Il declino delle classi politiche



Domenico Accorinti    24 Giugno 2019       0

Ritengo che, se partissimo dalla citazione di Giuseppe Mila della Costituzione statunitense: Ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”; e dall’affermazione di Giuseppe Ladetto secondo cui: L’intera sinistra da anni è in crisi in Europa, anzi in tutto il mondo. Sarebbe il caso di partire da questa constatazione per cercare di risalirne alle cause”, tralasciando ogni altra considerazione di natura strettamente contingente legata a semplici valutazioni opportunità politica, sarebbe possibile evitare di lasciarsi trascinare da queste ultime su di un terreno impervio che non ci consentirebbe un esame razionalmente approfondito della questione”.


Sia la citazione di Mila sia l’affermazione di Ladetto contengono una parte di verità che però, per consentirci di andare oltre le miserie della politica quotidiana e cercare di centrare in profondità il problema che sta alla base del declino qualitativo delle classi politiche occidentali, non solo italiane, e conseguentemente dei Paesi da queste governati, ci impongono di scavare senza pregiudizi nelle visioni filosofiche che, ormai da 250 anni, in occidente ci portano, magari anche solo implicitamente, il che non è certo un’attenuante, anzi, ad affermare senz’ombra di dubbio la persistenza della bontà della corrente visione della natura hominum, concetto che ha portato all’attuale senso di ineluttabilità dell’uomo “a una dimensione”, quella economica.

Dal che consegue che la cultura occidentale odierna non è in grado di interrogarsi convenientemente sulla Weltanschauung (visione del mondo), che in essa presiede, senza generare dubbi di sorta, alla determinazione del destino storico dell’umanità, consentendo a un qualsiasi governo contemporaneo di apparire adatto, almeno potenzialmente, ad assicurare quella Sicurezza e quella la Felicità dei popoli di cui parla la costituzione americana.

Qui si impone una premessa: le visioni del mondo su cui basiamo le nostre costruzioni (filosofiche e) politiche sono in parte basate su sistemi di valori che, in via pregiudiziale, per molti aspetti, riflettono affermazioni, ritenute fenomenicamente oggettive (e quindi non valoriali) che noi riferiamo al modo di essere, ritenuto per l’appunto (almeno per certi aspetti) oggettivo, del mondo naturale e storico in cui si svolge la vicenda umana. Ora dobbiamo renderci conto che, se i sistemi valoriali a cui ancora oggi facciamo riferimento in ambito (filosofico e) politico sono stati elaborati sottintendendo un’immagine del mondo naturale e una storia umana pensata come basata su determinati presupposti, poi rivelatisi, a causa della mutazione nel tempo di certi rapporti di forza tra gli equilibri della natura e l’azione umana, falsi alle prove dei fatti, è chiaro che tutto quel bagaglio deontologico, che in precedenza aveva accompagnato l’agire politico, ne resta scompaginato e deve essere revisionato per verificare se sia ancora praticabile.

Qual è stato il leitmotiv su cui si è costruita la civiltà industriale dell’occidente negli ultimi 200 anni?

Dal punto di vista dei fatti i presupposti dati per scontati erano questi:

1) la possibilità di agire e sfruttare la natura, di per se stessa matrigna per l’uomo, sono senza limiti. Agendo con l’ausilio della scienza e della tecnica, l’uomo raggiungerà la felicità in quanto riuscirà a debellare tutti i mali che spesso lo affliggono: la fame, le malattie etc.;
2) Ie risorse del mondo sono senza limiti quindi è possibile, con l’ausilio della tecnica, che consente, e consentirà sempre più in futuro man mano che il progresso tecnologico andrà avanti, all’apparato industriale di accelerare i tempi produttivi, dare senza limiti a tutti quello che adesso può essere solo appannaggio di pochi;
3) non veniva assolutamente preso in considerazione il concetto di “equilibrio naturale” pertanto qualunque “violenza” (al mondo animale e al mondo vegetale, mediante gli attentati al mantenimento di una cospicua biodiversità, al mantenimento di una equilibrata diffusione di ciascuna specie vivente, uomo compreso, e ai mutamenti climatici antropicamente indotti, ecc.) venisse inferta alla natura per soddisfare con il sistema industriale i bisogni umani in modo diffuso non si riteneva che comportasse diseconomie ricadenti sulla stessa umanità come danno con cui, prima o poi, si dovessero fare i conti.


A questo punto il mito “progressista” dello sviluppo senza limiti, ritenuto fonte di autoliberazione dal male da parte dell’uomo stesso, era considerato un obiettivo non solo possibile ma da perseguirsi senza remora alcuna in quanto di per sè privo di una qualsiasi negatività. Una vera e propria luce del bene che fugava le tenebre del male, priva di alcuna contraddizione tragica, come se i vantaggi del progresso fossero un bene gratuito e senza limiti non richiedenti all’uomo alcuna contropartita.

Oggi tutti e tre questi capisaldi fattuali, su cui faceva affidamento la concezione del progresso infinito dell’uomo (in termini più concreti: la crescita produttiva infinita, grazie alla tecnica e all’economia industriale, attraverso una sempre più efficiente e veloce capacità di sfruttamento delle risorse naturali senza necessità di porre limiti al processo operata grazie ai tecnocrati e agli imprenditori, visti quasi come i sacerdoti di una religione dell’autosalvazione del genere umano) sono entrati in grave crisi.

Dal punto di vista dei valori filosofico-politici della società industriale gli obiettivi da raggiungersi erano questi:

1) secondo la borghesia produttiva lottare per uno stato “liberale” e, soprattutto, “liberista”, che riconoscesse il massimo di libertà economica all’iniziativa produttiva privata la cui efficienza, una volta liberata da orpelli legali eccessivi imposti dallo stato dispotico, avrebbe garantito, a detta dei suoi fautori, il massimo di beni a disposizione della popolazione e, più in generale, il benessere di tutta la società in un accrescimento senza fine, che avrebbe trasformato col tempo il mondo in un vero paradiso;
2) secondo i lavoratori, che, grazie allo svilupparsi dell’industria, perdevano sempre più la loro autonomia artigianale in quanto venivano sempre più inglobati nella fabbrica industriale, l’ottenimento di una distribuzione della ricchezza prodotta tale da garantire loro redditi adeguati e dignità umana per quanto riguardava le condizioni di lavoro (orari di lavoro, giorni di riposo, ferie, sicurezza sul lavoro etc) e, innanzitutto, un equa partecipazione all’accresciuta ricchezza che l’industria metteva a disposizione della collettività nazionale nell’unità di tempo storico, che potremmo identificare in una generazione (25-35 anni).


In questo quadro si individuarono, in termini di azione politica, una “destra” ed una “sinistra” alle quali nel tempo aderirono vari partiti accomunati, pur nelle loro visioni specifiche, spesso opposte negli obiettivi politici, dall’idea filosofico-politica progressista della storia. Col tempo si finì col sintetizzare la cosa in termini sociopolitici di “partiti della libertà dell’azione economica”, con riferimento ai partiti definiti di destra, e di “partiti della giustizia sociale”, con riferimento ai partiti definiti di sinistra. Naturalmente nella concretezza storica le cose sono andate in modo molto più complesso e articolato a seconda dei luoghi e dei tempi, ma l’estrema semplificazione adottata ci è utile per logicità ed opportuna per chiarezza al fine di consentirci la comprensione delle problematiche odierne.

La qual cosa portò a vedere con occhi diversi l’azione politica rispetto a quanto suggeriva il senso comune e il pensiero filosofico delle società preindustriali. In tale società il concetto di giustizia era visto, sempre e comunque, come il fine sommo dell’attività di chi deteneva il potere politico, non come un fine “di parte”, legato ad una particolare “ideologia politica”.

Non aspirare a raggiungere tale fine sommo nella società preindustriale voleva dire sic et simpliciter aver deviato da quelli che erano i fini ultimi che caratterizzavano la polis e in una storiella molto comune nel mondo antico, riportata da Cicerone e poi citata nel IV Secolo da S. Agostino nel De civitate Dei, si ricorda addirittura che, se chi amministra un regnum (la cosa pubblica, diremmo noi in termini più genericamente più ampi) non lo fa in spirito di giustizia, tra questo e un latrocinium (un’associazione a delinquere, diremmo noi oggi) non vi è sostanzialmente alcuna differenza, ma mera sopraffazione dell’uomo sull’uomo. La differenza tra regnum e latrocinium era dunque affidata unicamente all’animus degli operatori della politica.

Per completare il quadro del modo di pensare antico tramandato alla cultura moderna riteniamo opportuno, per i nostri fini conoscitivi, aggiungere che Aristotele vedeva in una non eccessiva disparità di ricchezza tra i concittadini la suprema regola della giustizia politica e una conseguente fonte di felicità e di armonia per la polis per cui, dal quadro che ne risulta, ci possiamo rendere conto che l’unicuique suum tribuere era visto sempre come un compito fondamentale della (buona) azione politica, al di là di ogni ottica di parte.

Nella lotta della borghesia liberale contro gli stati retti dal ceto nobiliare era stato introdotto nella polemica politica un altro concetto: quello dell’azione economica producente, secondo le istanze borghesi, sempre e comunque, una ricchezza vieppiù crescente (all’infinito) che, prima o poi, automaticamente sarebbe ricaduta su tutta la collettività dei cittadini, se, e soprattutto, lo stato avesse interferito il meno possibile nell’attività economica vessando i ceti borghesi. Quindi entrava in gioco in politica un altro valore, assoluto quanto la tradizionale virtù della giustizia: la libertà economica. Questa, avrebbe garantito al massimo grado lo sfruttamento industriale delle risorse naturali (ritenute infinitamente aggredibili, non dimentichiamolo), e, grazie alle virtù lavorative ed organizzative dei borghesi, nelle cui mani era opportuno mantenere cospicui accumuli di capitale evitando di gravarli di troppe tasse, avrebbe finito col trasformare sempre più il mondo in una sorta di Eden.

Reagire politicamente contro tale valore poteva essere interpretato, in quel contesto culturale e politico-sociale, come un atto contro il bene ultimo dell’umanità in quanto ciò avrebbe significato rischiare di privarla del grande sogno, già adombrato nel tardo Rinascimento nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone e che con la comparsa della rivoluzione industriale sembrava ormai a portata di mano. Sogno a cui, ovviamente, anche le ideologie di sinistra partecipavano (nella loro ottica nel modo più giusto, data la tutela che veniva richiesta per colmare i sempre più constatabili squilibri tra le classi sociali che invece non erano quasi mai presi in considerazione dalla destra, fiduciosa, oltre ogni buon senso, negli equilibri automatici del mercato) all’idea, propria delle élite borghesi, che la tecnologia, se usata in un contesto di giusta distribuzione della ricchezza, e, al limite, di passaggio alla mano pubblica di alcuni dei socialmente più importanti, o, al limite più estremo del bolscevismo, tutti, i mezzi di produzione, effettivamente sarebbe diventato lo strumento che avrebbe in qualche modo trasformato il mondo in un paradiso in terra.

Ne conseguiva che, nella società preindustriale, fortemente tributaria dei beni direttamente forniti dalla natura, a cui il capitale tecnologico, scarsamente innovativo, non molto aggiungeva, il concetto di giustizia, come fine della politica, non faceva riferimento a contenuti programmatici propri di una fazione che affermava questo valore contrapponendolo ad un altro preciso valore astratto da cui dipendeva il realizzarsi del “progresso umano” (la libertà economica, vedi supra) ma era un concetto astratto, e assolutamente sovraordinato ad ogni altro, dal momento che esso, di per sé solo, rappresentava l’essenza stessa della politica.

Ovviamente anche tale concetto di giustizia proprio della società preindustriale nel corso della storia veniva riempito di volta in volta con contenuti concreti suggeriti dalle esigenze dettate dalle esigenze che si manifestavano nello hic et nunc (si pensi, nella storia romana, alla questione della riforma agraria proposta dai fratelli Gracchi per ovviare ai gravi squilibri sociali derivanti dalle guerre puniche), per cui lo scontro sociale, ovviamente, esisteva anche in esse.

Lo stato “progredito e fautore del progresso” dell’epoca industriale invece aveva aggiunto uno scopo essenziale ulteriore a quello della giustizia, quello di garantire una “economia di sviluppo” alla collettività dei cittadini e quindi riconoscendo nella borghesia imprenditoriale quasi una casta sacerdotale capace di redimere la collettività nazionale dalla miseria, o anche solo elevandola dalla semplice “economia di sussistenza”, e quindi da sostenere, dandogli la massima libertà d’azione e un non troppo gravoso peso fiscale, in nome dell’accrescimento del benessere e, altra faccia della medaglia, della potenza dello stato-nazione che quell’accrescimento di benessere (e quella potenza industriale) col suo ordine e la sua organizzazione garantiva. Da qui “la dialettica politica” che doveva portare a conciliare giustizia e progresso cioè, sintetizzando in massimo grado, a conciliare “sinistra” e “destra”.

Ma, mentre nella società preindustriale tale scontro avveniva in un quadro di economia di sussistenza, nella società industriale tale scontro finì con l’assumere, in un quadro di sviluppo economico programmatico e continuativo turbolento e senza limiti, come una sorta di obiettivo assoluto, escatologicamente salvifico, di “liberazione dal male” di natura addirittura parareligiosa. Atteggiamento di natura ideologica che in realtà finì spesso col camuffare deliranti istinti di potenza che ormai, al presente, sostituiscono palesemente i campi di battaglia con i mercati e le borse mondiali. La “distruzione creatrice” del capitalismo, eseguita con “armi” produttive sempre più efficienti e generante, in modo sempre più numeroso, prodotti sempre più “invasivi” dal punto di vista ambientale e, tutto sommato sempre meno utili a soddisfare veri bisogni di base (consumismo), tanto esaltata da Schumpeter, ha finito col trasformarsi in “creazione distruttiva” dove la corsa all’innovazione diventa sempre più veloce e nevrotica nel tentativo di convincere gli acquirenti della bontà dei bisogni che tale innovazione soddisfa. In realtà tutti sanno che tale corsa, necessitatamente sempre più veloce, è semplicemente una gara a evitare che la saturazione dei mercati possa far collassare il sistema con gli effetti che la storia ci ha già insegnato a conoscere.

Quindi, se da un lato possiamo dire che gli astratti concetti di “destra” e di “sinistra” in termini formali possono ritenersi componenti perpetui di una inevitabile dialettica politico-sociale esistente tra il vertice dei proceres (noi oggi diremmo delle élite, dell’establishment) che governano una qualsiasi civitas (a cui appartengono, federate tra loro, non solo le vere e proprie élite politiche ma anche le élites culturali, tecniche, etc. che fungono da appoggio ad essa) e la base sociale dei governati, di per sé più esposte ai disagi dovuti alla non partecipazione alla gestione del potere (un meccanismo che riteniamo che sia una legge politico-sociologica universale ed eterna), dall’altro lato dobbiamo rilevare che nella civiltà industriale i termini dialettici di “destra” e di “sinistra” hanno decisamente fatto riferimento a realtà contenutistiche molto peculiari che anche le più spinte forme di “capitalismo preindustriale” (sostanzialmente di impiego artigianale e, soprattutto, commerciale), più volte presentatesi nella storia presso vari popoli, non avevano mai raggiunto.

È solo col “macchinismo“, proprio del “capitalismo industriale” che il capitale entra direttamente, e in quantità cospicua, tra i fattori di produzione incorporandosi nel valore stesso del manufatto industriale e, al contempo, ne determina la competitività sul mercato, finendo col determinare la più assoluta funzionalizzazione dell’intero corpo sociale alle esigenze del sistema produttivo nel suo complesso di cui si esaltano le capacità “salvifiche”, nascondendo che “nessun pasto è gratis” e che, nel migliore dei casi, anche in assenza di svantaggi presenti, saranno le future generazioni a pagare in qualche modo il conto in termini ambientali.

È qui evidente che tale posizione, a contenuto che abbiamo definito “escatologico” per le aspettative che generava, e, secondo le affermazioni dell’establishment occidentale (il cui vertice è ormai costituito da chi muove la finanza e gli investimenti a livello internazionale, per cui le classi politiche occidentali devono considerarsi vassalle di tale potere, implicitamente legittimato dalla poco visibile, ambigua, e mai citata né dalle fonti di informazione né dalle accademie, dottrina anarco-capitalistica, spacciata per dottrina politica sovrana liberal-democratica), continuerebbe a generare ancora per i popoli occidentali di antica industrializzazione, era l’attuazione, per via del fenomeno, culturalmente illuministico e tecnicamente industriale, di quell’atteggiamento mentale, osservato da Hannah Arendt, che la portava a dire che col Rinascimento “il trascendente (protagonista della cultura europea del Medioevo, ndr) irrompeva nell’immanente”. Tale atteggiamento mentale del Rinascimento con gli strumenti datagli successivamente dalla civiltà industriale dava all’uomo occidentale la sensazione di aver trasformato se stesso in una sorta di dio (ri)creatore che metteva le toppe a un mondo naturale dove, per dirla con Marx, “dominava l’antiumano” (la fame, le malattie, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo per via delle guerre, dello sfruttamento etc.).

Nacque così una forma di dicotomia tra il concetto formale di giustizia, astrattamente universale, come ben conosciuto sin dalla notte dei tempi, e il concetto sostanziale di giustizia legato ad una nuova contingenza storica: la dialettica politico-sociale propria della civiltà industriale.

Riassumendo l’idea filosofica del progresso infinito dell’umanità, pragmaticamente basato come una crescita infinita dello sviluppo tecnologico industriale, aveva finito quasi coll’attribuire alla borghesia produttiva (anche sotto la spinta dell’idea massonica, di per sé “parareligiosa”), specialmente negli Stati Uniti, paese, tra l’altro a struttura sociale unicamente borghese, nato dal nulla, e quindi privo di remore e di complicazioni storiche, diventati con la seconda guerra mondiale il modello ispiratore dell’intero occidente, e, però nei soli aspetti tecnico-economici ma non in quelli antropologico-sociali, del mondo intero, quasi una missione salvifica proseguendo l’opera di “immanentizzazione” della (trascendente) idea cristiana di redenzione.

In questo quadro però si affacciava prepotentemente, alla fine degli anni sessanta del XX Secolo la questione ecologica che faceva sorgere dubbi sull’ottimismo ottocentesco e protonovecentesco che affermava l’assenza di limiti, e di costi che col tempo l’umanità avrebbe dovuto pagare, nello sfruttamento della natura (quindi che il dono del progresso all’umanità fosse gratuito, e non avesse una sua tragicità cultura-natura).

In Europa occidentale, sino alla caduta del regime comunista sovietico (vista nel “mondo libero” come la prova storica della superiorità del sistema economico-sociale occidentale) si creò un ideale equilibrio tra il momento dell’efficienza del sistema produttivo e quello dell’intervento pubblico nell’attività economica e nella tutela dei lavoratori (si parlò di “riformismo”). Ma dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 la precedente visione del mondo ne veniva stravolta, probabilmente, a nostro avviso, per la doppia spinta, da un lato della saturazione dei mercati, sino ad allora (relativamente) aperti al solo occidente, e dall’altro dell’aggravarsi della problematica ecologica.

Abbiamo la sensazione che successivamente al 1989 si siano verificati dei fatti, quali appunto l’acuirsi della saturazione dei mercati, che ha spinto gli Stati Uniti a spingere per l’avanzata dell’applicazione delle dottrine anarco-capitaliste (che hanno radici profonde che affondano nella fondazione stessa degli Stati Uniti e che, ricordiamo, vanno distinte dalle dottrine liberali-progressiste proprie dell’epoca delle ideologie politiche, quindi, al contrario dell’anarco-capitalismo, affermanti la sovranità dello stato, dominanti dal Secolo XVIII, Rivoluzioni americana e francese, al Secolo XX, fine dello stato sovietico) che negli ultimi 30 anni hanno sostanzialmente consegnato la sovranità politica dell’occidente alle grosse corporations multinazionali occidentali (per lo più statunitensi), che quindi operano con mentalità strettamente affaristica indirizzando le politiche dei vari stati dell’impero statunitense, che vedono la sovranità statale, sia in termini di politica interna sia in termini di politica internazionale, come il male assoluto.

Agli inizi il gioco statunitense, essendo convinti gli USA che trionfo mondiale del mercato avrebbe voluto dire la fine del primato della politica in quanto tale e l’inizio di un “anarchico” mondo governato dalla sapienza automatica del mercato (storicamente mai esistita se gli economisti stessi in passato, anche di scuola liberale, hanno sempre parlato di “economia politica” contrapponendola all’“economia pura” che è una semplice astrazione scientifica alla quale si deve l’idea stessa, falsa, che nella storia possa esistere, a guidarne i destini in barba al potere politico, un “libero mercato”), avrebbe voluto coinvolgere in tale logica anche i due (presunti) figliuoli prodighi del comunismo russo e cinese ma tali paesi, in particolare la Cina, si sono guardati bene dal mangiare la foglia anarco-capitalistica (cioè l’antisovranismo) e hanno aderito alla liberalizzazione del mercato mondiale a modo loro. Va infatti notato che la Cina, al momento risultante la vera vincente del gioco, svolge la propria azione economica attuando un sovranismo di marca imperiale, che è proprio la negazione di quelle prassi anarco-capitalistiche, che potremmo definire a buon diritto “antipolitiche”, il cui scopo è quello di far carpire al “potere economico” la sovranità propria del potere politico, dettando legge ai poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, al fine di esaltare la preminenza degli interessi del momento tecnocratico-economico, presunti come tendenti alla globalità, nelle scelte di governo della cosa pubblica dei singoli Stati.

Il risultato di tale improvvida operazione USA, varata definitivamente sotto l’euforia del crollo dell’URSS (si arrivò a parlare di “fine della storia”, solo perché era finita “una certa storia” che lasciava, come era stato da sempre, alla politica il potere sovrano purché questo non contrastasse “la libera iniziativa” e, anzi, ne favorisse l’attività, magari anche con le cannonate, all’interno e le cannoniere, all’estero), è stata che nella rete ci sono cascati i paesi della UE e della NATO che, come ci ricorda “Limes” (n. 4/2019), tendono sempre più ad identificarsi l’una nell’altra, e tutto l’Occidente è in subbuglio per le reazioni (di pancia) sovraniste che denunciano, in modo alquanto nevrotico, che non risolve, quando addirittura non aggrava, i problemi del rapporto di vassallaggio della politica occidentale alle strutture agenti sul mercato, quanto sia stata una follia la politica della globalizzazione in stile anarco-capitalistico, che ha distrutto per un verso la politica e per l’altro la sostenibilità economica sui mercati internazionali dell’industria occidentale.

In sostanza il 1989, che gli occidentali hanno registrato come “la fine del comunismo” e “il trionfo dei Paesi liberi”, dando per scontato che il quadro generale non sarebbe cambiato (quando in occidente era già comparso il reaganismo, che segnava la vittoria del sino ad allora strisciante anarco-capitalismo su quanto in occidente rimaneva dello spirito solidaristico, che di per sé affermava la sovranità dello stato, strumento di giustizia, sul mercato), è in realtà cominciata “un’altra storia che ha stravolto il modo di essere della cultura politica ed economica mondiale, rendendo addirittura non più utilizzabile neppure il vocabolario politico, economico e sociale consolidatosi in precedenza su scala mondiale.

Attualmente non vi è più uno scontro tra ideologie politiche, come paravento culturale alla geopolitica, ma questa registra la dualistica presenza di:

1) un “mondo occidentale anarco-capitalistico” in cui il Maligno è impersonato dal “sovranismo”, visto come intralcio allo sviluppo economico illimitato, pur di fatto paradossalmente applicato da tutti gli Stati occidentali per necessità, quando ipocritamente e quando con arroganza plateale, per evitare che la propria nazione ci rimetta troppo nel gioco al massacro che si è rivelato essere per i Paesi di vecchia industrializzazione l’apertura globale dei mercati mondiali;
2) un “mondo orientale di Stati di nuova industrializzazione”, fortemente organizzati come “sistema paese” in forme tecnicologico-economiche adeguate a conquistare i mercati mondiali e retti da un sistema politico sovrano che dirige la propria economia, sostanzialmente riproducente quella “forma mista di sistema economico” garantita da un tipo di governo, magari formalmente democratico, ma sostanzialmente autoritariamente dirigista.


Tutto il sistema mondo (che teoricamente per potersi salvare da gravi futuri insostenibili squilibri, sociali ed ecologici, dovrebbe avere un governo mondiale, altro che equilibri del mercato globale) a questo punto non è chiaro come nel tempo potrebbe reggere alle esigenze contrapposte necessarie per tenere un ordine geopolitico: da un lato lavoro e benessere e dall’altro tollerabilità ambientale sostenibile con il soddisfacimento dei bisogni di base dell’intera umanità la cui espansione sembra ormai incontenibile.

Da un lato oggi stiamo assistendo ai ragionevoli (si fa per dire, se pensiamo alle problematiche ecologiche che ci sovrastano) inviti degli establishment dei singoli Paesi a favorire l’aumento il PIL denunciando il “non fare” (che spesso è frutto di un “cattivo fare” programmato, colposamente, quando non dolosamente, dallo stesso establishment) quando da un lato tale invito, privo volutamente di linee strategiche, e anche spesso contra legem tralasciate, spesso cozza con la grave situazione ecologica e dall’altro è evidente che di spazi per espandere la produzione per i paesi di vecchia industrializzazione non ce ne sono molti e che le fabbriche di tali paesi spesso vengono acquistate per essere chiuse, affinché non facciano concorrenza allo stesso compratore straniero globalmente operante.

Per non parlare della UE (invito il lettore ad andare a vedere che cosa scrissi in miei precedenti commenti dove la definii un “ircocervo anarcocapitalistico”), ridotta, nei tempi della crisi odierna, dalla iniziale funzione di grande pacificatore e sviluppatore dei paesi europei e incubatore di una federazione continentale, a istituzione deputata a fare da campo di battaglia per una feroce concorrenza tra i sistemi paese ad essa associati.

Tornando in conclusione a ciò che ha dato spunto a questo commento, c’è da chiedersi come, in un quadro mondiale, continentale e nazionale di questo genere, possiamo pensare che, parlando in particolare dell’ambito occidentale, non influenzi, senza limite di partito e senza limite di nazione, la qualità della classe politica coinvolta. Basta osservare come certe caratteristiche cialtronesche, oggi in voga specialmente tra le ultime generazioni di politici, siano trasversali ben al di là del partito a cui appartengano o le idee più o meno nobili che dicono di propugnare.

L’assenza di un reale potere decisorio, e anche lo scadere dello stile comportamentale all’interno dei partiti (magari favoriti talvolta dagli stessi vertici), portano troppo di sovente a far fare la scelta di entrare in politica a delle persone mediocri, disposte al vassallaggio e votate all’affarismo, almeno nei livelli nazionali e internazionali.

Molto meno ciò accade nelle amministrazioni locali, soprattutto dei piccoli centri, dove, miracolosamente, ancora degli amministratori seri e, talvolta addirittura eroici, probabilmente perché chi occupa quei posti ha motivazioni d’altro genere, si vedono ancora.


Il primo dei commenti

Lascia un commento

La Tua email non sarà pubblicata.


*