Pierferdinando Casini, nella sua uscita sul Messaggero, fa riferimento alla categoria dei “moderati”: «Se vogliamo evitare che gli irresponsabili al governo portino l'Italia verso la rovina e che l'ondata di demagogia e pressappochismo travolga tutto, noi dobbiamo coprire lo spazio immenso che si è creato al centro (…). Io giro l'Italia e c'è tanta gente che chiede ai moderati di rimettersi in marcia per occupare questo spazio. Che nel Paese vale più del 10%». E gli interlocutori possono essere tanti: da Matteo Renzi a Carlo Calenda fino a chi, dentro Forza Italia, non vuole morire salviniano.
La domanda che dobbiamo porci è: che strana creatura sono i “moderati” nella società italiana ed europea del nostro tempo? Dove sono? Quali sono i bisogni sociali che li identificano? Quali le aggregazioni comunitarie che li rappresentano? Non è che per caso parliamo di una categoria interpretativa della società oggi scomparsa sotto i colpi dei mutamenti radicali di questi anni?
La grande parte della società – sopratutto il cosiddetto “ceto medio”, impoverito dai processi economici; privato in gran parte della tradizionale propensione al miglioramento delle proprie condizioni di vita; spaventato dai cambiamenti imposti dalla globalizzazione – esprime piuttosto oggi una domanda di “radicalità”.
Mai come oggi, dunque, risulta vero l’assunto spesso citato da Mino Martinazzoli: la moderazione è virtù, il moderatismo un vizio.
Il problema drammatico è che le risposte oggi prevalenti non hanno né moderazione come stile istituzionale e cifra di responsabilità, né vera radicalità riformatrice nei contenuti. Come è tipico di ogni populismo. Sono convinto che al “populismo cattivo” non è contrapponibile un “populismo buono”, che non esiste in natura. Ma sono parimenti convinto che chi si attendesse – dopo l’eventuale naufragio di questo Governo – il ritorno ad un “Governo dei moderati” (o anche più semplicemente agli assetti politici precedenti) – resterebbe deluso.
Contro la deriva sfascista della destra serve certamente il richiamo a quella “moderazione” che in realtà è rispetto della “laica sacralità democratica” delle Istituzioni. Ma serve anche una radicalità riformatrice, che sfidi i populisti sul loro stesso terreno: quello dei “veri” interessi del popolo. Che significa immaginare e perseguire un nuovo “compromesso” tra democrazia e mercato. La destra populista è bravissima nel rappresentare il disagio del popolo. Ma non ha le idee e la visione per dare risposte sostenibili a questo disagio. Anche la sinistra (nella sua accezione tradizionale) oggi fatica a interpretare il cambiamento. Ed è vero che questa difficoltà si è talvolta tradotta in chiavi di lettura e proposte tipiche del “pensiero unico iperliberista”.
Non è, dunque, di una “gamba moderata” che abbisogna il campo politico alternativo alla destra, ma di una “simbiosi ritrovata” con gran parte del popolo. In questa prospettiva, la rinascita di una formazione politica di ispirazione popolare e liberaldemocratica potrebbe portare al campo alternativo alla destra un apporto essenziale e – ritengo – doveroso.
Essa non può nascere però come “germinazione” da parte del PD. Non sarebbe credibile. Ciò che serve è un soggetto politico che sia autonomo nella sua identità e alleato col PD nella costruzione di una alternativa democratica ed europeista alla destra.
Chi oggi è nel PD ha un compito diverso e non meno importante. Tocca a chi non ne fa parte trovare idee, linguaggi, proposte e leader nuovi, capaci di dare voce e rappresentanza a quel mondo sociale e civile che ancora crede in un progetto.
Ma perché ciò accada serve generosità, confronto, coraggio. E disponibilità anche di chi oggi è “fuori” dalla politica di metterci la faccia, come hanno fatto in altre epoche i “liberi e forti”.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
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