeterminato ma ti danno pure un tutor per aprire il conto corrente e registrarti all’anagrafe.

Dovremmo aver presente questi trattamenti ogni volta che sentiamo le lamentele della nostra impresa sulla difficoltà di trovare un carpentiere o un saldatore. Pensavamo di aver fatto una genialata rendendo il lavoro sempre più liquido, precario, spogliandolo delle garanzie accessorie e confidando nello stato di necessità – “Meglio poco che niente” – del cittadino medio. Ma nell’era dell’economia liquida e senza frontiere la concorrenza non riguarda solo le merci, i brevetti o la capacità di produzione, ma soprattutto gli uomini e l’accaparramento delle migliori energie, fossero pure quelle di un bravo magazziniere. Così eccoci qui, a salutare gli amici dei nostri figli che fanno le vacanze in Italia da “stranieri” e ascoltando i loro racconti, i loro progetti per un futuro che sarà vissuto altrove, con stupore e con preoccupazione: oltre ogni ragionamento di tipo economico, non è facile accettare l’idea di un’Italia ridotta a Paese di vecchi.

(Tratto da www.linkiesta.it)


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