Il governo ha formulato e mantenuto due promesse: reddito di cittadinanza e quota 100. Siamo d’accordo che tutto sia migliorabile e che l’importante sia incominciare, tuttavia alcuni aspetti andrebbero approfonditi adeguatamente.
Prima di tutto si chiama Reddito di cittadinanza (RDC), ma è un ammortizzatore sociale di ultima generazione che esiste in altri Paesi europei da inizio anni Novanta: ti do un reddito se sei disoccupato, ma devi accettare formazione o assunzione in base a regole dettate dalle norme o dai regolamenti attuativi; in più ci sono restrizioni attinenti la condizione economica del beneficiario per cui molti si sono lamentati a causa di accreditamenti molto bassi. Ma l’INPS avrà conguagliato in base a reddito e patrimonio esistente.
Il Reddito di cittadinanza o Diritto di cittadinanza è un’altra cosa: viene distribuito a tutti per essere cittadini. Ne è un esempio lo Stato dell’Alaska che distribuisce a tutti i dividendi delle estrazioni minerarie: circa 200 dollari a persona.
I criteri di assegnazione del nostro RDC sono stati talmente restrittivi da scoraggiare molte più persone del previsto e consentire il riconoscimento di esso a una minoranza di poveri, oltretutto, troppo spesso in forma ridotta.
Di qui due considerazioni. Ferma restando la utilità di ammortizzatori sociali che contrastino la mancata ricerca di un lavoro, o la condizione degli italiani è completamente diversa da quanto ci raccontano le statistiche di tutti gli organismi nazionali e internazionali; oppure bisogna considerare il fatto che la gente ha bisogno di più welfare universale, meno spese incomprimibili (assicurazioni, bollette non a consumo, condomini, ecc.), meno balzelli.
Ma anche assegni più generosi e meno condizionati hanno in comune con tutto il resto che si continua a ragionare in termini di scarsità, dovuto alla scelta esclusiva della politica di far leva su moneta a debito (l’euro emesso dalla BCE direttamente o avallandone la creazione da parte delle banche ordinarie).
Non è la moneta comune il problema, ma la sua esclusività quando tutta la dottrina economica da secoli –, in particolare la scuola italiana, la teoria bancaria inglese, Cambridge e i seguaci di Keynes – si è affaccendata a dimostrare che esistono varie tipologie monetarie anche se la denominazione fosse unica.
In particolare, lo Stato può emettere moneta a corso legale solo all’interno del proprio territorio perché per quella a debito siamo vincolati al Trattato di Lisbona. La moneta statale (statonote o biglietti di Stato, non banconote dove la competenza esclusiva spetta alla BCE in base all’articolo 128 del Trattato stesso) non è a debito, cioè ha lo stesso segno algebrico delle tasse e si somma ad esse per concorrere al pareggio di bilancio, ma con una spesa primaria (al netto degli interessi sulla moneta a debito) superiore al gettito tributario. È solo grazie a tale meccanismo che l’economia può crescere adeguatamente.
L’incognita riguarda la quantità: il troppo stroppia, ma il poco (il niente) ci sta uccidendo.
Oggi disponiamo di tecnologie straordinarie e di un alto livello di disoccupazione anche molto qualificata che scongiurerebbero il rischio di inflazione; che, nei secoli passati, era la ragione per frenare la moneta non a debito.
Così un vero diritto o reddito di cittadinanza sarebbe possibile.
E veniamo a quota 100. Anche qui luci e ombre. Luci aver ribaltato la legge Fornero fonte di tante assurdità.
Ombre. Averlo fatto con la stessa logica: si guarda alle pensioni senza considerare adeguatamente l’importanza dei contributi previdenziali correnti ovvero degli occupati giovani. Le nostre pensioni non sono a capitalizzazione cioè a valorizzazione dei singoli contributi (che sarebbe molto peggio, affidandosi ai capricci dei cosiddetti mercati); ma devono la loro sostenibilità finanziaria alle nuove assunzioni.
Pertanto lo sforzo deve andare da assunzioni nella Pubblica amministrazione (l’età media oggi è 58 anni) a crescita della domanda interna e da crescita della domanda interna ad assunzioni nelle imprese.
Si torna quindi al tema di fondo che è quello delle risorse non a debito per investimenti pubblici e per assunzioni di personale qualificato. L’incognita, allora, riguarda se il maggior reddito interno si trasformerà in produzione interna o in importazioni perché da qui si partì negli anni ‘70 per rinnegare Keynes e abbracciare il neoliberismo che ci ha rovinato.
Oggi possiamo far crescere il reddito, lavorare meno, lavorare tutti; ma, come stanno facendo Trump, Cina e India è necessario puntare di più sulla domanda interna e sulla sostituzione di importazioni.
Infine, l’attuale presidente dell’INPS ha aperto a una riduzione di orario a parità di salario: occorre trovare un equilibrio accettabile tra nuova efficienza tecnologica, profitti, contribuzione sociale e stabilità nei rapporti di lavoro.
(Tratto da www.politicainsieme.com)
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