Tutti i media cosiddetti “indipendenti” e gran parte dei commentatori politici evidenziano le incoerenze e le contraddizioni dei “sovranisti”. Nel mondo attuale, viene detto, è velleitario pensare di poter competere, come stato nazionale, con le grandi potenze (USA, Cina, Russia, India ecc.). In attesa dell'unione dell'Europa, occorre fare alleanze per non restare isolati, e queste devono essere fatte in base a comuni interessi e identiche concezioni delle istituzioni. I Paesi di Visegrad hanno interessi contrari a quelli italiani (non vogliono accogliere parte dei migranti che approdano nel nostro Paese; competono con il nostro meridione nella ripartizione dei fondi europei; favoriscono le delocalizzazioni delle nostre aziende fornendo ad esse sgravi fiscali e manodopera a basso costo, ecc.). La russofobia che caratterizza molti di tali Paesi non è compatibile con la tradizionale politica italiana (fatta propria anche dalla Lega) tesa a mantenere il dialogo e i rapporti economici-commerciali con il grande Paese dell'est. Inoltre, la democrazia illiberale, affermatasi nell'Europa orientale, non è un modello compatibile con la nostra storia e cultura istituzionale.
Sono tutte considerazioni ragionevoli, che tuttavia dovrebbero essere accompagnate da indicazioni in positivo di quello che dovrebbe essere un percorso alternativo. Non basta riproporre la continuità con tutto quanto è stato fatto fino ad oggi, in Italia e in Europa, da chi ha avuto in mano le leve del potere perché è proprio questa politica che ha condotto al fallimento evidente del cammino europeo.
E qui cominciano le note dolenti perché un'alternativa non può arrivare da semplici ritocchi a quanto fatto fino ad oggi. Infatti, il difetto sta nel manico, a cominciare dall'assenza di un'idea di che cosa debba essere l'organismo unitario europeo. Manca una definizione del suo confine geografico, culturale e politico.
Quello geografico negli anni è andato estendendosi, indebolendo sempre più gli elementi che potevano caratterizzare il profilo politico dell'unione; quello culturale non esiste perché il vertice comunitario (in nome del multiculturalismo e di un mondialismo cosmopolita) rifiuta ogni riferimento identitario europeo fondato su tradizioni ed elementi storico-culturali.
La continua polemica, da parte dell'establishment politico e intellettuale, nei confronti del sovranismo mette in risalto una evidente contraddizione. La sovranità è la condizione prima dell'esistenza di uno Stato. Essa può essere trasferita in varia misura a un'istituzione di ordine superiore che però deve possedere una propria sovranità od essere in grado di dotarsene. La sovranità implica piena autonomia in ambito politico, economico e militare (quest'ultimo essenziale per dare sostanza alle altre competenze), elementi di cui la UE è priva in larghissima misura.
Di fatto, ciò che viene chiesto ai Paesi europei non è una cessione di sovranità verso l'alto, ma una sostanziale perdita di sovranità in cambio di niente. Chi ne è il beneficiario? Un sistema di potere formato da un inestricabile intreccio di relazioni e interessi tra élite politica neoliberale, mondo della finanza, dell’economia e della comunicazione, ed apparati burocratici e militari. Gli Stati Uniti, come unica potenza di respiro globale, costituiscono il più compiuto interprete di questo sistema di potere che fino ad oggi, in una logica di tipo imperiale, hanno cercato di imporre a livello planetario. Quegli editorialisti e politici che hanno sempre in bocca la parola Europa, quando si misurano su tematiche inerenti a questioni internazionali, in specie se critiche, non fanno più riferimento ad essa, ma parlano solo più di Occidente, di interessi occidentali e di NATO, a dimostrazione del fatto che l'Europa quale soggetto politico non esiste.
In questa assenza di Europa, l'Italia, ci viene detto, dovrebbe evitare di stare in solitudine e cercare con altre Nazioni alleanze fondate su interessi convergenti. Trovare gli amici giusti non è semplice. A tal fine, abbiamo visto che i paesi di Visegrad non sono idonei. I rapporti con quelli di vecchia data, con cui sono stati fatti i primi passi della Comunità europea, oggi si presentano problematici. Tutti, nella sostanza, sono chiusi a qualsiasi ipotesi di condivisione dei migranti che approdano nel nostro Paese. La Francia non si è dimostrata nostra amica in Libia; inoltre, conquista le nostre aziende, ma è restia a lasciar entrare imprese italiane nell'esagono. La Germania impone una moneta forte, svantaggiosa per le economie deboli, e privilegia la esigenze delle proprie imprese senza curarsi d'altro.
In tale situazione, da molte parti viene riproposta la storica alleanza con la grande nazione americana, tuttavia i tempi sono cambiati. In primo luogo, tale alleanza non conduce verso l'Europa, ma ci allontana da essa perché sarebbe principalmente in funzione antitedesca. Inoltre, non è più il tempo della guerra fredda quando il quadro internazionale era semplice e l'Italia geograficamente occupava uno spazio strategico. Oggi, gli USA sembrano meno interessati al nostro Paese, mentre altri protagonisti si contendono la scena, sicché il quadro di insieme è diventato molto complicato e mobile. Così per scegliere dei partner, non si può più far solo riferimento ai legami di un passato sia pur ancora vicino, né a presunte affinità valoriali (l'Occidente, la liberaldemocrazia ecc.).
Il progetto europeo sembra aver imboccato un vicolo cieco, e certamente non bastano gli auspici, le esortazioni e i tanti buoni propositi per uscire da questa situazione di stallo. Forse, indicazioni utili ci possono venire da considerazioni di ordine geopolitico in grado di riportarci a un maggiore realismo. In materia, ci sono alcuni punti fermi da mettere in evidenza.
Gli Stati Uniti (chiunque ne sia al timone) sono totalmente ostili alla costruzione di un vero soggetto politico europeo capace di muoversi autonomamente nel quadro internazionale e faranno di tutto per impedirne la realizzazione.
Il Regno Unito sta dando una pessima immagine di sé non riuscendo a venire a capo della “Brexit”. È questo lo sbocco della posizione equivoca tenuta da sempre da un Paese che è entrato nella comunità per calcoli di solo interesse economico, ma che non ha mai voluto coinvolgersi seriamente nella costruzione di un progetto unitario europeo. Per secoli, l'obiettivo primario della Gran Bretagna è stato mantenere diviso il continente contrapponendosi ad ogni Stato potenzialmente nella condizione di esercitare un'egemonia. Anche i fautori del remain non sono in grado di dire che cosa vorrebbero fare in Europa e per quale Europa. Messa alle strette, la Gran Bretagna, non farà mai il passo di essere solo una componente di un'unione che non le consenta di esercitare un ruolo autonomo sulla scena internazionale. Inoltre, fra Europa ed America, sceglierà sempre quest'ultima. Chi spera in una ripresa del cammino europeo, invece di tifare per il remain, dovrebbe guardare con favore alla Brexit perché l'uscita del Regno Unito significa l'eliminazione di un grosso ostacolo su tale cammino.
Il gruppo di Visegrad (molto meno omogeneo e unito di quanto si creda), ritenendo (con l'eccezione dell'Ungheria) l'ostilità verso la Russia l'elemento prioritario della propria politica estera, e sempre sospettoso della Germania, rimarrà strettamente legato alle direttive USA, costituendo un impedimento a ogni iniziativa europea: infatti, il suo ingresso nell'Unione è stato imposto dagli Stati Uniti proprio con tale finalità. Tuttavia, se dovesse venire meno l'appoggio americano, detto gruppo si sfalderebbe. C'è poi l'intesa fra i Paesi nordici (Scandinavi più Estonia e Lettonia) che, nel nome di un rigorismo di impronta luterana, manifestano aperta ostilità nei confronti dell'Europa mediterranea creando ulteriori occasioni di frattura in seno alla UE.
Sul continente, la sola realizzazione che si è dimostrata apparentemente salda e capace di superare difficoltà e turbolenze resta il patto franco-tedesco. La sua tenuta è dimostrata dal non essersi mai indebolito anche quando ai vertici dei due Paesi si trovavano politici di diverso e talora contrapposto orientamento. A suo sostegno, ci sono la solidità dell'economia della Germania e il suo primato tecnologico, nonché la non trascurabile forza militare della Francia, la sua stabilità demografica, il potenziale della sua agricoltura (destinato a crescere di importanza in un mondo in cui per varie cause non si possono escludere crisi alimentari) e la forte presenza nell'Africa francofona.
Piaccia o meno, questo, al momento, sembra essere il solo nucleo credibile attorno a cui possano aggregarsi altri Paesi per dare vita un progetto europeo (l'Europa carolingia allargata), e ciò indipendentemente da chi sarà al governo dei due Stati (forse anche nel caso di populisti e sovranisti perché l'onda lunga della storia prevale sulle ideologie). Ne è controprova l'ostilità americana verso il patto, e in particolare verso la Germania che ne rappresenta il membro potenzialmente più forte. Come già detto, gli USA vedono negativamente ogni ipotesi di crescita di singole potenze europee o peggio di una vera unità politica del continente. Certo Trump ha messo in discussione il ruolo unipolare americano, ritenuto troppo oneroso per il popolo statunitense e sempre più difficile da mantenere, ma non vuole o non può riconoscere un interlocutore europeo autonomo e solido.
Una Europa carolingia ad egemonia franco-tedesca disconoscerebbe la pari dignità politica degli altri Paesi europei? Privilegerebbe gli interessi dei due Stati egemoni? Nella storia, quando una singola potenza ha avuto la capacità di riunire intorno a sé i Paesi affini confinanti, unificandone i territori, per un certo tempo ha esercitato una leadership e occupato una posizione privilegiata. Tuttavia, la creazione nel continente di un nucleo unitario e sovrano potrebbe far rinascere un orgoglio europeo importante per affrontare ogni tipo di difficoltà e creare coesione, superando le residue divisioni.
Denunciare la presenza ai vertici di Francia e Germania di una classe politica legata agli interessi del ceto altoborghese (ancorata a concezioni ordoliberali e monetariste) è una sufficiente motivazione per avversare l'Europa carolingia? Teniamo conto che le politiche economiche e gli interessi di classe possono essere passeggeri a fronte della creazione di un organismo unitario solido, capace di ridare fiducia e autostima ai cittadini europei.
Certamente sarebbe preferibile che l'attuale situazione di stallo venisse superata da un movimento dal basso che, nei vari paesi d'Europa (in particolare in quelli oggi più svantaggiati dalle politiche comunitarie), fosse in grado di riportare alle origini il cammino della costruzione europea. Tuttavia, non tenere conto dei rapporti di forza e del contesto geopolitico è irrealistico. I Paesi più deboli (fra i quali da anni c'è l'Italia, e più in generale quelli del sud Europa) subiscono le conseguenze delle altrui decisioni e non possono certo ribaltare la situazione.
Tuttavia, anche la riuscita del progetto carolingio non è scontata. Oltre all'opposizione americana, c'è quella dei Paesi europei che se ne sentono esclusi. Inoltre, è possibile che la Germania, sia pure in associazione con la Francia, si dimostri incapace di prendere le redini del processo unitario: infatti, è ancora condizionata da un senso di colpa per il passato nazista, e tende a rinchiudersi nella sola dimensione dell'economia, avendo timore di farsi carico di responsabilità politico-strategiche. Proprio da tale mancata assunzione di responsabilità (che significherebbe anche impegnarsi per la soluzione dei problemi degli altri Paesi) deriva quell'egoismo che ne caratterizza la sua attuale gretta visione economica della quale Angela Merckel è l'emblema.
Ricordiamoci l'esito della storia della Grecia antica con la continua conflittualità tra le poleis ed il rifiuto di accettare ogni potenza unificatrice. Sarebbe opportuno che l'Europa non ne seguisse l'esempio.
Sono tutte considerazioni ragionevoli, che tuttavia dovrebbero essere accompagnate da indicazioni in positivo di quello che dovrebbe essere un percorso alternativo. Non basta riproporre la continuità con tutto quanto è stato fatto fino ad oggi, in Italia e in Europa, da chi ha avuto in mano le leve del potere perché è proprio questa politica che ha condotto al fallimento evidente del cammino europeo.
E qui cominciano le note dolenti perché un'alternativa non può arrivare da semplici ritocchi a quanto fatto fino ad oggi. Infatti, il difetto sta nel manico, a cominciare dall'assenza di un'idea di che cosa debba essere l'organismo unitario europeo. Manca una definizione del suo confine geografico, culturale e politico.
Quello geografico negli anni è andato estendendosi, indebolendo sempre più gli elementi che potevano caratterizzare il profilo politico dell'unione; quello culturale non esiste perché il vertice comunitario (in nome del multiculturalismo e di un mondialismo cosmopolita) rifiuta ogni riferimento identitario europeo fondato su tradizioni ed elementi storico-culturali.
La continua polemica, da parte dell'establishment politico e intellettuale, nei confronti del sovranismo mette in risalto una evidente contraddizione. La sovranità è la condizione prima dell'esistenza di uno Stato. Essa può essere trasferita in varia misura a un'istituzione di ordine superiore che però deve possedere una propria sovranità od essere in grado di dotarsene. La sovranità implica piena autonomia in ambito politico, economico e militare (quest'ultimo essenziale per dare sostanza alle altre competenze), elementi di cui la UE è priva in larghissima misura.
Di fatto, ciò che viene chiesto ai Paesi europei non è una cessione di sovranità verso l'alto, ma una sostanziale perdita di sovranità in cambio di niente. Chi ne è il beneficiario? Un sistema di potere formato da un inestricabile intreccio di relazioni e interessi tra élite politica neoliberale, mondo della finanza, dell’economia e della comunicazione, ed apparati burocratici e militari. Gli Stati Uniti, come unica potenza di respiro globale, costituiscono il più compiuto interprete di questo sistema di potere che fino ad oggi, in una logica di tipo imperiale, hanno cercato di imporre a livello planetario. Quegli editorialisti e politici che hanno sempre in bocca la parola Europa, quando si misurano su tematiche inerenti a questioni internazionali, in specie se critiche, non fanno più riferimento ad essa, ma parlano solo più di Occidente, di interessi occidentali e di NATO, a dimostrazione del fatto che l'Europa quale soggetto politico non esiste.
In questa assenza di Europa, l'Italia, ci viene detto, dovrebbe evitare di stare in solitudine e cercare con altre Nazioni alleanze fondate su interessi convergenti. Trovare gli amici giusti non è semplice. A tal fine, abbiamo visto che i paesi di Visegrad non sono idonei. I rapporti con quelli di vecchia data, con cui sono stati fatti i primi passi della Comunità europea, oggi si presentano problematici. Tutti, nella sostanza, sono chiusi a qualsiasi ipotesi di condivisione dei migranti che approdano nel nostro Paese. La Francia non si è dimostrata nostra amica in Libia; inoltre, conquista le nostre aziende, ma è restia a lasciar entrare imprese italiane nell'esagono. La Germania impone una moneta forte, svantaggiosa per le economie deboli, e privilegia la esigenze delle proprie imprese senza curarsi d'altro.
In tale situazione, da molte parti viene riproposta la storica alleanza con la grande nazione americana, tuttavia i tempi sono cambiati. In primo luogo, tale alleanza non conduce verso l'Europa, ma ci allontana da essa perché sarebbe principalmente in funzione antitedesca. Inoltre, non è più il tempo della guerra fredda quando il quadro internazionale era semplice e l'Italia geograficamente occupava uno spazio strategico. Oggi, gli USA sembrano meno interessati al nostro Paese, mentre altri protagonisti si contendono la scena, sicché il quadro di insieme è diventato molto complicato e mobile. Così per scegliere dei partner, non si può più far solo riferimento ai legami di un passato sia pur ancora vicino, né a presunte affinità valoriali (l'Occidente, la liberaldemocrazia ecc.).
Il progetto europeo sembra aver imboccato un vicolo cieco, e certamente non bastano gli auspici, le esortazioni e i tanti buoni propositi per uscire da questa situazione di stallo. Forse, indicazioni utili ci possono venire da considerazioni di ordine geopolitico in grado di riportarci a un maggiore realismo. In materia, ci sono alcuni punti fermi da mettere in evidenza.
Gli Stati Uniti (chiunque ne sia al timone) sono totalmente ostili alla costruzione di un vero soggetto politico europeo capace di muoversi autonomamente nel quadro internazionale e faranno di tutto per impedirne la realizzazione.
Il Regno Unito sta dando una pessima immagine di sé non riuscendo a venire a capo della “Brexit”. È questo lo sbocco della posizione equivoca tenuta da sempre da un Paese che è entrato nella comunità per calcoli di solo interesse economico, ma che non ha mai voluto coinvolgersi seriamente nella costruzione di un progetto unitario europeo. Per secoli, l'obiettivo primario della Gran Bretagna è stato mantenere diviso il continente contrapponendosi ad ogni Stato potenzialmente nella condizione di esercitare un'egemonia. Anche i fautori del remain non sono in grado di dire che cosa vorrebbero fare in Europa e per quale Europa. Messa alle strette, la Gran Bretagna, non farà mai il passo di essere solo una componente di un'unione che non le consenta di esercitare un ruolo autonomo sulla scena internazionale. Inoltre, fra Europa ed America, sceglierà sempre quest'ultima. Chi spera in una ripresa del cammino europeo, invece di tifare per il remain, dovrebbe guardare con favore alla Brexit perché l'uscita del Regno Unito significa l'eliminazione di un grosso ostacolo su tale cammino.
Il gruppo di Visegrad (molto meno omogeneo e unito di quanto si creda), ritenendo (con l'eccezione dell'Ungheria) l'ostilità verso la Russia l'elemento prioritario della propria politica estera, e sempre sospettoso della Germania, rimarrà strettamente legato alle direttive USA, costituendo un impedimento a ogni iniziativa europea: infatti, il suo ingresso nell'Unione è stato imposto dagli Stati Uniti proprio con tale finalità. Tuttavia, se dovesse venire meno l'appoggio americano, detto gruppo si sfalderebbe. C'è poi l'intesa fra i Paesi nordici (Scandinavi più Estonia e Lettonia) che, nel nome di un rigorismo di impronta luterana, manifestano aperta ostilità nei confronti dell'Europa mediterranea creando ulteriori occasioni di frattura in seno alla UE.
Sul continente, la sola realizzazione che si è dimostrata apparentemente salda e capace di superare difficoltà e turbolenze resta il patto franco-tedesco. La sua tenuta è dimostrata dal non essersi mai indebolito anche quando ai vertici dei due Paesi si trovavano politici di diverso e talora contrapposto orientamento. A suo sostegno, ci sono la solidità dell'economia della Germania e il suo primato tecnologico, nonché la non trascurabile forza militare della Francia, la sua stabilità demografica, il potenziale della sua agricoltura (destinato a crescere di importanza in un mondo in cui per varie cause non si possono escludere crisi alimentari) e la forte presenza nell'Africa francofona.
Piaccia o meno, questo, al momento, sembra essere il solo nucleo credibile attorno a cui possano aggregarsi altri Paesi per dare vita un progetto europeo (l'Europa carolingia allargata), e ciò indipendentemente da chi sarà al governo dei due Stati (forse anche nel caso di populisti e sovranisti perché l'onda lunga della storia prevale sulle ideologie). Ne è controprova l'ostilità americana verso il patto, e in particolare verso la Germania che ne rappresenta il membro potenzialmente più forte. Come già detto, gli USA vedono negativamente ogni ipotesi di crescita di singole potenze europee o peggio di una vera unità politica del continente. Certo Trump ha messo in discussione il ruolo unipolare americano, ritenuto troppo oneroso per il popolo statunitense e sempre più difficile da mantenere, ma non vuole o non può riconoscere un interlocutore europeo autonomo e solido.
Una Europa carolingia ad egemonia franco-tedesca disconoscerebbe la pari dignità politica degli altri Paesi europei? Privilegerebbe gli interessi dei due Stati egemoni? Nella storia, quando una singola potenza ha avuto la capacità di riunire intorno a sé i Paesi affini confinanti, unificandone i territori, per un certo tempo ha esercitato una leadership e occupato una posizione privilegiata. Tuttavia, la creazione nel continente di un nucleo unitario e sovrano potrebbe far rinascere un orgoglio europeo importante per affrontare ogni tipo di difficoltà e creare coesione, superando le residue divisioni.
Denunciare la presenza ai vertici di Francia e Germania di una classe politica legata agli interessi del ceto altoborghese (ancorata a concezioni ordoliberali e monetariste) è una sufficiente motivazione per avversare l'Europa carolingia? Teniamo conto che le politiche economiche e gli interessi di classe possono essere passeggeri a fronte della creazione di un organismo unitario solido, capace di ridare fiducia e autostima ai cittadini europei.
Certamente sarebbe preferibile che l'attuale situazione di stallo venisse superata da un movimento dal basso che, nei vari paesi d'Europa (in particolare in quelli oggi più svantaggiati dalle politiche comunitarie), fosse in grado di riportare alle origini il cammino della costruzione europea. Tuttavia, non tenere conto dei rapporti di forza e del contesto geopolitico è irrealistico. I Paesi più deboli (fra i quali da anni c'è l'Italia, e più in generale quelli del sud Europa) subiscono le conseguenze delle altrui decisioni e non possono certo ribaltare la situazione.
Tuttavia, anche la riuscita del progetto carolingio non è scontata. Oltre all'opposizione americana, c'è quella dei Paesi europei che se ne sentono esclusi. Inoltre, è possibile che la Germania, sia pure in associazione con la Francia, si dimostri incapace di prendere le redini del processo unitario: infatti, è ancora condizionata da un senso di colpa per il passato nazista, e tende a rinchiudersi nella sola dimensione dell'economia, avendo timore di farsi carico di responsabilità politico-strategiche. Proprio da tale mancata assunzione di responsabilità (che significherebbe anche impegnarsi per la soluzione dei problemi degli altri Paesi) deriva quell'egoismo che ne caratterizza la sua attuale gretta visione economica della quale Angela Merckel è l'emblema.
Ricordiamoci l'esito della storia della Grecia antica con la continua conflittualità tra le poleis ed il rifiuto di accettare ogni potenza unificatrice. Sarebbe opportuno che l'Europa non ne seguisse l'esempio.
Triste ma lucida analisi sulla situazione politica-economica della nostra bella Europa. Tutto il sogno è stato reso impossibile per colpa dei francesi che hanno bocciato la firma della Costituzione Europea e poi hanno favorito l’ingresso dei paesi dell’Est con parità di voto. Siamo messi molto male giacché la nuova politica degli Usa tende dichiaratamente a schiavizzare questa debole Europa prima dal punto di vista economico e poi da quello politico. Ladetto ha ragione: è meglio che il “cavallo di Troia degli americani” quale è la Gran Bretagna se ne vada via al più presto dalla UE.
Mentre, giustamente, si discute di come tener viva la tradizione del popolarismo anche dal punto di vista formale, sono articoli come questo di Ladetto, che incarnano e attualizzano tale storia e cultura politica in modo esemplare.
La sua è un’analisi nel merito dei problemi dell’Europa senza sconti per nessuno.
L’ipotesi che egli indica quasi come male minore per dare un futuro all’integrazione europea, quella del motore franco-tedesco, mi pare meriti un’attenta discussione.
Va considerato che tale asse è franco-tedesco solo di nome, ma di fatto è la via sulla quale siamo, tragicamente, incamminati in questo secolo: la via dell’UE tedesca.
Esponenti di primo piano della politica tedesca, come la presidente della Cdu, Annegret Kramp-Karrenbauer, non lasciano alcun dubbio sul fatto che una Germania determinata ad assumere un ruolo diverso dal passato postbellico negli equilibri continentali, intenda dettare senza condizioni la propria agenda alla Francia, quando propongono a Parigi di rinunciare, senza ricevere alcuna contropartita tedesca, al seggio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o alla sede di Strasburgo del Parlamento europeo, o al controllo del proprio arsenale atomico.
L’entrata sulla scena del partito di Alternative für Deutschland sta condizionando l’agenda della politica tedesca al punto che, per stessa ammissione di Confindustria, «a Berlino, si parla sempre meno di euro-budget, tassazione europea, ministro delle finanze europeo, unione bancaria, politiche anticicliche», vale a dire, di riformare l’Eurozona nel senso auspicato dall’Italia.
Dunque, la sola via che oggi appare percorribile per creare un’Europa federale, non è in concreto quella franco-tedesca bensì quella che ha nella sola Germania la nazione egemone. Se tale potenza fosse la Francia, o meglio ancora gli Stati Uniti, incontreremmo meno problemi. Ma, per sfortuna nostra, quella tedesca è una potenza impolitica, incapace di includere genti e interessi diversi in un comune progetto di sviluppo. Essa conosce solo le (sue) regole, si fonda sul mercantilismo,che è la negazione della politica, della possibilità della mediazione, essendo le regole dell’epoca prussiana, del terzo Reich e dell’UE e dell’Euro, quelle che fanno grande la Germania e che come tali devono essere accettate da tutti coloro che ne subiscono l’influenza.
Su queste basi non pare esservi alcuna possibilità di successo dell’asse franco-tedesco come guida dell’UE anche senza il Regno Unito. Anzi, a ben vedere l’attuale squilibrio di potenza a favore della Germania sta accelerando l’esplosione delle grandi tensioni interne alla Francia e fra qualche anno non si può escludere che ciò sfoci in una clamorosa uscita della Francia dall’Unione Europea o degeneri in uno stato di permanente conflittualità interna ai limiti della guerra civile.
Per l’Italia procedere con la guida tedesca dell’UE significa in prospettiva regredire a nazione priva di una industria e di funzioni tecnologicamente avanzate, assistere alla completa proletarizzazione del nostro ceto medio per spogliazione di risparmi e proprietà immobiliari, in favore di una concentrazione della ricchezza e del knowhow dalla periferia mediterranea al centro germanico.
Fenomeni che rischiano di far precipitare il nostro Paese nel giro di pochi anni nel caos generale, in un’anarchia generata dal contemporaneo collasso economico e sociale a cui ci stanno portando le politiche economiche e monetarie europee di impronta tedesca.
Ecco perché, per sommi capi, anche la via carolingia all’unificazione europea parrebbe decisamente sconsigliabile.
La via maestra dell’europeismo rimane la politica: messa in comune del debito, un comune sistema fiscale, politiche espansive. Subito, nel primo semestre della nuova Commissione europea, non fra trent’anni. Ma tali cose sono come fumo negli occhi per la Germania. La politica sembra essere fumo negli occhi per la Germania. Per questo l’Italia, come già fatto dal Regno Unito, ha il dovere di guardarsi attorno e di domandarsi, se, ancora una volta dopo settantanove anni dall’entrata in guerra insieme alla Germania nazista, l’unica opzione praticabile, e la più saggia, sia quella di stare sempre e comunque dalla parte della Germania. Oppure se ciò non costituisca la tragica ripetizione di un errore di portata storica, prendendosi la responsabilità di assecondare, anziché impedire, la guida tedesca che sta conducendo l’Europa verso nuovi anni bui di divisioni, di crisi e, Dio non voglia, di rivolte sociali e di guerre civili.
Ringrazio gli amici Cicoria e Davicino per gli stimolanti commenti e cerco di dare una risposta, ancorché, sia costretto, per esigenze di brevità, ad essere schematico.
Non condivido la ricostruzione della storia della Germania fatta da Davicino, una ricostruzione che vede una continuità da Bismarck alla Merckel passando per i 13 anni del regime nazista. Anzi il nazismo non sarebbe altro che il necessario approdo della storia del paese a partire dalla sua fondazione. La risposta ad un commento non è la sede più appropriata per affrontare un argomento così complesso. Mi limito pertanto ad alcune considerazioni.
Se le cose stessero come scrive Davicino, si porrebbero subito degli interrogativi. Che senso ha parlare di Unità europea, se il paese che è al centro del continente per collocazione e dimensione geografica, per peso demografico, economico e tecnologico viene ritenuto marchiato da una tara genetica immodificabile? Che senso e quale possibilità ha un’Unione europea senza la Germania?
Quanto detto da Davicino riflette un’opinione presente in un certo mondo politico ed intellettuale ed anche le parole critiche di Cicoria sulla Francia sono condivise da molti commentatori ed uomini politici; poi troviamo politici e personalità varie che forniscono di questi paesi una rappresentazione opposta o comunque molto diversa dai ritratti negativi prima citati. Normale dialettica o confronto di opinioni, dirà qualcuno. Tuttavia tutto ciò dovrebbe indurci ad una riflessione. Come si può affrontare un matrimonio europeo (obiettivo che condivido) quando si conoscono così poco e così male gli “sposi” ovvero i paesi che dovrebbero essere coinvolti nel processo unitario? Per trovare un cammino comune e per individuare obiettivi e politiche compatibili con tale processo unitario, occorre conoscere o prendere in considerazione la storia di questi paesi, la loro cultura, i contesti geopolitici in cui agiscono e i sentimenti (e talora i pregiudizi) delle popolazioni. Non vedo e non sento mai trattare nei media di tali argomenti. Quindi non mi meraviglio che detto cammino non proceda in alcuna direzione.
Un’altra considerazione riguarda la via maestra indicata da Davicino per rivitalizzare l’europeismo e raggiungere il traguardo unitario. Si tratta di misure in larga parte di natura economica, ma, per quanto l’economia sia oggi messa al disopra di ogni cosa, non è essa a dettare direttive in ambito geopolitico, perché alla base delle decisioni dei governi, dei parlamenti (e di quanti li eleggono), ci sono sempre considerazioni di ordine politico a tutela dello status del proprio paese, degli interessi dei propri cittadini, decisioni sempre condizionate dalla storia della nazione e dagli equilibri di potere internazionali. Ora quale soggetto (nazione, forza politica, classe sociale) sarebbe in condizione di raccogliere il consenso dei principali attori politici per mettere in atto quelle misure economiche ritenute necessarie?
Affrontare queste tematiche è indispensabile per definire un cammino verso l’Europa unificata perché è certo che a tal fine non bastano gli auspici e le esortazioni, e nemmeno il sentimento filoeuropeo dei molti giovani che hanno beneficiato dell’Erasmus. Ci vuole altro.
Sì, riteniamo che quanto dice Ladetto nell’articolo “Il miraggio di uno stato europeo” dia la giusta impostazione al problema europeo. In effetti oggi solo grandi stati di dimensione continentale possono competere strategicamente. Non solo, ma non si può neppure sottovalutare anche il fatto che una eccessiva frantumazione politica dell’ecumene, oggi ridotta a dimensioni virtuali che così piccole non sono mai state grazie ai mezzi di trasporto e di telecomunicazione, potrebbe mettere seriamente a rischio gli equilibri mondiali.
In questo quadro il mondo occidentale appare in declino e, in particolare, l’Europa appare la grande malata in primis per il rapporto squilibrato tra dimensione politica e dimensione economico-produttiva e in secundis, come ci ricorda Ladetto, per l’evanescenza dei suoi confini geografici, culturali e politici che paralizzano ogni tentativo di individuare uno stato federale europeo, specialmente dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia che ci costringeva a pensare l’Europa al massimo in termini di possibilità espansive all’interno del gruppo di paesi appartenenti al sistema socio-politico liberaldemocratico.
Ladetto ha ben colto il fatto che con il crollo del Blocco Sovietico sulla scena politica mondiale ha avuto fine anche l’ideologismo (atteggiamento filosofico politico-escatologico, sostanzialmente, sotto vari aspetti, una sorta di inversione dell’escatologia cristiana laicizzata, che vede il progresso verso un mondo (ovviamente immanente), sempre migliore grazie all’affermarsi di dottrine universalistiche, vere e proprie religioni politiche, quali l’illuminismo massonico ed il comunismo marxista, che in sostanza fanno dell’uomo il salvatore di se stesso attraverso l’uso della ragione scientifica) in quanto, a giudizio (magari anche solo implicito e ricavabile della prassi politica) della cultura statunitense, a cui ormai da oltre settant’anni fa capo anche la caudataria cultura europea, sarebbe avvenuta quella svolta (la globalizzazione dei mercati) che sostanzialmente sostituisce al primato della politica sull’economia (“economia politica” era la definizione corrente della scienza economica applicata) il primato (potremmo dire la sovranità) del potere economico su quello politico con la conseguenza che l’attività politica, che ovviamente non è possibile abolire nella sua essenza ma che semplicemente passa sotto la direzione dei centri economici-finanziari internazionali, così ancillata è tutta rivolta unicamente a favorire gli interessi mondiali, ritenuti salvifici per l’umanità, dei centri di potere che dirigono l’economia mondiale. In questo modo trova tacitamente applicazione il concetto che la produzione non è per l’uomo ma l’uomo è per la produzione (e conseguente consumo spinto).
Questo è naturalmente il quadro dottrinale applicato (rectius: predicato come dottrina ortodossa per raggiungere la conquista del benessere per l’umanità intera e quindi lodato come benefico per la lotta che conduce contro la presunta negatività del potere politico) dagli stati eredi delle liberal-democrazie occidentali. Riteniamo che oggi si possa parlare solo più di “stati eredi delle liberal-democrazie”, in barba ad ogni formale ordine costituzionale, dal momento che, come ben osserva Ladetto, la gestione della cosa pubblica, per essere tale, dovrebbe implicitamente presupporre la propria sovranità, interna ed esterna. Ma tale concetto è oggi demonizzato, e quindi limitato (un po’ come succedeva nell’Impero sovietico per i Paesi del Patto di Varsavia) se opera non in linea con le direttive e gli interessi dei soggetti del globalismo economico, salvo poi riscontrare che, a contrario, questi stessi soggetti apolitici operano, di fatto in modo politico, per punire chi si oppone alla politica imperiale degli USA, ritenuti in occidente lo stato Protettore delle dottrine anarco-capitalistiche e, ma in questo caso illusoriamente, del conseguente ordine mondiale da queste predicato).
E’ inevitabile che un simile quadro schematico, tutto basato su menzogne non si sa quanto raccontate in buona fede a se stessi da coloro che lo impongono come una sorta di fede religiosa immanentistica e quanto in mala fede agli altri che lo devono subire, vi sia una confusione mentale che però non riesce a nascondere bene l’incongruenza del sistema che diventa però sempre più evidente man mano che si sposta l’attenzione sul marcato sovranismo con cui operano per la salvaguardia dei loro interessi, sia politici che economici, i grandi imperi continentali non di tradizione occidentale (in particolare la Cina e la Russia), vedicaso ipocritamente imitati dal nuovo presidente statunitense (“America first!”) le cui posizioni, a ben vedere, sono un’implicita confessione del fallimento delle stesse dottrine anarco-capitalistiche dal punto di vista degli interessi dell’occidente, a cominciare dagli stessi Stati Uniti che sembrano risoluti a scaricare sull’Europa il (prevedibile) fallimento della globalizzazione dal punto di vista dei paesi di antica industrializzazione.
Ladetto tutto ciò l’ha descritto egregiamente. Gli USA dicono di giocare ai liberi mercati ma in realtà mirano ad estendere un’egemonia politica globale mediante imposizioni di natura economica che correggano gli svantaggi che stanno subendo per le loro scelte anarco-capitalistiche. La stampa specializzata in geostrategia chiaramente fa capire che il timore degli Stati Uniti è che l’Europa, di cui l’U.E. è vista oltreatlantico come uno strumento per imporre con un unico comando al Vecchio Continente la propria volontà (pare che l’identificazione tra l’U.E., dove si trovano associati anche dei paesi neutrali, e la NATO come strumenti di azione politico-militare sia stata sancita da dei recenti accordi) senza comunque rinunciare al classico gioco del divide et impera, non avendo più interesse al protettorato statunitense possa progettare di fare polo continentale a sé, rischiando di diventare anche più pericolosa come concorrente commerciale. A questo punto è chiaro come una UE “ircocervo anarcocapitalistico” (ne parlammo in miei precedenti commenti) rappresenti la miglior garanzia per la politica statunitense per trasformarla in una nuova America Latina, in una vera e propria estensione dell’area di applicazione della Dottrina Monroe.
Purtroppo temo che i fatti diano ragione a Ladetto anche circa le difficoltà storiche che complicano il processo di unificazione europea. Il lungo periodo della storia europea successivo alla morte di Carlo Magno, che, come lo stesso Ladetto ha recentemente ricordato, conta nella geopolitica ben più della stesso interesse economico asetticamente inteso, ha impresso nell’inconscio culturale europeo una cesura che rende arduo nei popoli europei il radicarsi di un interesse politico alla costruzione di “una casa comune europea”.
In altre più semplici e dirette parole quella base spirituale, quell’animus collettivo su cui si basa (è regola socio-politica ineludibile) il senso di appartenenza ad un’unica civitas o, per dirla più modernamente, il senso di appartenenza ad un’unica nazione (che non sempre, come accade nel caso specialissimo e forse irrepetibile della Svizzera, è identificato nell’unicità della lingua ufficiale, anche se questo resta uno degli aspetti più spinosi di qualsiasi “questione nazionale” in quanto la pluralità di lingue comporta pur sempre un consenso generale sulla gerarchicità di fatto che tra le diverse lingue ufficiali si viene a costituire), può capitare che, come è accaduto nel mondo antico per l’ellenicità e, nel rinascimento, per l’italianità, non coincidano con una più vasta unità culturale di fondo.
Quando, dopo le invasioni barbariche, fu ricostituito l’Impero d’Occidente nella forma del S.R.I. (nè va sottovalutato che esso era in contrapposizione dell’Impero Romano d’Oriente comprendente anche la metà orientale dell’Europa) esso fu un indubbio successo di unità culturale e religiosa che, se non altro, ridusse alla summa divisio dualistica latino-germanica da un lato e greco-slava dall’altro il precedente disordine europeo.
Va però rilevato che apparve precocemente, sin dalla morte di Calo Magno, una contrapposizione politica tra lo scissionista regno di Francia, poi passato alla dinastia Capetingia, di origine gallo-romana, e il “S.R.I. della Nazione Germanica” della dinastia sassone degli Ottoni e successori, che non solo impedì una sua estensione unitaria all’intera Europa non greco-bizantina, ma ha creò una frattura, mai più sanata, dello stesso nucleo carolingio originario sino alla seconda guerra mondiale, che col tempo si sarebbe allargata sempre più provocando, nell’età postmedievale, il consolidarsi delle monarchie nazionali (affermatesi in base al principio sovranistico del Rex est imperator in territoriis suis) e, dopo la Rivoluzione Francese, la definitiva affermazione generalizzata del principio di nazionalità, basato sull’identità linguistica “volgare”, poi trasformatosi, verso la fine del XIX secolo, in nazionalismo che, tra il 1914 ed il 1945 ha raggiunto le vette del fanatismo, e non solo da parte dei paesi totalitari.
In casi come questi ci troviamo di fronte a dei fenomeni, di natura prettamente soggettiva, psicologica che la cultura contemporanea, avendo basi profonde nella visione oggettivistica propria del materialismo positivistico, tende a trascurare, ma che, se ci accostiamo al modo antico, umanistico, di pensare, ci possiamo rendere conto che, come dice Brodel, stanno alla base di “tendenze di lungo periodo” scardinabili solo da eventi profondamente traumatici che spingono individui e popoli ad accettare di mutare la propria precedente visione del mondo, e che queste, piaccia o non piaccia, reggono prerazionalmente il comportamento, sia interpersonale sia di rapporto con l’autorità pubblica, di ogni popolazione contribuendo a formare l’ossatura inconscia profonda delle identità collettive, cardine dell’unità e stabilità di qualsiasi civitas. E’ per questo che l’assenza di un saldo (e, va da sé, escludente il non “integrato”) spesso diventa un fatto problematico per la funzionalità e l’unità stessa dell’istituzione statale.
Facciamo riferimento, come schema di pensiero, alle elaborazioni del diritto romano, che come ebbe a dire G.B. Vico “era la filosofia dei Romani”, che approfondisce lo studio dell’animus nei comportamenti sociali pubblici e privati e ne trae le conseguenze giuridiche. Ma penso anche all’intelligenza anticonformista dell’ingegnere positivista, economista matematico e sociologo Vilfredo Pareto che, evocando la propria cultura umanistica, evidentemente assimilata in modo profondo, capì che, se voleva scrivere un “Trattato di sociologia generale”, e quindi entrare nella sostanza delle cose sociali e politiche, doveva uscire dagli schemi meramente oggettivistico-matematici del positivismo e, rivolgendosi ad una impostazione prettamente umanistica, scavare nel comportamento umano mediante, come Pareto stesso ebbe a dire, una sorta di studio comparato delle vicende storiche.
Appartenere alla stessa civitas-nazione, all’interno della quale si devono istituire delle scale di valori in cui la collettività si riconosce e su cui si regge (e un conseguente corpus legislativo che le tuteli), lo ribadiamo, è quindi cosa ben diversa dall’identificazione di un panorama culturale più generale (ad es. la civiltà europea), a cui la singola civitas (ad es. la Repubblica Italiana) può occasionalmente appartenere, che può dar luogo a scambi di collaborazione anche molto stretti con le altre civitates aventi base culturale comune ma non può non risultare sfficiente per costituire un’entità sovrana unitaria.
Questo, lo ribadiamo, perché ogni civitas si basa su di una visione del mondo, una Weltanschauung direbbero i tedeschi che molto sono attratti da questo aspetto della realtà sociale, avvertita come peculiare alla collettività nazionale, e perciò vista come identitaria, che da un lato ne legittima le scelte politiche e culturali e dall’altro garantisce la simpateticità di fondo con quanto legittimamente deciso dai governanti.
Sono questi gli elementi fondamentali che garantiscono il consenso della collettività ai governanti (la “formula politica” di cui parla Gaetano Mosca), che a sua volta altro non è che l’espressione dei mores del popolo che costituisce la civitas, e che garantiscono, perché simpatetici all’animus dei cittadini e quindi spontaneamente rispettati, l’efficienza stessa dell’agire statale.
Per rendere concreto con un esempio quanto detto pensiamo quanto sarebbe complesso trovare un equilibrio nell’agire di un ipotetico Stato Federale Europeo se solo si pensasse, senza reagire come facciamo al solito noi italiani rifiutando di riconoscere come simili espressioni non sono semplici “pregiudizi” ma che suonano condanna di visioni del mondo incompatibili con l’animus francese, a quando i nostri “cugini” dicono che “l’Italia è il ventre molle dell’Europa” o che “gli italiani sono tanti begli alberi che però non fanno un bosco”.
In conclusione i fenomeni sopra descritti vanno presi seriamente in considerazione quando si pensa di costruire una civitas, ancorché federale, dato che, se è pur vero che queste contribuscono a forgiare le varie culture umane, è necessario che essi predispongano gli individui coinvolti nella costruzione della nuova realtà, in quanto nella costruzione della psiche del cittadino, un po’ come succede nella psiche individuale, non tutto è mosso da fatti razionalizzati dallo stato di coscienza, ma spesso operano delle sensazioni inconsce che turbano non poco il nostro stesso senso di sicurezza e di certezza identitaria. Anche qui ci sembra di poter dire che il “conosci te stesso”, sia uti singulus sia uti civis, è un fatto fondamentale.
Tornando a discutere in modo specifico e conclusivo del problema europeo temiamo che ormai l’effetto sedativo del fanatismo nazionalistico del periodo 1914 – 1945 sia stato ormai superato dalla fine dell’abbondanza delle economie europee che per circa 30 anni successivi al 1945 aveva alimentato un senso di solidarietà che andava al di là dei singoli interessi nazionali, anche in funzione del pericolo comunista, dando un certo senso di unitarietà da un lato tra le nazioni europee e dall’altra di queste con la dominante potenza statunitense, che però non può essere confuso con un’unità statale federale, anche se certi strumenti giuridico-istituzionali potrebberlo farlo credere. La UE infatti è basata su un’alleanza internazionale di natura tecnocratica (anche se talvolta emergono velleitariamente prese di posizione di natura più politica e culturale che economica) che sono basate sul peso contrattuale politico di ogni singolo stato e non sul senso di di giustizia e di solidarietà che sta a fondamento di un qualsiasi stato sovrano, unitario o federale che sia, pena la sua inefficienza e instabilità.
Voler ridurre, come si sta facendo al presente, il “sovranismo” ad una scelta perversa di qualcuno quando esso è la conseguenza inevitabile di scelte (sostanzialmente sovrane) errate dell’UE, peraltro di matrice culturale statunitense, tese a trasformare la precedente contesa ideologica con i grandi imperi euroasiatici di Russia e Cina in contesa basata sull’aggressività economica (erroneamente ritenuta, oltre che sicuramente vincente per l’occidente, benefica e portatrice di pace e di benessere al mondo intero, dimenticando che al contrario anch’essa lascia sul terreno morti e feriti sotto forma di gravi rotture di equilibri sociali) è, lo ribaduamo, un errore che sta costando caro soprattutto proprio all’Europa. Anche perché i problemi oggettivi di limitazione delle risorse, lato sensu ecologici, che il mondo intero sta provando ad affrontare (basta pensare anche solo alla bomba demografica) sono resi difficilmente risolvibili anche per la “militarizzazione” della contesa economica globale per la “conquista dei mercati” che con “le magnifiche sorti e progressive” evocanti il “paradiso in terra” non ha proprio nulla a che spartire.
Non è qui certo la sede per esaminare come dal 1945 in poi l’Europa sia fuori gioco, vuoi politicamente, ma quel che è peggio, anche culturalmente, visto che il processo di modernizzazione dell’Europa postbellica è stato in toto un processo di americanizzazione intellettuale (sottomissione volontaria alla Weltanschauung su cui si fonda la “formula politica” che regge la nazione americana e la sua collocazione geopolitica nell’ecumene) dell’Europa stessa che ha ucciso ogni possibilità di uscire da quegli schemi anarco-capitalistici che hanno creduto di poter delegare scelte politiche, che sono sempre scelte sovrane perché riguardano l’unitarietà, in nome della giustizia, dell’ordine sociale, ad entità del potere finanziario internazionale, visto come il sacerdote di una religione di redenzione dell’intero ecumene attraverso scelte tecnocratiche trasformate in scelte necessitate per riorganizzare i popoli per il raggiungimento di determinati fini ritenuti secolarmente salvifici, anziché per quello che sono: scelte di vantaggio particolare per gruppi che, istituzionalmente, mirano al vantaggio proprio in nome di un (sempre meno) apparente benessere collettivo.
Purtroppo l’antropologia e la storia ci insegnano che la realtà umana può essere governata solo dalla (retta) politica, il cui compito è proprio quello di “dare giustizia” mediante l’esercizio della sovranità sull’intera collettività, e non di dare acriticamente patenti di salvatori del mondo a tutti coloro che raggiungono grandi successi imprenditoriali, e che questa è scienza umanistica che va ben oltre il solo fatto economico (indubbiamente fondamentale per le società umane, ma in termini strumentali, non finali) per cui non si può prescindere, come ci dice Brodel, dal lungo periodo che, inconsciamente, deposita nelle scelte degli appartenenti alle diverse civitates sovrane determinante valutazioni di ciò che è (rectius: dovrebbe essere) bene e di ciò che è (rectius: dovrebbe essere valutato come) male per la comunità politica di appartenenza e, conseguentemente, anche dove finisce il concittadino, cioè colui che è legato allo stesso criterio di giudizio sociale, e dove inizia lo straniero, cioè colui che è considerato estraneo alla civitas in quanto agisce secondo un diverso criterio di giudizio sociale.
Questi schemi permangono sinché non accadono fatti esterni traumatici, o spinte intrellettuali che comportano un forte scossone alla coscienza morale della collettività interessata, di natura politica e/o morale tale da riuscire a spezzare i legami, in modo più o meno totale o più o meno parziale, con la cultura del passato ed a cambiare le stesse scale di valori alle quali i popoli in futuro faranno riferimento nel loro comportamento sociale. O tutte e due le cose insieme.
Come esemplificazione storica potremmo ricordare come il nostro Risorgimento non avrebbe mai potuto aver luogo senza il verificarsi di quelle grandi turbolenze storiche e culturali che furono la Rivoluzione francese, la Restaurazione e il Romanticismo valorizzante, in un’ottica nuova, la peculiari tradizioni nazionali, specialmente quelle, come l’italiana, la polacca, la tedesca e l’ungherese alle quali ad una peculiarità etnica non corrispondeva l’esistenza di uno stato indipendente.
E’ quindi chiaro che l’Europa potrà avere un futuro di non declino unicamente se nascerà una cultura nuova creante una nuova Weltanschauung, cosa difficilissima nell’occidente contemporaneo (che dovrebbe coincidere con lo scenario Europeo del XIX Secolo in cui si muovevano le singole nazioni), che identificasse l’Europa come la patria della cultura umanistica da contrapporre al declinante positivismo tecnocratico statunitense.
Si tratterebbe (e qui l’Italia, una sorte di Toscana dell’Europa) avrebbe molto da dire nel ripensare un nuovo Rinascimento che rimettese al centro del mondo l’uomo con modalità per certi aspetti opposti a quelli del Rinascimento postmedievale. Una centralità basata sul riconoscimento della necessità di una armoniosa simpaticità con natura che, pur non disdegnando i benefici dell’industria, ne denuncia gli eccessi che l’ecologia ha già denunciato da tempo.
Il Rinascimento postmedievale ha avuto il suo fulcro nella riscoperta dello studio iuxtra propria principia della rerum natura, quello postindustriale dovrebbe avere il suo fulcro nella riscoperta dello studio iuxta propria principia della hominum natura, cioè nella elaborazione di una nuova antropologia, mettendo fine alla ubriacatura che negli ultimi duecento anni di prometeismo moderno ha portato, al contrario del prometeismo tragico antico, ad attribuire all’uomo poteri salvifici al di là di ogni senso della misura.
Ma, per raggiungere un risultato siffatto, che porterebbe non solo vantaggi politici all’Europa, occorrerebbe propugnare una sorta di moratoria economica mondiale che togliesse all’attività economica quella caratteristica che oggi essa ha: quella di una forma mascherata di guerra di conquista, effettuata sui mercati e nelle borse anziché sui campi di battaglia (si fa per dire, viste le caratteristiche della guerra moderna, più guerra civile che guerra con lo straniero) fatta in sostituzione (sinché la pace sarà in grado di tenere) della ormai eccessivamente distruttiva rispetto al passato guerra militare guerreggiata.
Il presupposto di ciò potrebbe essere solo il ritorno ad una gestione della economia nella forma della “economia politica”, libera ma programmata all’interno di ogni stato sovrano e contrattata tra stati quanto a scambi internazionali.
Senza questa conversione ad U nella prassi industriale e commerciale in base ad una nuova visione dell’uomo e del mondo non resta che aspettare che i fati si compiano da sé, a piacimento della rerum natura e, spinta da questa, della non sempre buona e costruttiva hominum natura.