Queste elezioni dimostrano che gli orientamenti politici degli europei non sono omogenei. In alcuni Paesi, ad esempio Francia e Germania, i Verdi riportano un successo considerevole. Diversamente, nella fascia mediterranea (Spagna, Italia, Grecia) la loro presenza è finanche trascurabile. Il sovranismo, colorato e mescolato a seconda dei gusti nazionali, conosce punte straordinarie di consenso, ma nel complesso fallisce l’obiettivo di rovesciare gli equilibri nel Parlamento di Strasburgo. Fenomeni relativamente nuovi – si pensi all’esperienza di Macron – non bastano per ora a generare un’idea complessiva di neo-centrismo progressista. Ovunque, salvo in Spagna, i socialisti patiscono il declino di una sinistra senza memoria e senza futuro.
In questo quadro, la grande vittoria di Salvini può essere valutata con sufficiente freddezza: pur consegnando l’Italia all’irrilevanza, non costituisce un pericolo per l’assetto politico europeo. Il paradosso del leghismo xenofobo e nazional-popolare sta in questa forbice di potenza e velleità; sta nel pasticcio del conservatorismo aggressivo “à la Bannon”, per il quale la somma di tutte le espressioni del moto sovranista dovrebbe garantire il riscatto di tutte le identità nazionali, e quindi, miracolosamente, della stessa identità del Vecchio Continente. In realtà il pasticcio non produce che irrazionalità e agitazione, con l’unico obiettivo certo di marcare la volontà di rinchiudere il sogno europeo nel cassetto della storia.
Salvini a caldo non ha esasperato i toni che appartengono di solito al vincitore, escludendo l’ipotesi di una crisi di governo. Non ha potuto fare a meno, però, di ripetere l’infantile ostentazione del rosario tra le dita, a riprova della immaturità e spregiudicatezza di un leader fortunato. A confronto stride invece l’esultanza di Nicola Zingaretti, già dimentico del fatto che stavolta, in assenza di alternative praticabili, il Pd ha rastrellato il voto degli italiani ansiosi di frenare in qualche modo l’ondata sovranista e populista. Occorre attendere poco per leggere meglio il risultato del Pd, dal momento che in Piemonte e nei tanti Comuni chiamati al voto emergerà nel pomeriggio il vero “zoccolo duro” di un partito evidentemente bisognoso, a livello locale, dell’appoggio spesso decisivo delle liste civiche. È azzardato sostenere pertanto che da oggi il Pd è fuori dalla crisi. Basti pensare che da ieri il “Muro” delle regioni rosse non esiste più, crollato sotto il peso della vetustà dei simboli e della lunga gestione del potere. Manca il cenno di un disegno a tutto tondo, come pure la misura del pensiero e dell’azione, se solo si pensa alla fantasiosa richiesta di elezioni anticipate, se fosse, chi se ne avvantaggerebbe?
Ora per altro bisogna interrogarsi sulle prospettive del Movimento Cinque Stelle. La sua funzione di governo esce tramortita dalle urne. Al contrario di quanto ha detto Di Maio dinanzi ai dati via via più nitidi e sicuri, la sconfitta non dipende dall’elettorato delle regioni meridionali; ché questo, anzi, faticosamente ha tenuto, mentre franava clamorosamente quello delle regioni settentrionali. Il problema è che il bi-populismo rappresentato dall’attuale maggioranza parlamentare doveva prima o poi risolversi in un “redde rationem” tra i due partiti di governo. Ciò è avvenuto con questo drastico mutamento nei rapporti di forza, quasi replicando le percentuali del 4 marzo dello scorso anno, sebbene attribuite in senso inverso. Sicché l’area di governo conserva inalterato il suo bacino di consensi, ma con uno scambio di pesi al suo interno. Certo, si stenta a comprendere come possa andare avanti l’alleanza, eppure non sono i Cinque Stelle nella condizione di rompere l’intesa con la Lega. Sotto questo profilo la formula giallo-verde è più debole, non fino al punto, però, di perdersi in una spirale che porti in tempi rapidi alla propria dissoluzione. Di fatto non sarà Di Maio a dettare il ritmo dell’iniziativa di governo.
Insomma, le elezioni hanno prodotto una chiara ristrutturazione della maggioranza, non una sua tangibile crescita numerica come ancora un mese fa appariva nei sondaggi. In questo processo si annida la vocazione dell’Italia profonda a ritrovare un equilibrio a destra. Dopo un quarto di secolo le lancette dell’orologio ritornano al loro posto. La destra tende cioè a ricomporsi, affidandosi a Salvini e alla sua promessa di sicurezza e stabilità. Nel 1994 la coalizione guidata da Berlusconi, della quale faceva parte anche il drappello dei radicali di Pannella, prendeva alle europee il 49,9% dei voti; oggi, se proviamo a sommare i risultati delle liste, la destra unita nelle regioni e nei Comuni, ma non a livello di governo del Paese, arriva con il 49,6% a replicare il medesimo risultato. A grattare la scorza del dato elettorale si coglie dunque l’essenza della “questione italiana” a seguito della caduta della Prima Repubblica: un misto di anarchismo e autoritarismo, destinato a fungere da collante di una politica eccentrica e irresponsabile, da cui deriva la stagnazione economica di lungo periodo e la rabbia sociale conseguente.
Possiamo dirlo con parole semplici. Berlusconi e Salvini, in tempi e con stili diversi, incarnano il dilemma di un Paese sostanzialmente prigioniero delle sue astuzie di sopravvivenza. Pertanto, denunciare l’aspetto più nascosto della crisi, incidere sul bubbone dell’istintualità dei moderati “en colère”, prendere di petto l’esigenza, spesso enunciata e sempre incompiuta, di un “ritorno al centro” come assunzione di responsabilità verso il Paese; ecco, dopo queste elezioni rivelatrici dell’antico che ritorna, abbozzolato e contenuto per adesso in un improvvisato connubio di governo, si fa più urgente per i democratici e i popolari una seria riflessione sul “che fare”, senza indugiare nel piccolo dogma della uniformità forzosa, e perciò scarsamente feconda, del cosiddetto mondo riformista. Se manca questo sforzo, né facile e né breve, tutto diventa più arduo per l’opposizione. Ci vuole fiducia e soprattutto, a fronte di segnali che potranno venire, proprio della fiducia bisognerà fare buon uso.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
In questo quadro, la grande vittoria di Salvini può essere valutata con sufficiente freddezza: pur consegnando l’Italia all’irrilevanza, non costituisce un pericolo per l’assetto politico europeo. Il paradosso del leghismo xenofobo e nazional-popolare sta in questa forbice di potenza e velleità; sta nel pasticcio del conservatorismo aggressivo “à la Bannon”, per il quale la somma di tutte le espressioni del moto sovranista dovrebbe garantire il riscatto di tutte le identità nazionali, e quindi, miracolosamente, della stessa identità del Vecchio Continente. In realtà il pasticcio non produce che irrazionalità e agitazione, con l’unico obiettivo certo di marcare la volontà di rinchiudere il sogno europeo nel cassetto della storia.
Salvini a caldo non ha esasperato i toni che appartengono di solito al vincitore, escludendo l’ipotesi di una crisi di governo. Non ha potuto fare a meno, però, di ripetere l’infantile ostentazione del rosario tra le dita, a riprova della immaturità e spregiudicatezza di un leader fortunato. A confronto stride invece l’esultanza di Nicola Zingaretti, già dimentico del fatto che stavolta, in assenza di alternative praticabili, il Pd ha rastrellato il voto degli italiani ansiosi di frenare in qualche modo l’ondata sovranista e populista. Occorre attendere poco per leggere meglio il risultato del Pd, dal momento che in Piemonte e nei tanti Comuni chiamati al voto emergerà nel pomeriggio il vero “zoccolo duro” di un partito evidentemente bisognoso, a livello locale, dell’appoggio spesso decisivo delle liste civiche. È azzardato sostenere pertanto che da oggi il Pd è fuori dalla crisi. Basti pensare che da ieri il “Muro” delle regioni rosse non esiste più, crollato sotto il peso della vetustà dei simboli e della lunga gestione del potere. Manca il cenno di un disegno a tutto tondo, come pure la misura del pensiero e dell’azione, se solo si pensa alla fantasiosa richiesta di elezioni anticipate, se fosse, chi se ne avvantaggerebbe?
Ora per altro bisogna interrogarsi sulle prospettive del Movimento Cinque Stelle. La sua funzione di governo esce tramortita dalle urne. Al contrario di quanto ha detto Di Maio dinanzi ai dati via via più nitidi e sicuri, la sconfitta non dipende dall’elettorato delle regioni meridionali; ché questo, anzi, faticosamente ha tenuto, mentre franava clamorosamente quello delle regioni settentrionali. Il problema è che il bi-populismo rappresentato dall’attuale maggioranza parlamentare doveva prima o poi risolversi in un “redde rationem” tra i due partiti di governo. Ciò è avvenuto con questo drastico mutamento nei rapporti di forza, quasi replicando le percentuali del 4 marzo dello scorso anno, sebbene attribuite in senso inverso. Sicché l’area di governo conserva inalterato il suo bacino di consensi, ma con uno scambio di pesi al suo interno. Certo, si stenta a comprendere come possa andare avanti l’alleanza, eppure non sono i Cinque Stelle nella condizione di rompere l’intesa con la Lega. Sotto questo profilo la formula giallo-verde è più debole, non fino al punto, però, di perdersi in una spirale che porti in tempi rapidi alla propria dissoluzione. Di fatto non sarà Di Maio a dettare il ritmo dell’iniziativa di governo.
Insomma, le elezioni hanno prodotto una chiara ristrutturazione della maggioranza, non una sua tangibile crescita numerica come ancora un mese fa appariva nei sondaggi. In questo processo si annida la vocazione dell’Italia profonda a ritrovare un equilibrio a destra. Dopo un quarto di secolo le lancette dell’orologio ritornano al loro posto. La destra tende cioè a ricomporsi, affidandosi a Salvini e alla sua promessa di sicurezza e stabilità. Nel 1994 la coalizione guidata da Berlusconi, della quale faceva parte anche il drappello dei radicali di Pannella, prendeva alle europee il 49,9% dei voti; oggi, se proviamo a sommare i risultati delle liste, la destra unita nelle regioni e nei Comuni, ma non a livello di governo del Paese, arriva con il 49,6% a replicare il medesimo risultato. A grattare la scorza del dato elettorale si coglie dunque l’essenza della “questione italiana” a seguito della caduta della Prima Repubblica: un misto di anarchismo e autoritarismo, destinato a fungere da collante di una politica eccentrica e irresponsabile, da cui deriva la stagnazione economica di lungo periodo e la rabbia sociale conseguente.
Possiamo dirlo con parole semplici. Berlusconi e Salvini, in tempi e con stili diversi, incarnano il dilemma di un Paese sostanzialmente prigioniero delle sue astuzie di sopravvivenza. Pertanto, denunciare l’aspetto più nascosto della crisi, incidere sul bubbone dell’istintualità dei moderati “en colère”, prendere di petto l’esigenza, spesso enunciata e sempre incompiuta, di un “ritorno al centro” come assunzione di responsabilità verso il Paese; ecco, dopo queste elezioni rivelatrici dell’antico che ritorna, abbozzolato e contenuto per adesso in un improvvisato connubio di governo, si fa più urgente per i democratici e i popolari una seria riflessione sul “che fare”, senza indugiare nel piccolo dogma della uniformità forzosa, e perciò scarsamente feconda, del cosiddetto mondo riformista. Se manca questo sforzo, né facile e né breve, tutto diventa più arduo per l’opposizione. Ci vuole fiducia e soprattutto, a fronte di segnali che potranno venire, proprio della fiducia bisognerà fare buon uso.
(Tratto da www.ildomaniditalia.eu)
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