Un dato emerge abbastanza chiaramente dall’esito delle elezioni europee. Il voto di domenica 26 maggio consegna le carte della politica interna interamente a Matteo Salvini. Sia per quanto riguarda la maggioranza di governo e di conseguenza lo stesso Governo sia per quanto riguarda la legislatura.
Salvini, infatti, esce dalle urne con una doppia vittoria in tasca: l’ottimo risultato ottenuto dalla Lega ribalta da una parte i rapporti di forza all’interno della maggioranza di governo (politicamente anche se non numericamente in questo parlamento) consegnandogli una golden share sull’Esecutivo guidato da Giuseppe Conte; e capovolge dall’altra gli equilibri del centrodestra (semmai si possa ancora chiamarlo così visto il peso assunto dallo stesso Salvini) ponendo il suo partito come perno centrale del sistema oltre che di una eventuale ipotetica coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia.
Insomma, il vero unico vincitore di questa tornata elettorale è il ministro dell’Interno e vicepremier leghista che ora si trova a dover gestire un risultato per certi versi atteso ma che comporta oltre ad una grave responsabilità (la tenuta di un governo che deve approvare la prossima legge di bilancio) anche una serie di insidie potenzialmente letali sul piano politico per sè e per il suo partito, a cominciare dall’eccesso di protagonismo che spesso colpisce i ”vittoriosi” innalzandoli in un empireo ovattato (dove si è perso ad esempio Renzi) che li allontana dalla realtà (nel nostro caso tutt’altro che rosea) in cui è immerso il Paese, facendogli perdere il “senso” dell’azione politica e forse anche “il lume” della ragione politica.
Il vero sconfitto è il M5S guidato da Luigi Di Maio, che ora si trova in una strettoia (costretto a scegliere tra fare il cavalier servente o far saltare governo e legislatura) dalla quale sarà difficile se non impossibile uscire indenni.
Ma un altro che esce poco confortato dal voto, o se si preferisce un ”non vittorioso”, è il Pd guidato da Nicola Zingaretti che si è dimostrato con tutta evidenza ”non autosufficiente”, in quanto manchevole di una rappresentanza di ”centro” come potenziale alleato capace di recuperare i consensi in un’area dove il suo partito seppur ”allargato” riesce ad arrivare con grande difficoltà e dove difficilmente arriverebbe anche la componente renziana.
Troppi ”liberal” in uno stesso partito con pochi ”social” sono evidentemente poco attrattivi per l’ex ceto medio impoverito che continua a vagare da una parte all’altra alla ricerca di una rappresentanza politica. Che difficilmente potrà essere interpretata dagli attuali soggetti in campo (comprese le micro sigle che cercano di inseguire l’elettorato cattolico) ma che pone una domanda che non può restare a lungo senza un’offerta seria e credibile, in termini di proposta ma sopratutto di gruppi dirigenti “connessi” con il territorio. O se si preferisce in termini di “leadership diffusa”. Perchè la credibilità si basa sulle relazioni interpersonali.
Salvini, infatti, esce dalle urne con una doppia vittoria in tasca: l’ottimo risultato ottenuto dalla Lega ribalta da una parte i rapporti di forza all’interno della maggioranza di governo (politicamente anche se non numericamente in questo parlamento) consegnandogli una golden share sull’Esecutivo guidato da Giuseppe Conte; e capovolge dall’altra gli equilibri del centrodestra (semmai si possa ancora chiamarlo così visto il peso assunto dallo stesso Salvini) ponendo il suo partito come perno centrale del sistema oltre che di una eventuale ipotetica coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia.
Insomma, il vero unico vincitore di questa tornata elettorale è il ministro dell’Interno e vicepremier leghista che ora si trova a dover gestire un risultato per certi versi atteso ma che comporta oltre ad una grave responsabilità (la tenuta di un governo che deve approvare la prossima legge di bilancio) anche una serie di insidie potenzialmente letali sul piano politico per sè e per il suo partito, a cominciare dall’eccesso di protagonismo che spesso colpisce i ”vittoriosi” innalzandoli in un empireo ovattato (dove si è perso ad esempio Renzi) che li allontana dalla realtà (nel nostro caso tutt’altro che rosea) in cui è immerso il Paese, facendogli perdere il “senso” dell’azione politica e forse anche “il lume” della ragione politica.
Il vero sconfitto è il M5S guidato da Luigi Di Maio, che ora si trova in una strettoia (costretto a scegliere tra fare il cavalier servente o far saltare governo e legislatura) dalla quale sarà difficile se non impossibile uscire indenni.
Ma un altro che esce poco confortato dal voto, o se si preferisce un ”non vittorioso”, è il Pd guidato da Nicola Zingaretti che si è dimostrato con tutta evidenza ”non autosufficiente”, in quanto manchevole di una rappresentanza di ”centro” come potenziale alleato capace di recuperare i consensi in un’area dove il suo partito seppur ”allargato” riesce ad arrivare con grande difficoltà e dove difficilmente arriverebbe anche la componente renziana.
Troppi ”liberal” in uno stesso partito con pochi ”social” sono evidentemente poco attrattivi per l’ex ceto medio impoverito che continua a vagare da una parte all’altra alla ricerca di una rappresentanza politica. Che difficilmente potrà essere interpretata dagli attuali soggetti in campo (comprese le micro sigle che cercano di inseguire l’elettorato cattolico) ma che pone una domanda che non può restare a lungo senza un’offerta seria e credibile, in termini di proposta ma sopratutto di gruppi dirigenti “connessi” con il territorio. O se si preferisce in termini di “leadership diffusa”. Perchè la credibilità si basa sulle relazioni interpersonali.
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