Quando tra uno o due secoli gli storici si domanderanno perché l’esperimento dell’Unione Europea non decollò nei primi anni del Terzo millennio, troveranno un interessante materiale per rispondere in questo articolo che “Il Corriere della Sera” ha pubblicato lo scorso 25 aprile. Non sempre le opinioni di Galli della Loggia collimano con le nostre, ma questa volta l’identità di vedute è totale, e rilanciamo volentieri il suo intervento.
È bastato l’incendio — per fortuna solo parziale — della cattedrale di Notre-Dame per far emergere in pieno la schizofrenia ideologica e l’incertezza culturale delle classi colte e dirigenti dell’Europa. Cioè la causa forse principale della paralisi che da anni impedisce all’Unione Europea di diventare un vero soggetto politico.
Le fiamme non erano ancor spente e già si levava un coro praticamente unanime. «Era una parte di noi, era la nostra storia, la nostra letteratura, il nostro immaginario, una parte del destino francese» dichiarava Emmanuel Macron; gli faceva eco all’altro capo dello schieramento politico, con toni lirici, Jean-Luc Mélenchon, capo del partito della sinistra radicale La France insoumise, laicissimo e massone (notazione non irrilevante che traggo da “Le Monde” che giustamente la fornisce): «Questo edificio è un membro della nostra famiglia, la nostra cattedrale comune, il vascello, la navata che tutti ci porta sui flutti del tempo».
Anche in casa nostra politici e commentatori si sono riconosciuti tutti sull’identica linea senza distinzione di orientamento politico. E così abbiamo letto che a Notre-Dame abitava «l’anima dell’Europa», che «la modernità» comincia dalla cattedrale «che diventa spazio pubblico, centro culturale, polo di aggregazione». Non solo: che il drammatico evento parigino rivelava «un sentimento comune di appartenenza», «energie nascoste», che faceva sentire «più uniti» perché rivelava a noi stessi che «condividiamo storia, cultura e religione».
Tutto sacrosantamente vero: chiamato a commentare non avrei certo scritto cose diverse. Si pone però una non trascurabile questione, o meglio se ne pongono due.
Primo: l’insieme delle considerazioni e affermazioni suddette e mille altre analoghe ascoltate e lette in questi giorni non alludono forse — e neppure troppo velatamente, direi anzi con grande passione argomentativa — all’esistenza di una cosa che si chiama identità?
Secondo: tale identità non si rivela forse a chiare lettere essere un’identità cristiana?
Già. Il fatto è però, come si sa, che queste due parole, «identità cristiana», costituiscono un non dicibile per il discorso pubblico dell’Europa ufficiale. Per il mainstream politico-culturale del nostro continente, per la politica e per gli intellettuali che contano, per i media che ne seguono l’orientamento, grava su di esse l’interdetto del Politicamente Corretto. Non per nulla quando una quindicina di anni fa, nella premessa a un progetto di Costituzione della Ue molti proposero di menzionare tra le radici spirituali della nuova entità che si voleva fondare, accanto al retaggio greco-romano e all’Illuminismo, anche le «radici cristiane», si assistette a una vera levata di scudi. Invocando l’imprescindibile spirito laico, la complessità della storia non racchiudibile in formule, e mille altri motivi, fioccarono dubbi, cavilli e obiezioni di ogni tipo. Finché, per non dispiacere ai nostri amici ebrei (che certamente, peraltro, non se ne sarebbero affatto dispiaciuti) ma specialmente per non irritare troppo i notoriamente irritabilissimi nostri vicini e ospiti musulmani, si concluse di non farne nulla. Sostenuta da una vasta opinione di colti, l’assemblea dei costituenti decretò che l’Europa non aveva radici storico-culturali (o non poteva dire di averne), e che già solo evocare la dimensione dell’identità era qualcosa di non inclusivo, tendenzialmente razzista; pensare addirittura di accennarne nella Costituzione una pretesa irricevibile.
Quando si dice il distacco delle élite dalla gente comune: tanto più quando forse in cuor loro le prime sanno bene come stanno le cose. Sanno bene, cioè, di essersi piegate a un conformismo diffuso, a un irenismo fondato sull’automortificazione che esse stesse hanno contribuito a radicare. L’incendio di Notre-Dame ha funzionato però da detonatore del deposito di materiale emotivo silenziosamente accumulatosi per anni in seguito alle centinaia di morti e feriti prodotti dagli attentati islamisti, alle decapitazioni e agli altri orrori dell’Isis. Non c’è nulla come la percezione prolungata della presenza del pericolo e di un nemico per rendere coscienti della propria identità e per sentire il bisogno di manifestarla. Certo, le fiamme di Parigi sono state dovute a un incidente, ma è bastata la minaccia di vedere in cenere una delle icone della cristianità del continente perché in una vasta parte dell’opinione pubblica europea si verificasse una reazione al di là di ogni tradizionale divisione politica o confessionale. Un sussulto di autocoscienza identitaria: «Siamo questa cosa qui, questo luogo, anche questa chiesa, e non siamo disposti a rinnegare ciò che siamo».
Senza alcuna iattanza ma pure senza alcuna esitazione. Mostrando però fino a qual punto si era andato formando nell’uomo della strada europeo un sentire comune, un viluppo sentimentale e psicologico, lontani anni luce dalle idee correnti e dai pregiudizi delle élite politiche e mediatico-culturali. Le quali, peraltro, dando prova più che di opportunismo di un’impressionante schizofrenia si sono immediatamente adeguate. Quasi sempre le stesse che sulla Costituzione della UE erano convinte che non si dovesse dire una parola sulle «radici cristiane», quasi sempre le stesse che erano andate avanti per anni bruciando granelli d’incenso sull’altare della «laicità» o predicando la necessità del rifiuto assoluto di qualsiasi tematica identitaria, si sono improvvisamente messe a declamare sulla centralità della tradizione religiosa per il nostro passato e il nostro presente.
Di ogni giusto ripensamento non c’è che da rallegrarsi, naturalmente. È inevitabile chiedersi tuttavia se potrà mai essere una tale classe politico-intellettuale, così malcerta delle proprie convinzioni e così pronta ad allinearsi al mutare dello spirito pubblico, quella che riuscirà nell’ardua impresa di costruire un giorno la patria europea.
È bastato l’incendio — per fortuna solo parziale — della cattedrale di Notre-Dame per far emergere in pieno la schizofrenia ideologica e l’incertezza culturale delle classi colte e dirigenti dell’Europa. Cioè la causa forse principale della paralisi che da anni impedisce all’Unione Europea di diventare un vero soggetto politico.
Le fiamme non erano ancor spente e già si levava un coro praticamente unanime. «Era una parte di noi, era la nostra storia, la nostra letteratura, il nostro immaginario, una parte del destino francese» dichiarava Emmanuel Macron; gli faceva eco all’altro capo dello schieramento politico, con toni lirici, Jean-Luc Mélenchon, capo del partito della sinistra radicale La France insoumise, laicissimo e massone (notazione non irrilevante che traggo da “Le Monde” che giustamente la fornisce): «Questo edificio è un membro della nostra famiglia, la nostra cattedrale comune, il vascello, la navata che tutti ci porta sui flutti del tempo».
Anche in casa nostra politici e commentatori si sono riconosciuti tutti sull’identica linea senza distinzione di orientamento politico. E così abbiamo letto che a Notre-Dame abitava «l’anima dell’Europa», che «la modernità» comincia dalla cattedrale «che diventa spazio pubblico, centro culturale, polo di aggregazione». Non solo: che il drammatico evento parigino rivelava «un sentimento comune di appartenenza», «energie nascoste», che faceva sentire «più uniti» perché rivelava a noi stessi che «condividiamo storia, cultura e religione».
Tutto sacrosantamente vero: chiamato a commentare non avrei certo scritto cose diverse. Si pone però una non trascurabile questione, o meglio se ne pongono due.
Primo: l’insieme delle considerazioni e affermazioni suddette e mille altre analoghe ascoltate e lette in questi giorni non alludono forse — e neppure troppo velatamente, direi anzi con grande passione argomentativa — all’esistenza di una cosa che si chiama identità?
Secondo: tale identità non si rivela forse a chiare lettere essere un’identità cristiana?
Già. Il fatto è però, come si sa, che queste due parole, «identità cristiana», costituiscono un non dicibile per il discorso pubblico dell’Europa ufficiale. Per il mainstream politico-culturale del nostro continente, per la politica e per gli intellettuali che contano, per i media che ne seguono l’orientamento, grava su di esse l’interdetto del Politicamente Corretto. Non per nulla quando una quindicina di anni fa, nella premessa a un progetto di Costituzione della Ue molti proposero di menzionare tra le radici spirituali della nuova entità che si voleva fondare, accanto al retaggio greco-romano e all’Illuminismo, anche le «radici cristiane», si assistette a una vera levata di scudi. Invocando l’imprescindibile spirito laico, la complessità della storia non racchiudibile in formule, e mille altri motivi, fioccarono dubbi, cavilli e obiezioni di ogni tipo. Finché, per non dispiacere ai nostri amici ebrei (che certamente, peraltro, non se ne sarebbero affatto dispiaciuti) ma specialmente per non irritare troppo i notoriamente irritabilissimi nostri vicini e ospiti musulmani, si concluse di non farne nulla. Sostenuta da una vasta opinione di colti, l’assemblea dei costituenti decretò che l’Europa non aveva radici storico-culturali (o non poteva dire di averne), e che già solo evocare la dimensione dell’identità era qualcosa di non inclusivo, tendenzialmente razzista; pensare addirittura di accennarne nella Costituzione una pretesa irricevibile.
Quando si dice il distacco delle élite dalla gente comune: tanto più quando forse in cuor loro le prime sanno bene come stanno le cose. Sanno bene, cioè, di essersi piegate a un conformismo diffuso, a un irenismo fondato sull’automortificazione che esse stesse hanno contribuito a radicare. L’incendio di Notre-Dame ha funzionato però da detonatore del deposito di materiale emotivo silenziosamente accumulatosi per anni in seguito alle centinaia di morti e feriti prodotti dagli attentati islamisti, alle decapitazioni e agli altri orrori dell’Isis. Non c’è nulla come la percezione prolungata della presenza del pericolo e di un nemico per rendere coscienti della propria identità e per sentire il bisogno di manifestarla. Certo, le fiamme di Parigi sono state dovute a un incidente, ma è bastata la minaccia di vedere in cenere una delle icone della cristianità del continente perché in una vasta parte dell’opinione pubblica europea si verificasse una reazione al di là di ogni tradizionale divisione politica o confessionale. Un sussulto di autocoscienza identitaria: «Siamo questa cosa qui, questo luogo, anche questa chiesa, e non siamo disposti a rinnegare ciò che siamo».
Senza alcuna iattanza ma pure senza alcuna esitazione. Mostrando però fino a qual punto si era andato formando nell’uomo della strada europeo un sentire comune, un viluppo sentimentale e psicologico, lontani anni luce dalle idee correnti e dai pregiudizi delle élite politiche e mediatico-culturali. Le quali, peraltro, dando prova più che di opportunismo di un’impressionante schizofrenia si sono immediatamente adeguate. Quasi sempre le stesse che sulla Costituzione della UE erano convinte che non si dovesse dire una parola sulle «radici cristiane», quasi sempre le stesse che erano andate avanti per anni bruciando granelli d’incenso sull’altare della «laicità» o predicando la necessità del rifiuto assoluto di qualsiasi tematica identitaria, si sono improvvisamente messe a declamare sulla centralità della tradizione religiosa per il nostro passato e il nostro presente.
Di ogni giusto ripensamento non c’è che da rallegrarsi, naturalmente. È inevitabile chiedersi tuttavia se potrà mai essere una tale classe politico-intellettuale, così malcerta delle proprie convinzioni e così pronta ad allinearsi al mutare dello spirito pubblico, quella che riuscirà nell’ardua impresa di costruire un giorno la patria europea.
Nel suo articolo E. Galli Della Loggia sottolinea come, storicamente, l’identità europea sia un’identità cristiana.
E rivolge i suoi rilievi critici contro “il mainstream politico-culturale, gli intellettuali che contano, i media che ne seguono l’orientamento. Insomma le élite si sono palesemente dimostrate distanti dalla gente comune”.
Sempre secondo l’autore vasta parte dell’opinione pubblica europea, di fronte alla tragedia di Nôtre Dâme, avrebbe dimostrato un sussulto di autocoscienza identitaria, mostrando fino a qual punto si era andato formando nell’uomo della strada europeo un sentire comune” che sembrerebbe il riverbero, il riflesso di un lontano ascendente di cristiana religiosità.
Ma è proprio così? Mi limito ad osservare la situazione, il clima sociale diffuso nel nostro Paese. A me pare oltremodo difficile individuare in esso, anche solo lontanamente, dei tratti che rimandino ad un riferimento, per quanto debole, di religiosità cristiana. Sarebbe troppo lungo elencare i fatti quotidiani che, credo, si possano qualificare di ordinaria follia. Madri che uccidono i figli e il marito o il marito che uccide figli e moglie. E poi magari si suicida. Figli che uccidono i genitori. L’elenco sembra interminabile per quantità e varianti possibili. Senza parlare della “mala politica”.
Don Gennaro Matino in un articolo “La fine del Cristianesimo (Huffingtonpost 06/08/2018) asseriva: Ė inutile girarci intorno: gli Italiani non sono più cristiani, tantomeno cattolici. Se qualche volta ricordi loro il Vangelo e che non c’è, non ci dovrebbe essere differenza tra fede professata e vita vissuta, ti tacciano per uno del Pd, per uno squadrista comunista”.
Perché non riconoscere apertamente che la religione cristiana, il cattolicesimo ha perso la sua capacità formativa delle coscienze? O, forse, sarebbe meglio dire che l’uomo comune, non che essere caratterizzato da un sentire comune, non sembra più essere interessato al problema religioso?
Quel sentire comune evocato da Galli Della Loggia sembra allora più una reazione emotiva momentanea.
Chesterton ammoniva che quando gli uomini smettono di credere in Dio, non è che non credono più a niente, credono a tutto. Se è così non basterà invocare una sorta di religione civile su basi cristiane come pare di intuire fra le righe della riflessione di Galli Della Loggia. Il problema è più radicale. Chiama in causa, a mio parere, la stessa testimonianza di coloro che si dichiarano credenti. La loro, la nostra, capacità di “dare testimonianza alla speranza cui siamo stati chiamati”. Che poi si traduce in una capacità di discernimento, nel “sapere che le nostre azioni possono essere buone e cattive, (che) non tutto è uguale di ciò che facciamo, (che) neanche l’idea di valore sarebbe pensabile senza questa alternativa. Dunque il pensare che la nostra libertà abbia a che fare con una verità non minaccia, ma rinsalda il senso della vita sociale, poiché questa verità non si impone ma semplicemente si testimonia”. (Martinazzoli)
È un interrogativo angoscioso.
Nel 1938 un osservatore acuto è implacabile come Bernanos osservando la condizione dell’Europa stilava un giudizio, perentorio e conciso come un aforisma:
“La cristianità ha fatto l’Europa. La cristianità è morta. L’Europa sta per crepare, c’è niente di più semplice”?