Altro che sostituzione etnica. Nemmeno gli stranieri fanno più figli: il rapporto annuale dell’Istat battezza la nuova fase “recessione demografica”, dedicandogli un lungo e preoccupato capitolo. A differenza della crisi economica questo tipo di arretramento non svuota ancora le nostre tasche ma lo farà a breve: quando non ci sarà più abbastanza gente per pagare le nostre pensioni ma anche per comprare le case che mettiamo in vendita, le merci che distribuiamo, le verdure e la frutta che coltiviamo, i servizi che offriamo. Quando i 140mila bambini “persi” quest’anno rispetto ad appena dieci anni fa – un quinto del totale dei nati – non si iscriveranno a scuola, non vorranno il motorino, non compreranno abiti o libri.
Fa rabbia questa recessione demografica perché è un problema arcinoto, denunciato da tutti da moltissimo tempo, oggetto di ripetuti interventi legislativi in tutte le direzioni tranne quella che ha funzionato nel resto d’Europa: seri incentivi all’occupazione femminile e investimenti nei servizi per le donne lavoratrici. Dal 2015 a oggi abbiamo avuto il Bonus Bebè, il premio alla nascita, il premio all’adozione, il buono per le rette dell’asilo nido, il buono per l’assistenza ai figli con patologie croniche, la Carta Famiglia e di recente persino l’offerta di terre (incolte) a quelli/e che arrivavano fino al terzo figlio. Nulla ha cambiato di una virgola le cose. La curva demografica ha proseguito nel suo precipizio. E tuttavia la politica – di sinistra, di destra o di centro – ha continuato ostinatamente a perseguire la via delle regalie occasionali rifiutandosi di ammettere quel che altrove hanno capito da un pezzo: i figli li fanno le donne e nessuna donna è incline a fare un figlio senza uno straccio di sicurezza lavorativa, senza un minimo di certezza di potersi pagare le bollette anche da sola.
Ma c’è di peggio. Lo spirito del tempo, da noi, sembra addirittura rovesciare la connessione tra reddito femminile e natalità. Da anni serpeggia l’idea che la realizzazione del desiderio di maternità sia collegata all’affermazione di schemi famigliari antichi – la donna a casa, l’uomo in ufficio – e che una visione, per così dire, “tradizionale” delle relazioni possa riportarci le belle famiglie di una volta, quelle con tre o più figli, uccise dal progresso. Il recupero di questo modello, in realtà, è già largamente realizzato grazie alla crisi - metà delle italiane non lavora, al Sud il 70 per cento – e se questi alfieri dell’antimoderno avessero ragione le case dovrebbero essere piene di bambini. Chissà se gli è mai capitato di ragionarci sopra e chiedersi: e se avessimo sbagliato tutto?
I nuovi dati Istat sono assai taglienti. Il 45 per cento delle donne tra i 18 anni e i 45 non ha mai avuto un figlio, ma solo il 5 per cento dichiara di non volerne perché “non rientrano nel suo progetto di vita”. Il desiderio insomma c’è, manca la possibilità, forse il coraggio. D’altra parte come pensare a un bambino quando più della metà dei 20-35enni, cinque milioni e mezzo di persone, vive ancora in casa coi genitori, nubile o celibe che sia? Pure gli immigrati hanno tirato i remi in barca visto che per la prima volta dopo molto tempo i figli di stranieri sono scesi sotto quota 100mila. Molti ne saranno soddisfatti: Italia agli italiani, eccetera. E tuttavia sappiamo bene che tanti posti di lavoro – a cominciare da quelli nella scuola - esistono ancora, non sono stati tagliati, proprio per quei ragazzini di seconda generazione. Brindare al loro declino non pare molto furbo.
Oltre i numeri e i ragionamenti di carattere economico dovrebbe comunque atterrirci la prospettiva di un Paese vuoto, popolato solo da vecchi. Già oggi lungo tutto l’Appennino, nelle aree interne del Sud, nelle Isole, si moltiplicano i paesi fantasma, posti con poche decine di abitanti dove non c’è più niente, né ufficio postale, né banca, talvolta nemmeno un bar, e se l’idea di rianimarli è utopistica dovremmo coltivare almeno quella di fermare la desertificazione prima che si prenda pure centri più grossi. Provarci, almeno. Copiando un po’ dall’Europa invece di fare di testa nostra con irriducibile ostinazione e ammettendo che le loro ricette hanno funzionato, le nostre no.
(Tratto da www.linkiesta.it)
Fa rabbia questa recessione demografica perché è un problema arcinoto, denunciato da tutti da moltissimo tempo, oggetto di ripetuti interventi legislativi in tutte le direzioni tranne quella che ha funzionato nel resto d’Europa: seri incentivi all’occupazione femminile e investimenti nei servizi per le donne lavoratrici. Dal 2015 a oggi abbiamo avuto il Bonus Bebè, il premio alla nascita, il premio all’adozione, il buono per le rette dell’asilo nido, il buono per l’assistenza ai figli con patologie croniche, la Carta Famiglia e di recente persino l’offerta di terre (incolte) a quelli/e che arrivavano fino al terzo figlio. Nulla ha cambiato di una virgola le cose. La curva demografica ha proseguito nel suo precipizio. E tuttavia la politica – di sinistra, di destra o di centro – ha continuato ostinatamente a perseguire la via delle regalie occasionali rifiutandosi di ammettere quel che altrove hanno capito da un pezzo: i figli li fanno le donne e nessuna donna è incline a fare un figlio senza uno straccio di sicurezza lavorativa, senza un minimo di certezza di potersi pagare le bollette anche da sola.
Ma c’è di peggio. Lo spirito del tempo, da noi, sembra addirittura rovesciare la connessione tra reddito femminile e natalità. Da anni serpeggia l’idea che la realizzazione del desiderio di maternità sia collegata all’affermazione di schemi famigliari antichi – la donna a casa, l’uomo in ufficio – e che una visione, per così dire, “tradizionale” delle relazioni possa riportarci le belle famiglie di una volta, quelle con tre o più figli, uccise dal progresso. Il recupero di questo modello, in realtà, è già largamente realizzato grazie alla crisi - metà delle italiane non lavora, al Sud il 70 per cento – e se questi alfieri dell’antimoderno avessero ragione le case dovrebbero essere piene di bambini. Chissà se gli è mai capitato di ragionarci sopra e chiedersi: e se avessimo sbagliato tutto?
I nuovi dati Istat sono assai taglienti. Il 45 per cento delle donne tra i 18 anni e i 45 non ha mai avuto un figlio, ma solo il 5 per cento dichiara di non volerne perché “non rientrano nel suo progetto di vita”. Il desiderio insomma c’è, manca la possibilità, forse il coraggio. D’altra parte come pensare a un bambino quando più della metà dei 20-35enni, cinque milioni e mezzo di persone, vive ancora in casa coi genitori, nubile o celibe che sia? Pure gli immigrati hanno tirato i remi in barca visto che per la prima volta dopo molto tempo i figli di stranieri sono scesi sotto quota 100mila. Molti ne saranno soddisfatti: Italia agli italiani, eccetera. E tuttavia sappiamo bene che tanti posti di lavoro – a cominciare da quelli nella scuola - esistono ancora, non sono stati tagliati, proprio per quei ragazzini di seconda generazione. Brindare al loro declino non pare molto furbo.
Oltre i numeri e i ragionamenti di carattere economico dovrebbe comunque atterrirci la prospettiva di un Paese vuoto, popolato solo da vecchi. Già oggi lungo tutto l’Appennino, nelle aree interne del Sud, nelle Isole, si moltiplicano i paesi fantasma, posti con poche decine di abitanti dove non c’è più niente, né ufficio postale, né banca, talvolta nemmeno un bar, e se l’idea di rianimarli è utopistica dovremmo coltivare almeno quella di fermare la desertificazione prima che si prenda pure centri più grossi. Provarci, almeno. Copiando un po’ dall’Europa invece di fare di testa nostra con irriducibile ostinazione e ammettendo che le loro ricette hanno funzionato, le nostre no.
(Tratto da www.linkiesta.it)
Può essere utile tenere presenti alcuni dati numerici inerenti all’argomento trattato da Flavia Perina. Per garantire la stabilità demografica di uno stato, occorre una fecondità femminile di 2,1 figli per donna. Nessun paese europeo raggiunge questa soglia (compresa la Francia, la prima in classifica sul piano demografico). In Italia, la fecondità femminile è di 1,3. Si trovano allineati all’Italia (con 1,3) Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro e Polonia. Si dirà che sono paesi con problemi di natura analoga a quelli italiani. Probabilmente sì, ma non conosco le loro politiche (se ci sono) a favore della natalità. Vedo invece che Germania, Austria, Svizzera, e Lussemburgo, paesi in cui l’occupazione è elevata (compresa quella femminile) e le politiche sociali sono considerate positive, ciò malgrado, hanno un indice di fecondità femminile di 1,5, poco migliore del nostro ed ancora molto lontano dalla soglia del 2,1 che garantisce la stabilità. Se poi considero che il record negativo planetario in materia (con 1,2) è di Singapore, Taiwan e Corea del Sud, paesi dall’economia dinamica e con bassi indici di disoccupazione, debbo derivarne che i fattori alla base della denatalità sono molteplici e non sono solo quelli indicati da Perina, sicché i rimedi da lei proposti, pur auspicabili, restano tuttavia insufficienti.
Fra i molteplici fattori in gioco, forse bisognerebbe cominciare a riconoscere il peso negativo di molti aspetti della modernità: il vivere nella sola dimensione del presente senza attese e progetti; l’aspirazione ad una eterna giovinezza per cui non è mai il tempo della maturità e della responsabilità (vedi la diffusa abitudine di definire “ragazzi” o “ragazze” persone di 30 anni ed oltre); la cultura dei “diritti” svincolata da ogni riferimento ai “doveri”; l’individualismo estremo che diventa sempre più egoismo, edonismo e rifiuto degli impegni (a partire da quelli richiesti per metter su famiglia). Ma questo è un discorso politicamente scorretto e, pertanto, non degno di considerazione da parte della dominante cultura liberale.
L’analisi di Flavia Perina su “La recessione demografica” aggiunta al commento di Giuseppe Ladetto, meritano qualche ulteriore considerazione; dettagli, forse, si dirà, e tali potranno sembrare perchè non ancora acquisiti nel coacervo del problema del quale ci stiamo lamentando.
La Perina premette che se si va avanti così si va indietro; senza rinforzi demografici tutto salta. Fin qui la denuncia e sta bene. Poi l’autrice contrappone due tipi di rimedio, il primo, italiano, ma sbagliato, coi vari tentativi di “regalie”, e, invece il vero rimedio che sarebbe un lavoro certo per le donne. Come a dire: le donne non figliano perchè se non c’è lavoro chi sostiene i costi? Dico solo sottovoce: ai tempi, e si era più poveri, la voglia di fare figli c’era, quella se ne è andata e si presenta lo scenario economico, sicuramente vero, ma è in molta parte il pretesto per una non scelta che ha altre motivazioni. Ma ci arrivo. Segue, nel pezzo della Perina, un’ulteriore “paura” per quello che succederebbe se l’andazzo di oggi proseguisse, e siamo d’accordo ma una denuncia in più serve ma a poco. Dell’articolo della Perina raccolgo una riflessione che contiene una certa ambiguità; si dà conto di come molte donne (dai 18 ai 45 anni) non hanno mai avuto un figlio, ma tra queste ci sono quelle che dichiarano di non volerne di figli perchè quello “non rientra nel progetto di vita”. Ecco l’ambiguità. Quelle rilevazioni fanno piazza pulita della celebrata questione economica. E questi concetti li ritroviamo paro paro nel commento di Giuseppe Ladetto quando sostiene che la fecondità femminile si è abbassata forte a prescindere dalle condizioni del lavoro per la donna com’è in Germania, Austria, Svizzera, ecc.
Lascio cadere il sillogismo (causa effetto) della Perina per quando dice: “come si fa ad avere figli se a 20/35 anni si sta ancora in casa dei genitori?”
Allora, se quello economico non è l’indiscusso aspetto (ma uno tra i tanti) per il quale non si fanno figli, dove sta la causa?
La metto così, ma la unisco alla meraviglia del come mai quello che dirò non appare, o pochissimo, nelle tesi di chi studia il fenomeno. E’ troppo banale affermare che ogni donna, per natura, sia carica, sovraccarica, del bisogno inalienabile di trasmettere affetto, di madre quando si è, oppure verso qualcosa che surroghi l’aspetto materno, nobile e principale quando c’è e, diciamolo chiaro, il ricorso a un soggetto verso il quale riversare il grande affetto inibito dalla non maternità, su un animale, il cane sostanzialmente, in luogo dei figli che non ci saranno mai. So che il mio discorso è caduto in verticale, ma non è non parlandone che si arricchisce il ragionamento su un fenomeno sociale gravissimo.
L’esagerata diffusione del cane di compagnia risponde, ahimè, a quel minor impegno economico e della cura di un figlio e consente a una infinità di ragazze (prego di ascoltare certi dialoghi col cane) di riversare quel monte di affetto/amore sottraendolo a un figlio, grande risorsa per una società che sta illanguidendosi.