Il giorno del sorpasso (visto da casa nostra)



Giuseppe Ladetto    30 Luglio 2019       0

Con un anticipo di tre giorni rispetto al 2018, oggi 29 luglio 2019, mentre scrivo, è caduto l'overshoot day, il giorno in cui tutte le risorse rinnovabili del pianeta producibili nel corso dell'anno sono state consumate, e tutta la capacità di metabolizzazione annuale delle scorie (a partire dalla CO2) sono esaurite. I giornali ne parlano, come da tempo capita in tale ricorrenza, ma qualche cosa è cambiato rispetto agli anni passati quando l'accadimento era trattato superficialmente quasi fosse una curiosità come tanti eventi sui quali fare un po' di colore. Oggi, sembra esserci una sincera preoccupazione perché le modificazioni climatiche, con i seri guasti che stanno creando, sono sotto gli occhi di tutti: sta maturando una qual certa consapevolezza del disastro verso cui siamo incamminati se non ci sarà una drastica svolta del modo di produrre e di vivere.

Voglio, tuttavia, soffermarmi su un aspetto a cui non si dà altrettanta rilevanza.

La data odierna riguardo il sorpasso con riferimento al mondo intero, ma se consideriamo i vari Paesi in cui è suddivisa la terra, la situazione è molto diversa. Possiamo farcene un'idea a partire dai valori dell'impronta ecologica e della superficie bioproduttiva disponibile, di cui si è detto qui in un precedente articolo dello scorso anno (Territorio, risorse e carico demografico).

Se infatti consideriamo i Paesi europei o meglio quelli aderenti alla UE, vediamo che tale negativo traguardo è stato già raggiunto nei primi giorni di maggio. È un dato che rappresenta con evidenza la fotografia di territori contrassegnati da un marcato squilibrio a causa del rilevante carico demografico (malgrado la patologica denatalità) e dell'elevato livello dei consumi della popolazione. Importiamo materie prime, combustibili fossili, derrate alimentari e trasferiamo fuori dei nostri confini cataboliti (a partire dalla CO2 non riassorbita dal territorio europeo e dai suoi mari) e i rifiuti.

È di questi giorni la chiusura dei Paesi del sud-est asiatico alle navi cariche di spazzatura occidentale, mentre in materia continuano i traffici più o meno leciti verso i Paesi africani. Per essere in equilibrio con il proprio territorio mantenendo l'attuale livello di vita e di consumi, i Paesi dell'UE dovrebbero disporre di una superficie quasi 3 volte (2,8) quella reale. Certo, si tratta di una rappresentazione statica riferita all'oggi e alle tecnologie attualmente disponibili perché, viene detto, il quadro potrebbe mutare con l'introduzione di tecnologie più avanzate. Mi permetto di dire che lo squilibrio è troppo rilevante perché, in un arco di tempo ragionevole, nuove tecnologie possano modificarlo radicalmente. Infatti questo squilibrio è il risultato del ruolo dominante (politico ed economico) che per alcuni secoli i Paesi occidentali hanno esercitato nei confronti del resto del mondo sottraendo ad esso risorse.

Comunque sento già le obiezioni. Non ha senso nella società globale fare riferimento al territorio dei vari Paesi; l'economia è globale, le merci, i capitali e gli esseri umani circolano. L'autarchia è cosa del passato.
Attenzione però. Una cosa è riconoscere l'esigenza di una certa circolazione di merci: infatti un significativo grado di specializzazione internazionale nella produzione dei beni è necessario: riguarda, come diceva John Maynard Keynes, tutti quei casi in cui è dettato da grandi differenze di clima, di risorse naturali, di attitudini innate, di grado di civiltà e di densità di popolazione. Altra cosa è prescindere totalmente dalle risorse del territorio per far fronte alle esigenze di chi vi risiede, essendo pericoloso dipendere per le necessità vitali della popolazione (cibo ed energia in primo luogo) dalle sole importazioni. Ne ho già parlato nell’articolo precedentemente citato. In materia, ricordo che, di fronte a possibili gravi crisi (guerre, terrorismo, sanzioni, blocchi, sabotaggi informatici di grandi infrastrutture, ecc.), possono venir meno gli apporti esterni di beni e risorse vitali con conseguenze drammatiche. In secondo luogo, il primato tecnologico che consente oggi ai Paesi “avanzati” di vivere scambiando prodotti e servizi contro materie prime non è un fenomeno di cui sia garantita la continuità nel tempo.

Ora, se è evidente che per i Paesi europei ristabilire un equilibrio con il proprio territorio sarebbe un'impresa difficile e lunga, non dobbiamo tuttavia nasconderci che stiano progressivamente ridimensionandosi le condizioni che hanno consentito agli europei di vivere ben al di sopra di quanto consentono le risorse del proprio habitat. Occorre pertanto riportare il territorio alla nostra attenzione di europei, un'attenzione che da molto tempo è andata persa.

Chi vive su un territorio e dipende dalle sue risorse dovrebbe essere naturalmente portato a rispettarlo perché sa che questo è il suo capitale dai cui frutti dipende la propria vita e quella dei familiari. Questo è stato l'atteggiamento che, per secoli, ha informato l'esistenza della più parte degli esseri umani.

All'alba della storia dell'Homo sapiens, i cacciatori-raccoglitori (come fino a ieri, gli indios amazzonici), con l'instaurazione di culti totemici e di luoghi sacri (in genere boschi), cercavano di porre un freno a prelievi eccessivi di risorse nel pur vasto territorio che percorrevano; inoltre praticavano anche un qual certo controllo della natalità per non rompere l'equilibrio faticosamente realizzato col proprio habitat. Nei secoli successivi, con la nascita dell'agricoltura, la maggior parte della popolazione risiedeva nella campagna, e al contadino era connaturato questo rispetto per il luogo in cui viveva e per quel sistema agricolo che forniva i mezzi per sopravvivere a sé ed alla sua famiglia. Era un sentimento che coinvolgeva le generazioni che si succedevano sul territorio. Quando frequentavo le elementari, ci venivano proposti molti proverbi riferiti al mondo agricolo. Uno di questi diceva che il contadino non pianta gli ulivi per sé, ma per i propri figli e nipoti. Lui raccoglie le olive dagli alberi che avevano piantato gli antenati. Questo detto va ben oltre il contesto agricolo perché ci fa comprendere che, in una società o una comunità vitale, ogni generazione beneficia del lascito di chi l’ha preceduta e deve sentirsi obbligata a provvedere per chi ad essa succederà.

Con lo sviluppo del commercio su larga scala, con la circolazione delle merci e con la priorità assegnata alla ricerca del profitto, si è indebolito progressivamente questo rapporto positivo tra esseri umani e ambiente circostante. Oggi, con la globalizzazione, la maggior parte delle persone non comprende nemmeno più questa necessità. Infatti, quando (come in Italia) viene importata gran parte degli alimenti (cereali in primis che stanno alla base dell'alimentazione umana e degli animali in produzione zootecnica), perché la gente dovrebbe preoccuparsi della continua cementificazione dei terreni agricoli? Anzi c'è chi sostiene che le attività agricole vadano lasciate ai Paesi del Sud del mondo, mentre le attività economiche devono concentrarsi sulle alte tecnologie e sui servizi.

Un altro fattore inoltre contribuisce alla disattenzione verso il territorio. Chi è disposto a lasciare la terra in cui è nato in cerca di luoghi che gli offrano maggiori opportunità facilmente è portato a disinteressarsi della terra natale, ed anche dove andrà eventualmente a stabilirsi difficilmente comprenderà il legame che esiste (o dovrebbe esistere) tra il territorio, la sua storia (anche relativa alle tecniche produttive sviluppatesi in armonia con le sue caratteristiche) e chi lo abita.
Nessuno intende fare processi alle persone e alle loro scelte di vita perché tali comportamenti sono il risultato del modello di produzione e di vita imposto dalla globalizzazione. Il primato assoluto assegnato al mercato e alle logiche che lo presiedono richiede che i capitali vengano investiti dove si realizzano i profitti maggiori. Così capita che accanto a territori in pieno sviluppo ve ne siano altri in piena crisi oppure abbandonati. I lavoratori, i tecnici ed i professionisti devono adeguarsi a questa logica e spostarsi dove lo sviluppo li richiede. In tal modo, l'esodo delle persone più istruite, qualificate professionalmente o semplicemente più dinamiche, accresce ulteriormente gli squilibri territoriali, indebolisce legami sociali e familiari, e contribuisce a distruggere culture, tradizioni e modi di vita.

La maggiore ricchezza delle aree in espansione ha inoltre una elevata forza di attrazione che richiama comunque persone anche quando non vengono loro garantiti occupazione e condizioni vita decenti o comunque migliori di quelle donde sono giunti. È il caso delle enormi concentrazioni urbane presenti in particolare in Asia, America latina e Africa, caratterizzate da degrado sociale e ambientale, criminalità e perdita di ogni legame comunitario. In questo contesto è inevitabile che venga meno l'attenzione verso il territorio.

Eppure non mancano quanti giustificano tutto ciò e lo teorizzano fino all'estremo di prospettare la futura migrazione della specie umana dal pianeta, ormai esaurito e comunque insufficiente ai suoi bisogni, verso nuovi mondi per colonizzare il cosmo. Sono irresponsabili fughe in avanti grazie alle quali si evita di guardare alla realtà.

Ora, di fronte alla crisi climatica già in atto, è tempo di muoversi. I cambiamenti climatici, viene detto, debbono essere contrastati a livello planetario. È vero, ma ciò non significa che non si debba cominciare da subito ad affrontare gli squilibri presenti in ciascun Paese senza attendere un accordo che coinvolga tutte le nazioni. I cambiamenti sono già in corso con pesanti ricadute sulla vita della gente e sui mezzi di sussistenza di molti Paesi (fra cui il nostro), a partire dall'agricoltura. Teniamo presente che le condizioni favorevoli che hanno consentito ai Paesi europei elevati standard di vita sono in progressiva caduta. Bisogna riportare l'attenzione al territorio cercando di mettere a punto strategie per limitare i danni e per adattarsi alle nuove condizioni negative.

Tutelare la Terra e i territori in cui è suddivisa significa salvaguardare gli esseri umani e quel Creato di cui ci siamo completamente dimenticati, e del quale dovremmo essere custodi e non padroni.


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