La “sinistra al caviale”



Giorgio Merlo    13 Giugno 2019       2

Che il centrosinistra, in Italia, vada ricostruito dalle fondamenta è un dato che ormai non fa neanche più notizia. Che sia politicamente tramontata la cosiddetta "vocazione maggioritaria" del Partito Democratico è un dato altrettanto indiscutibile. Che sia necessario, in un sistema fortemente proporzionale, rideclinare la "cultura delle alleanze" per competere ed eventualmente vincere le elezioni è un aspetto da cui non si può più prescindere.


Ora, per affrontare seriamente questa situazione, va rimessa in campo una coalizione credibile, seria, plurale e di governo. Una coalizione che, però, non può più essere decisa e pianificata a tavolino. Come pensano in modo un po' surreale Calenda e il neo segretario del PD Zingaretti. La concezione gramsciana dell'egemonia non è pertinente con la fase storica che stiamo vivendo e i partiti o i movimenti che fanno parte della potenziale alleanza non possono essere decisi dall'alto. Innanzitutto perché sarebbe un'operazione politicamente ed elettoralmente fallimentare e, in secondo luogo, perché una coalizione è tale se rappresenta realmente pezzi di società veri, interessi sociali riconoscibili e valori culturali vissuti e radicati. L'esatto contrario di operazioni aristocratiche ed elitarie decise e pianificate dall'alto.


Ora, se da un lato è necessario aprire realmente il cantiere politico, culturale e programmatico della futura coalizione facendo sì che la sinistra ritorni a fare la sinistra e il centro a fare il centro, c'è un nodo antico che continua a non essere sciolto. O meglio, molti ne sono a conoscenza, ma fingono di non saperlo. Mi riferisco, per citarlo con parole ormai collaudate, alla presenza della cosiddetta "sinistra al caviale".


Al netto della polemica politica e del disprezzo verso tutto ciò che è riconducibile alla sinistra o al mondo progressista, è indubbio che da troppo tempo nel nostro Paese alcuni maitre a penser della sinistra italiana trasmettono, forse anche inconsapevolmente, un messaggio elitario, aristocratico, alto borghese che si identifica con un "ceto sociale" radicalmente estraneo ed esterno a tutto ciò che può essere riconducibile, anche solo vagamente, ai ceti popolari, ai loro bisogni, alle loro esigenze e alle loro aspettative. Anche qui, lo sanno tutti ormai, i bisogni e le aspettative dei ceti marginali, periferici, più poveri e meno tutelati sono intercettati e rappresentati da altri. Ieri l'altro addirittura da Berlusconi, ieri dai 5 Stelle e oggi in massa dalla Lega di Matteo Salvini. Del resto, ci sarà pure un perché se questi bisogni popolari e interessi sociali non guardano più a sinistra neanche con il binocolo. Ed è proprio su questo versante che si inserisce il dibattito sulla "sinistra al caviale" o, per dirla con un linguaggio ancor più attuale, sulla "sinistra da Ztl", quella dei centri storici e del centro delle grandi città. Come, puntualmente si è verificato nelle ultime elezioni europee ed amministrative.


E allora sorge, in modo quasi spontaneo, una domanda molto secca: ma perché la sinistra italiana continua a fidarsi ciecamente degli esponenti – noti a tutti, senza neanche il bisogno di fare nomi e cognomi – riconducibili alla cosiddetta "sinistra al caviale"? È così difficile arrivare alla conclusione che quando i punti di riferimento più popolari e noti della sinistra sono ricchi milionari ed espressione degli interessi alto borghesi con stili di vita che solo una porzione ridottissima di italiani può permettersi, dicono poco o nulla ai ceti popolari e ai loro bisogni che si vorrebbe rappresentare? E, di conseguenza, proprio quei ceti e quegli interessi sociali guardano altrove e votano, in massa, partiti e movimenti che con la sinistra non hanno più nulla con cui spartire.


Forse ha ragione Massimo D'Alema quando, con la consueta chiarezza ed efficacia argomentativa, individua nella "rottura sentimentale" la ragione decisiva della crisi della sinistra nei luoghi più popolari della società italiana e la difficoltà, di conseguenza, nel rappresentarli politicamente e culturalmente.


Sotto questo versante, sarebbe auspicabile che anche il neo segretario del PD non fingesse di non sapere che questo problema è tuttora sul tappeto e che prima o poi dovrà essere affrontato. Perché con questi "testimonial" alto borghesi, elitari ed aristocratici difficilmente si incrementano i consensi tra i ceti popolari. Alla fine questo è un problema che riguarda l'identità e il ruolo della sinistra nella società italiana ma è anche, e soprattutto, un problema che riguarda l'intera coalizione di centrosinistra. Pensare veramente che questi "testimonial" sono i migliori rappresentanti dell'attuale sinistra italiana, significa regalare un vasto consenso elettorale e politico agli avversari. Con tanti saluti ai ceti popolari, ai più disagiati, agli "ultimi" e a tutti coloro che nelle pubbliche occasioni si blatera di rappresentare e di farsi carico delle loro esigenze e dei loro problemi.




2 Commenti

  1. Giusta considerazione. Ma teniamo presente che il fenomeno denunciato da Giorgio Merlo non è solo italiano ma riguarda l’intero occidente. Scrive Federico Rampini (La notte della sinistra): ”Tra i guru progressisti ora vengono cooptate le star di Hollywood e gli influencer dei social, purché pronuncino le filastrocche giuste sul cambiamento climatico o sugli immigrati. Non importa che abbiano conti in banca milionari, i media di sinistra venerano queste celebrity, mentre trattano con disgusto quei bifolchi delle periferie oche osano dubitare dei benefici promessi dal globalismo”. Tutto ciò viene da lontano avendo le premesse nel progressismo fondato sul culto della modernità (della quale il mondialismo è lo sbocco naturale) e del progresso (che non può, per definizione, fare vittime o guasti). A mutare la situazione, non bastano certo piccoli cambiamenti di rotta (come quelli di cui si sta parlando nelle sinistre europee, verdi inclusi). Di qui nasce in molti il dubbio che abbiano ancora un qualche significato in ambito politico parole come “sinistra” e “destra”.

  2. Sono passati più di dieci anni, da quando Dharendorf, scrivendo di “globalizzazione” ha previsto che sarebbero cresciute, con la competizione economica, le diseguaglianze; sarebbe diminuita la solidarietà: la democrazia (quella “liberale”) sarebbe stata messa in crisi e si sarebbe rafforzata la tendenza “autoritaria”… Oggi si ritorna a temere, come già era accaduto negli anni trenta, la crisi dell’Occidente… Dharendorf non parlava della rivoluzione digitale, perché si tratta di una “svolta” più recente, che è destinata ad incidere sulla società, sul lavoro e sulla politica, anche più in profondità della mondializzazione dei mercati. Con questi radicali mutamenti di orizzonte deve discutere chi parla di politica, di destra e sinistra… e anche di centro. Tutte categorie che debbono misurarsi con il “tempo che ci è dato vivere”, con mutamenti imprevisti, spesso non determinati dalla politica, che tuttavia la mettono alla prova: Come mette alla prova la politica il tempo, che passa inesorabile e “cancella sin le ruine”… Ma c’è una qualche continuità delle idee, non a caso i “classici” sopravvivono alle rivoluzioni, sia a destra che a sinistra, ma vanno reinterpretati. Anche per questo si parla di “mediazione”, di mettere le idee a confronto con il tempo, con le situazioni reali.

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