Lavorare meno per lavorare in tanti



Vera Negri Zamagni    23 Aprile 2019       2

La spada di Damocle che a causa della quarta Rivoluzione industriale con la sua Intelligenza Artificiale e la robotizzazione pende sul mondo del lavoro ha tolto il sonno a molti, che vedono profilarsi un futuro senza lavoro.

Se già oggi la creazione di posti di lavoro non è sufficiente per il mantenimento del pieno impiego, quando anche i lavori esistenti verranno sostituiti dalle macchine intelligenti, senza una corrispondente produzione di attività alternative, la previsione di un mondo jobless sembra destinata a materializzarsi.

Un mondo senza lavoro non crea solo problemi di reddito, ma anche problemi di identità delle persone, che in larga misura si identificano con l’attività lavorativa che fanno, attraverso la quale si mettono in grado di contribuire al buon funzionamento della società.

In questi giorni si è assistito a proposte di tagliare gli orari di lavoro a parità di salario, per permettere una redistribuzione del lavoro esistente su un maggior numero di persone e un miglior equilibrio di vita.

Di sicuro si tratta di una proposta interessante, anche perché aiuterebbe la soluzione di un problema tanto denunciato, ossia la scarsa compatibilità tra gli attuali orari di lavoro e la gestione di una famiglia. La stessa partecipazione ad attività culturali, di pratica religiosa, di attività politica e di volontariato trarrebbe grande beneficio da una maggiore disponibilità di tempo dei cittadini.

Non si tratta di una proposta peregrina, se già Keynes in un suo articolo del 1931 (The economic possibilities of our grandchildren) avanzò l’ipotesi che 15 ore di lavoro alla settimana potessero bastare per il mantenimento, lasciando libere le persone di coltivare il bello e il bene, e di non dover essere sempre alla ricerca dell’utile.

Ma qual è il vero problema che si frappone alla realizzazione di una simile visione? Sono i diritti di proprietà. Infatti, fin che gli avanzamenti di produttività permessi dagli investimenti vanno a remunerare principalmente i detentori di capitale, questi tenderanno a mantenere bassa la remunerazione del lavoro, generando profitti sempre maggiori.

È ciò che sta avvenendo con le aziende “high tech”, che beneficiano i loro azionisti, continuando a mantenere i sempre più scarsi lavoratori in condizioni di lavoro di grande sfruttamento.

Prendiamo come esempio Amazon. Quando era un’azienda che vendeva libri elettronicamente, si muoveva in un mercato affollato da tanti altri soggetti. Con la decisione di vendere di tutto, è invece diventato un colosso che non solo sottrae lavoro a migliaia di negozianti, ma organizza i suoi magazzini e le sue consegne con modalità fordiste da catena di montaggio, dove i lavoratori non possono sgarrare dai tempi definiti. Ciò ha portato il suo proprietario Jeff Bezos ad accumulare oltre 150 miliardi di dollari di ricchezza, ma non ha migliorato le condizioni di vita dei suoi addetti, ai quali non è lasciata spesso altra scelta che lavorare a quelle condizioni o restare disoccupati

È vero che imprese di minori dimensioni hanno bisogno di un maggiore coinvolgimento dei propri addetti e dunque sono più disposte a concedere qualche miglioramento salariale e magari il welfare aziendale, ma solo da poco si è visto imprese disponibili a concedere abbassamenti degli orari di lavoro a parità di salario in alternativa ad aumenti salariali. Infatti, in presenza del vigente meccanismo di mercato, non sono tante le imprese che si possono permettere di offrire tagli di orario a parità di salario.

Ciò che occorre fare è rimettere il problema dell’esercizio dei diritti di proprietà al centro della riflessione e degli interventi di politica economica.

La dottrina della Chiesa ha sempre ricordato che le risorse, fra cui il capitale, devono avere un uso sociale, e così anche la nostra Costituzione. Ma nessuna voce si sta levando contro le storture del mercato che oggi producono eccessive concentrazioni di ricchezza.

Quando alla fine dell’Ottocento una tendenza analoga si era realizzata negli Stati Uniti, quella democrazia si difese attraverso l’introduzione di leggi antitrust, che impedivano l’esistenza di monopoli. Ancora prima, quando la potentissima East India Company arrivò a minacciare la democrazia inglese venne nazionalizzata nel 1858.

Anche oggi occorre salvare la democrazia e l’economia di mercato da poteri economici sproporzionati e tentacolari. Una cosa tuttavia che può essere studiata e realizzata all’interno dell’Unione Europea, ma non certo singolarmente da piccole nazioni. E può essere attuata supportando un progressivo taglio agli orari di lavoro a parità di salario, imponendo una partecipazione dei lavoratori nel capitale delle imprese, facendo funzionare un’antitrust anche a livello internazionale e impedendo che le grandi multinazionali evadano la tassazione.

(Tratto da www.politicainsieme.com)


2 Commenti

  1. Speriamo che la politica (soprattutto a livello europeo, ma anche di altre regioni del mondo) sappia raccogliere queste proposte indispensabili per non restare sempre più schiavi dei “padroni” dell’economia e della finanza; dipendenti sempre più da regole non democratiche.

  2. La Prof. Vera ha perfettamente ragione, bisogna che incominciamo ad analizzare in modo approfondito, come si è fatto per il lavoro (con una caterva di contributi scientifici o meno), anche il capitale. Senza demonizzarlo quando è di dimensioni controllabili, per arrivarci “adosso” invece con imposte, leggi anti-trust, le nome internazionali adeguate sui “paradisi” fiscali, le transazioni internazionali “criptate”, ecc.

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