Su “Avvenire” del 27 aprile scorso è comparsa una bella intervista di Diego Motta all’economista Stefano Zamagni, ex presidente dell'Agenzia per il Terzo settore e attuale presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali. La rilanciamo sottolineandone i passaggi sulla “guerra sociale oggi scatenata dai penultimi nei confronti degli ultimi” e sulla subdola politica di mettere sotto controllo il mondo del volontariato.
Segnatevi questa parola: aporofobia. «È una parola greca, vuol dire disprezzo del povero» spiega Stefano Zamagni, una vita spesa nello studio, nel racconto e nella testimonianza dell’economia civile. Un pezzo di storia del mondo del non profit, del Terzo settore e della cooperazione che guarda all’attuale fase storica, in Italia e non solo, con gli occhi dell’accademico e del nonno, oltre che del cattolico da sempre impegnato nella società civile.
«Non si era mai visto un conflitto del genere, si tratta di una novità ignota alle epoche precedenti» ammette quando gli si chiede conto della stagione che stiamo attraversando, dell’odio riversato sugli ultimi e della palese insofferenza nei confronti di chi, dal basso, prova a trovare soluzioni a misura d’uomo alla povertà, alle migrazioni, alla domanda di futuro dei più fragili.
«Attenzione, l’aporofobia non è un sentimento che nasce, come accadeva una volta, ai piani alti della società. Non siamo di fronte allo scontro classico tra chi sta molto bene e chi sta male. La guerra sociale oggi è stata scatenata dai penultimi nei confronti degli ultimi, perché le élite e i ricchi non hanno nulla da temere dalle politiche redistributive di cui parlano i governi. Da noi, in Italia e nell’Occidente, semmai è la classe media ad essere tornata indietro».
Per Zamagni, il disegno che sta prendendo forma è chiaro: è quello di una società civile che si vuole sempre più schiacciata tra le forze dello Stato e del mercato, nel nostro Paese, «è l’obiettivo non dichiarato di mettere sotto tutela gli enti del Terzo settore», in termini sia di fondi da utilizzare (sempre di meno) che di progetti da realizzare. «Per questo – spiega – è necessario che i cattolici, a cui è legato in termini ideali il 70% delle organizzazioni attualmente presenti nella società civile e nel volontariato, non si tirino più indietro, si assumano le loro responsabilità e comincino a fare massa critica per poter incidere sulle scelte che davvero contano».
Professor Zamagni, il mondo della solidarietà in Italia è sotto schiaffo. Perché?
Perché è diventato scomodo. Finché metteva delle pezze a un sistema che tutto sommato funzionava, andava benissimo e non dava fastidio a nessuno. Poi abbiamo assistito a una crescita endogena fortissima, dal basso, che ha dimostrato come a parità di risorse, questo settore possa moltiplicare ricchezza e capitale umano. A partire dagli anni Sessanta, questo mondo ha mostrato capacità di volare. È stato allora che il mondo della politica ha avuto paura.
Non è prima un problema culturale, piuttosto che politico?
Certo. Il popolo italiano è sempre stato conosciuto nel mondo per la sua capacità di entrare in sintonia con il prossimo, per la sua com-passione nei confronti degli ultimi. Ora invece si stanno diffondendo disprezzo e derisione: quando questo si insinua anche nelle scuole, poi ci vuole tanto tempo per correggere atteggiamenti sbagliati.
Quali sono gli aspetti di questa deriva che più la preoccupano?
Si sta togliendo l’erba sotto i piedi a un intero mondo, senza avere il coraggio di metterlo al bando. Ai tempi del fascismo, il problema non esisteva perché il terzo settore non c’era… ma si bruciavano lo stesso le sedi di chi era scomodo… Ora però non possiamo commettere l’errore storico di stare alla finestra e non denunciare quanto sta succedendo. Sarebbe come commettere un peccato di omissione. Concretamente: abbiamo assistito al balletto di inizio anno sull’IRES per il non profit, siamo ancora in attesa di una dozzina di decreti attuativi sulla riforma del terzo settore, il cui Consiglio nazionale è stato convocato per la prima volta settimana scorsa dal giugno 2018, quando per legge dovrebbe essere convocato invece ogni tre mesi. Di fatto, i fondi pubblici per il sociale vengono sottratti al terzo settore per essere poi reindirizzati allo Stato, mentre tra i provvedimenti che aspetta il mondo della cooperazione ci sono importanti strumenti di finanza sociale, dalle obbligazioni ai prestiti. È tutto fermo.
Forse negli anni è mancata un po’ di autocritica da parte del Terzo settore, che ha peccato di autoreferenzialità e non ha saputo individuare per tempo casi di malagestione.
Proprio questo è il problema. Servirebbe un Civil Compact in sede europea, un progetto sull’economia civile che guardi ai prossimi decenni, mettendo alla berlina chi ha sbagliato in questi anni. Da quando è nata un’intellighenzia del terzo settore, ripeto, la classe dirigente ha avuto paura che le si potesse sottrarre potere progressivamente. Il punto è che, essendosi spostato il conflitto tra classi sociali, il modello di ordine del passato non può più durare a lungo e le forze politiche attuali non sanno indicare la strada per trovare nuovi equilibri. Non abbiamo gli attrezzi giusti per affrontare questa nuova fase storica.
Come cambiare marcia, uscendo dalla sindrome possibile di una nuova “riserva indiana”?
La strategia non deve essere riformista, perché le riforme hanno il respiro corto. I cattolici ascoltino papa Francesco: serve una trasformazione complessiva del sistema, bisogna cambiarne le fondamenta e l’impianto. L’associazionismo non può fare solo diagnosi, servono terapie. Di più: il frazionismo fa male, soprattutto adesso che è evidente la strategia portata avanti per diminuire la presenza dei cattolici nel terzo settore e non solo.
Sta dicendo che, per superare la stagione del rancore e dell’offensiva contro le realtà che fanno solidarietà concreta, occorre rilanciare l’impegno diretto in politica dei cattolici?
Certo. Oggi come non mai servono i De Gasperi, non i politicanti. Occorrono nuove forze politiche e il mondo cattolico ha tutto il potenziale necessario per realizzare la trasformazione epocale evocata da Francesco. La strategia della polverizzazione e della diaspora ha fatto dei cattolici come delle reclute di questo o quel gruppo. È giunta l’ora di creare al contrario massa critica, per essere finalmente incisivi. Uno spostamento degli equilibri potrebbe avere effetti benefici anche sul Terzo settore messo oggi alla berlina: se a questo mondo si togliessero i pesi che si stanno mettendo ora, si attuerebbe davvero il principio di sussidiarietà.
Segnatevi questa parola: aporofobia. «È una parola greca, vuol dire disprezzo del povero» spiega Stefano Zamagni, una vita spesa nello studio, nel racconto e nella testimonianza dell’economia civile. Un pezzo di storia del mondo del non profit, del Terzo settore e della cooperazione che guarda all’attuale fase storica, in Italia e non solo, con gli occhi dell’accademico e del nonno, oltre che del cattolico da sempre impegnato nella società civile.
«Non si era mai visto un conflitto del genere, si tratta di una novità ignota alle epoche precedenti» ammette quando gli si chiede conto della stagione che stiamo attraversando, dell’odio riversato sugli ultimi e della palese insofferenza nei confronti di chi, dal basso, prova a trovare soluzioni a misura d’uomo alla povertà, alle migrazioni, alla domanda di futuro dei più fragili.
«Attenzione, l’aporofobia non è un sentimento che nasce, come accadeva una volta, ai piani alti della società. Non siamo di fronte allo scontro classico tra chi sta molto bene e chi sta male. La guerra sociale oggi è stata scatenata dai penultimi nei confronti degli ultimi, perché le élite e i ricchi non hanno nulla da temere dalle politiche redistributive di cui parlano i governi. Da noi, in Italia e nell’Occidente, semmai è la classe media ad essere tornata indietro».
Per Zamagni, il disegno che sta prendendo forma è chiaro: è quello di una società civile che si vuole sempre più schiacciata tra le forze dello Stato e del mercato, nel nostro Paese, «è l’obiettivo non dichiarato di mettere sotto tutela gli enti del Terzo settore», in termini sia di fondi da utilizzare (sempre di meno) che di progetti da realizzare. «Per questo – spiega – è necessario che i cattolici, a cui è legato in termini ideali il 70% delle organizzazioni attualmente presenti nella società civile e nel volontariato, non si tirino più indietro, si assumano le loro responsabilità e comincino a fare massa critica per poter incidere sulle scelte che davvero contano».
Professor Zamagni, il mondo della solidarietà in Italia è sotto schiaffo. Perché?
Perché è diventato scomodo. Finché metteva delle pezze a un sistema che tutto sommato funzionava, andava benissimo e non dava fastidio a nessuno. Poi abbiamo assistito a una crescita endogena fortissima, dal basso, che ha dimostrato come a parità di risorse, questo settore possa moltiplicare ricchezza e capitale umano. A partire dagli anni Sessanta, questo mondo ha mostrato capacità di volare. È stato allora che il mondo della politica ha avuto paura.
Non è prima un problema culturale, piuttosto che politico?
Certo. Il popolo italiano è sempre stato conosciuto nel mondo per la sua capacità di entrare in sintonia con il prossimo, per la sua com-passione nei confronti degli ultimi. Ora invece si stanno diffondendo disprezzo e derisione: quando questo si insinua anche nelle scuole, poi ci vuole tanto tempo per correggere atteggiamenti sbagliati.
Quali sono gli aspetti di questa deriva che più la preoccupano?
Si sta togliendo l’erba sotto i piedi a un intero mondo, senza avere il coraggio di metterlo al bando. Ai tempi del fascismo, il problema non esisteva perché il terzo settore non c’era… ma si bruciavano lo stesso le sedi di chi era scomodo… Ora però non possiamo commettere l’errore storico di stare alla finestra e non denunciare quanto sta succedendo. Sarebbe come commettere un peccato di omissione. Concretamente: abbiamo assistito al balletto di inizio anno sull’IRES per il non profit, siamo ancora in attesa di una dozzina di decreti attuativi sulla riforma del terzo settore, il cui Consiglio nazionale è stato convocato per la prima volta settimana scorsa dal giugno 2018, quando per legge dovrebbe essere convocato invece ogni tre mesi. Di fatto, i fondi pubblici per il sociale vengono sottratti al terzo settore per essere poi reindirizzati allo Stato, mentre tra i provvedimenti che aspetta il mondo della cooperazione ci sono importanti strumenti di finanza sociale, dalle obbligazioni ai prestiti. È tutto fermo.
Forse negli anni è mancata un po’ di autocritica da parte del Terzo settore, che ha peccato di autoreferenzialità e non ha saputo individuare per tempo casi di malagestione.
Proprio questo è il problema. Servirebbe un Civil Compact in sede europea, un progetto sull’economia civile che guardi ai prossimi decenni, mettendo alla berlina chi ha sbagliato in questi anni. Da quando è nata un’intellighenzia del terzo settore, ripeto, la classe dirigente ha avuto paura che le si potesse sottrarre potere progressivamente. Il punto è che, essendosi spostato il conflitto tra classi sociali, il modello di ordine del passato non può più durare a lungo e le forze politiche attuali non sanno indicare la strada per trovare nuovi equilibri. Non abbiamo gli attrezzi giusti per affrontare questa nuova fase storica.
Come cambiare marcia, uscendo dalla sindrome possibile di una nuova “riserva indiana”?
La strategia non deve essere riformista, perché le riforme hanno il respiro corto. I cattolici ascoltino papa Francesco: serve una trasformazione complessiva del sistema, bisogna cambiarne le fondamenta e l’impianto. L’associazionismo non può fare solo diagnosi, servono terapie. Di più: il frazionismo fa male, soprattutto adesso che è evidente la strategia portata avanti per diminuire la presenza dei cattolici nel terzo settore e non solo.
Sta dicendo che, per superare la stagione del rancore e dell’offensiva contro le realtà che fanno solidarietà concreta, occorre rilanciare l’impegno diretto in politica dei cattolici?
Certo. Oggi come non mai servono i De Gasperi, non i politicanti. Occorrono nuove forze politiche e il mondo cattolico ha tutto il potenziale necessario per realizzare la trasformazione epocale evocata da Francesco. La strategia della polverizzazione e della diaspora ha fatto dei cattolici come delle reclute di questo o quel gruppo. È giunta l’ora di creare al contrario massa critica, per essere finalmente incisivi. Uno spostamento degli equilibri potrebbe avere effetti benefici anche sul Terzo settore messo oggi alla berlina: se a questo mondo si togliessero i pesi che si stanno mettendo ora, si attuerebbe davvero il principio di sussidiarietà.
Se oggi più che mai servono i De Gasperi e non i politicanti e se il mondo cattolico ha tutto il potenziale necessario perché nulla si muove? Perché questo senso di apatica inerzia in campo politico? E poi dove si vede qualche personalità capace di una tale iniziativa?
Sono convinto, non da oggi, della necessità per i cattolici di riprendere una iniziativa diretta in campo politico. Certamente per i motivi addotti da Zamagni, ma anche per senso di responsabilità. Sarebbe gravemente colpevole (e in quanto credenti un peccato di omissione) lasciare che si disperda quel patrimonio prezioso che la storia del movimento cattolico ci ha lasciato in eredità.