Per interpretare i grandi cambiamenti del nostro tempo – e per comprendere il successo dei partiti populisti – dobbiamo aver chiari i concetti legati alla sovranità e alla tutela delle identità nazionali in un mondo sempre più globalizzato. Nel nostro piccolo abbiamo la fortuna di pubblicare gli articoli in cui Beppe Ladetto ci fa interrogare sul senso vero delle parole, modificate nella loro percezione dall’evolversi della storia e della cultura. Le sue ultime riflessioni, che partono dal significato del termine “confine”, sono di grande attualità, e sono sostanzialmente condivisibili. Di certo “confine” non è una parolaccia ma un concetto cui dare il giusto valore, così come è positiva l’attenzione al territorio e all’identità nazionale che i confini delimitano.
Il confine in sé non è una cosa cattiva, come non lo è il diritto di proprietà. Tutti diamo per scontato che in casa nostra facciamo entrare solo chi vogliamo e che gli ospiti devono rispettarne le regole. Diversa, tra i proprietari, è la volontà/capacità di accogliere: c’è chi si rinchiude nel bunker, c’è chi apre la propria dimora agli amici e, all’occorrenza, a chi ha bisogno di riparo.
Non tutte le persone, non tutte le popolazioni sono egualmente ospitali, e tutti ne abbiamo consapevolezza, senza che mi attardi in esempi. Tra “chiusura” e “apertura” verso “l’altro da sé” c’è una disputa filosofica che riguarda l’essenza stessa dell’uomo. Ladetto aderisce alla teoria che risale ad Aristotele, ritenendo la nostra specie “costitutivamente sociale”. Siamo nell’eterna contrapposizione tra homo homini lupus e homo homini deo, mai veramente risolta, dato che il libero arbitrio permette sempre all’uomo di scegliere tra il bene e il male, tra la prevaricazione e la collaborazione con i suoi simili. Vorrei poi sottolineare l’amara considerazione di Ladetto sugli animali, che “difendono lo spazio loro indispensabile per sopravvivere”, mentre “gli umani tendono a conquistare territorio per sottomettere e sfruttare altri membri della propria specie”. E anche la condanna dell’individualismo sfrenato della nostra epoca: che questo frutto dell’ultimo liberismo selvaggio, in aggiunta alla brama di potere e ricchezza sempre esistite, abbia creato una serie di guasti sociali e politici, è tanto evidente da non richiedere aggiunte.
Dove però vorrei approfondire il pensiero di Ladetto è per contestare la presunta dicotomia tra l’identità, il senso di appartenenza a una comunità, e il considerarsi “cittadini del mondo”. Premetto che a questo titolo sono particolarmente legato perché da assessore lo scelsi oltre vent’anni fa per una iniziativa di educazione alla cittadinanza e alla multiculturalità realizzata nelle scuole del mio Comune in collaborazione con Amnesty International. Certo, il “cittadino del mondo” che avevamo – e ho tuttora – in mente, non è lo yuppie descritto da Bauman e Lasch, il ricco cosmopolita slegato da ogni comunità territoriale, spinto a muoversi alla ricerca di sempre migliori opportunità.
Il mio “cittadino del mondo” è colei/colui che ritiene tutti gli altri individui del pianeta simili a sé: diversi per colore della pelle, lingua, religione, usi e costumi, ma accomunati dal provare la stessa gioia per la nascita di un figlio e lo stesso dolore per la perdita di una persona cara, la stessa paura per la malattia, la guerra e il terremoto, dall’avere la stessa speranza in un futuro sereno, lo stesso desiderio di una famiglia, dei figli, di un lavoro gratificante o almeno dignitoso. Insomma, ogni individuo è sì unico e irripetibile – cosa di cui tendiamo a dimenticarci quando pensiamo alle moltitudini con gli occhi a mandorla o quando vediamo un barcone zeppo di giovani migranti neri “tutti uguali” – ma, nello stesso tempo, ci possiamo tutti considerare figli dello stesso pianeta o, per i credenti, di un unico Dio. Questa “eguaglianza umana”, questo “umanesimo” che porta a vedere in ciascuno il “prossimo” dell’insegnamento evangelico, ha ispirato i principi fissati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Proprio la dignità della persona umana, la sua tutela, può e deve rappresentare il collante universale tra individui e nazioni.
Poi la realtà è complessa e confligge anche con i buoni propositi. Possiamo solo condividere con Bauman che “il mondo globalizzato non conosce né la solidarietà, né la tradizione del villaggio, non possiede un centro e manca di integrità”, come ricorda Ladetto. Ed è vero che dalla “dilatazione globalista” dei confini ne nascono per reazione di nuovi: “localismi politici, etnicismi, fondamentalismi religiosi, ma anche i neo-tribalismi metropolitani”. E vediamo bene come diventa difficile mantenere saldi i principi di umanità e accoglienza di fronte a fenomeni epocali come l’esplosione demografica del Sud del mondo e le conseguenti migrazioni. È difficile organizzare accoglienza e integrazione sapendo che ci si deve scontrare con i limiti del possibile, che sono inferiori alle necessità. Molto più semplice è invece dare seguito alle preoccupazioni, alle paure o agli egoismi, e invocare l’innalzamento di muri sui confini.
Ma su questo tema non posso che rimandare al sempre attuale documento che noi Popolari piemontesi abbiamo elaborato un paio di anni fa.
Vale invece la pena ribadire ancora che non trovo contrapposizione tra chi vede la persona umana al centro di un umanesimo senza confini e chi difende le identità culturali.
Non è l'omologazione (l’inglese, la Coca Cola, le star planetarie, ecc.) ma all'opposto la diversità (la lingua nazionale e il dialetto, il vino locale, gli amici d’infanzia, ecc.) a dare valore all'umanesimo universale. Per fare un esempio chiarificatore, la forza del Made in Italy, un marchio a diffusione mondiale, sta nella miriade di produzioni locali tutelate e valorizzate. Allo stesso modo – da inguaribile sturziano – ritengo che la forza di uno Stato poggi sopra un equilibrato sistema di autonomie, democratiche e responsabili, incentrato sul municipio, l'ente più vicino al singolo cittadino e alla primitiva comunità locale. E non confondiamo il campanilismo, chiusura nel proprio ambito territoriale, con il municipalismo, apertura verso comunità con gli stessi intenti e gli stessi problemi. Allo stesso modo rifiutiamo un cosmopolitismo omologato e vuoto, ma auspichiamo una vera multiculturalità, che presuppone l’attenzione verso chi è diverso da noi. Se siamo eredi di una storia particolare e membri di una definita cultura, che è legittimo e anzi doveroso tutelare, non dobbiamo però chiuderci in noi stessi ma essere aperti al dialogo.
Chi crede nel valore della spiritualità, rispetta tutte le religioni e ne ricerca la reciproca conoscenza: nemici della spiritualità sono tanto il relativismo etico (proprio del liberismo ateo) quanto il fondamentalismo di chi pensa di possedere la verità. Chi crede nella libertà, sa che ne conseguono tanto i diritti – di cui tutti si riempiono la bocca – quanto i doveri – che pochi ricordano, come era solito fare Aldo Moro –. E sa che la libertà assoluta, all’insegna dell’individualismo liberista, si risolve a vantaggio di pochi in società globalizzate, come se fossimo in una giungla: lì tutti sono liberi, ma soggetti alla legge del più forte o del più astuto. Doti che nella società umana si sommano: è l’eterno Machiavelli a ricordarci che per primeggiare “bisogna adunque essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi”.
Certamente oggi è più difficile che in passato individuare volpi e leoni, dato che il potere , come la ricchezza, ha assunto forme smaterializzate e lontane, dominanti nei mass media. Conviene riprendere lo studio dei fondamenti della politica, che è l’arte della civile convivenza.
Grazie quindi a Beppe Ladetto per averci aiutato a recuperare il corretto concetto di “confine”. Nell’antichità i confini erano spesso fissati lungo fiumi impetuosi, barriere naturali difficili da oltrepassare. Solo avendo chiaro cos’è un limite, possiamo anche valorizzare e apprezzare il concetto di “ponte”. I popoli che si fermano ad una politica che esalta i confini ma resta incapace di costruire ponti, sono destinati a ripiombare in un nuovo, oscuro medioevo.
Il confine in sé non è una cosa cattiva, come non lo è il diritto di proprietà. Tutti diamo per scontato che in casa nostra facciamo entrare solo chi vogliamo e che gli ospiti devono rispettarne le regole. Diversa, tra i proprietari, è la volontà/capacità di accogliere: c’è chi si rinchiude nel bunker, c’è chi apre la propria dimora agli amici e, all’occorrenza, a chi ha bisogno di riparo.
Non tutte le persone, non tutte le popolazioni sono egualmente ospitali, e tutti ne abbiamo consapevolezza, senza che mi attardi in esempi. Tra “chiusura” e “apertura” verso “l’altro da sé” c’è una disputa filosofica che riguarda l’essenza stessa dell’uomo. Ladetto aderisce alla teoria che risale ad Aristotele, ritenendo la nostra specie “costitutivamente sociale”. Siamo nell’eterna contrapposizione tra homo homini lupus e homo homini deo, mai veramente risolta, dato che il libero arbitrio permette sempre all’uomo di scegliere tra il bene e il male, tra la prevaricazione e la collaborazione con i suoi simili. Vorrei poi sottolineare l’amara considerazione di Ladetto sugli animali, che “difendono lo spazio loro indispensabile per sopravvivere”, mentre “gli umani tendono a conquistare territorio per sottomettere e sfruttare altri membri della propria specie”. E anche la condanna dell’individualismo sfrenato della nostra epoca: che questo frutto dell’ultimo liberismo selvaggio, in aggiunta alla brama di potere e ricchezza sempre esistite, abbia creato una serie di guasti sociali e politici, è tanto evidente da non richiedere aggiunte.
Dove però vorrei approfondire il pensiero di Ladetto è per contestare la presunta dicotomia tra l’identità, il senso di appartenenza a una comunità, e il considerarsi “cittadini del mondo”. Premetto che a questo titolo sono particolarmente legato perché da assessore lo scelsi oltre vent’anni fa per una iniziativa di educazione alla cittadinanza e alla multiculturalità realizzata nelle scuole del mio Comune in collaborazione con Amnesty International. Certo, il “cittadino del mondo” che avevamo – e ho tuttora – in mente, non è lo yuppie descritto da Bauman e Lasch, il ricco cosmopolita slegato da ogni comunità territoriale, spinto a muoversi alla ricerca di sempre migliori opportunità.
Il mio “cittadino del mondo” è colei/colui che ritiene tutti gli altri individui del pianeta simili a sé: diversi per colore della pelle, lingua, religione, usi e costumi, ma accomunati dal provare la stessa gioia per la nascita di un figlio e lo stesso dolore per la perdita di una persona cara, la stessa paura per la malattia, la guerra e il terremoto, dall’avere la stessa speranza in un futuro sereno, lo stesso desiderio di una famiglia, dei figli, di un lavoro gratificante o almeno dignitoso. Insomma, ogni individuo è sì unico e irripetibile – cosa di cui tendiamo a dimenticarci quando pensiamo alle moltitudini con gli occhi a mandorla o quando vediamo un barcone zeppo di giovani migranti neri “tutti uguali” – ma, nello stesso tempo, ci possiamo tutti considerare figli dello stesso pianeta o, per i credenti, di un unico Dio. Questa “eguaglianza umana”, questo “umanesimo” che porta a vedere in ciascuno il “prossimo” dell’insegnamento evangelico, ha ispirato i principi fissati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Proprio la dignità della persona umana, la sua tutela, può e deve rappresentare il collante universale tra individui e nazioni.
Poi la realtà è complessa e confligge anche con i buoni propositi. Possiamo solo condividere con Bauman che “il mondo globalizzato non conosce né la solidarietà, né la tradizione del villaggio, non possiede un centro e manca di integrità”, come ricorda Ladetto. Ed è vero che dalla “dilatazione globalista” dei confini ne nascono per reazione di nuovi: “localismi politici, etnicismi, fondamentalismi religiosi, ma anche i neo-tribalismi metropolitani”. E vediamo bene come diventa difficile mantenere saldi i principi di umanità e accoglienza di fronte a fenomeni epocali come l’esplosione demografica del Sud del mondo e le conseguenti migrazioni. È difficile organizzare accoglienza e integrazione sapendo che ci si deve scontrare con i limiti del possibile, che sono inferiori alle necessità. Molto più semplice è invece dare seguito alle preoccupazioni, alle paure o agli egoismi, e invocare l’innalzamento di muri sui confini.
Ma su questo tema non posso che rimandare al sempre attuale documento che noi Popolari piemontesi abbiamo elaborato un paio di anni fa.
Vale invece la pena ribadire ancora che non trovo contrapposizione tra chi vede la persona umana al centro di un umanesimo senza confini e chi difende le identità culturali.
Non è l'omologazione (l’inglese, la Coca Cola, le star planetarie, ecc.) ma all'opposto la diversità (la lingua nazionale e il dialetto, il vino locale, gli amici d’infanzia, ecc.) a dare valore all'umanesimo universale. Per fare un esempio chiarificatore, la forza del Made in Italy, un marchio a diffusione mondiale, sta nella miriade di produzioni locali tutelate e valorizzate. Allo stesso modo – da inguaribile sturziano – ritengo che la forza di uno Stato poggi sopra un equilibrato sistema di autonomie, democratiche e responsabili, incentrato sul municipio, l'ente più vicino al singolo cittadino e alla primitiva comunità locale. E non confondiamo il campanilismo, chiusura nel proprio ambito territoriale, con il municipalismo, apertura verso comunità con gli stessi intenti e gli stessi problemi. Allo stesso modo rifiutiamo un cosmopolitismo omologato e vuoto, ma auspichiamo una vera multiculturalità, che presuppone l’attenzione verso chi è diverso da noi. Se siamo eredi di una storia particolare e membri di una definita cultura, che è legittimo e anzi doveroso tutelare, non dobbiamo però chiuderci in noi stessi ma essere aperti al dialogo.
Chi crede nel valore della spiritualità, rispetta tutte le religioni e ne ricerca la reciproca conoscenza: nemici della spiritualità sono tanto il relativismo etico (proprio del liberismo ateo) quanto il fondamentalismo di chi pensa di possedere la verità. Chi crede nella libertà, sa che ne conseguono tanto i diritti – di cui tutti si riempiono la bocca – quanto i doveri – che pochi ricordano, come era solito fare Aldo Moro –. E sa che la libertà assoluta, all’insegna dell’individualismo liberista, si risolve a vantaggio di pochi in società globalizzate, come se fossimo in una giungla: lì tutti sono liberi, ma soggetti alla legge del più forte o del più astuto. Doti che nella società umana si sommano: è l’eterno Machiavelli a ricordarci che per primeggiare “bisogna adunque essere golpe a conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi”.
Certamente oggi è più difficile che in passato individuare volpi e leoni, dato che il potere , come la ricchezza, ha assunto forme smaterializzate e lontane, dominanti nei mass media. Conviene riprendere lo studio dei fondamenti della politica, che è l’arte della civile convivenza.
Grazie quindi a Beppe Ladetto per averci aiutato a recuperare il corretto concetto di “confine”. Nell’antichità i confini erano spesso fissati lungo fiumi impetuosi, barriere naturali difficili da oltrepassare. Solo avendo chiaro cos’è un limite, possiamo anche valorizzare e apprezzare il concetto di “ponte”. I popoli che si fermano ad una politica che esalta i confini ma resta incapace di costruire ponti, sono destinati a ripiombare in un nuovo, oscuro medioevo.
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