Né mura invalicabili né porte spalancate



Giuseppe Ladetto    21 Marzo 2019       0

Il tema dei migranti è sempre motivo di aspri scontri nei quali prevalgono pronunciamenti ideologici e posizioni di principio improntate all'etica delle intenzioni. Occorre invece realismo e senso di responsabilità perché la tematica è molto complessa e non ammette soluzioni facili o indolori. Vale pertanto la pena di porgere attenzione a chiunque affronti la questione ponendosi su tale terreno. È il caso di Carlo Calenda che, in un recente libro, Orizzonti selvaggi, cerca di delineare un possibile cammino in materia. Altra cosa è il progetto complessivo di riforme che egli illustra, rispetto al quale non mi trovo in particolare sintonia.

“Se (scrive Calenda) la globalizzazione ha messo in crisi, dal punto di vista economico, l'idea della società aperta, l'aumento dei flussi migratori l'ha definitivamente affondata sul piano politico e culturale (…). Il racconto semplificato di una società multiculturale, come fosse una serata in un ristorante fusion anziché un fenomeno complicatissimo da governare, ha generato un profondo malcontento, in particolare nelle classi svantaggiate che con i migranti si sono trovate a convivere e spesso a combattere per accedere a scuola, sanità, lavoro e casa”. Non si può, aggiunge, affrontare questo problema su un piano esclusivamente morale, descrivendo assurdamente una società (italiana ed europea) fatta di milioni di razzisti: ciò serve solo a rafforzare l'idea, già ampiamente diffusa, di un conflitto tra élite sedicenti illuminate e un popolo dimenticato da chi è al vertice della società.

Bisognerà occuparsi dei migranti e delle politiche migratorie per almeno i prossimi trent’anni, comprendendo le paure e investendo risorse e professionalità. L'immigrazione presenta degli aspetti positivi (sul piano demografico, pensionistico, produttivo) e crea delle evidenti difficoltà, cosa per cui va governata.

Nel dibattito in argomento, c'è una contrastante valutazione della sostenibilità del numero degli extracomunitari già in Italia ed Europa: sono pochi o tanti? Secondo Calenda, per un corretto giudizio bisogna tenere conto di tre fattori. 1) La questione demografica: gli immigrati sono utili per mantenere l'equilibrio demografico, ma, a tal fine, gli ingressi devono essere controllati numericamente e selezionati qualitativamente. 2) La struttura produttiva dalla quale discende la domanda principale: ci rubano il lavoro o meno? La risposta è complessa perché gli immigrati servono per fare lavori che gli europei non vogliono più fare, ma finiscono per alimentare il lavoro nero e l'economia sommersa diventando un fattore sleale rispetto ai lavoratori regolari. 3) La compatibilità con le politiche di integrazione e la loro efficacia. In Italia, tali politiche da sempre sono molto deficitarie e disordinate. In primo luogo, occorrerebbe costituire un'agenzia unica per gestire le politiche di accoglienza e integrazione. Oggi, la percezione del numero dei migranti presenti sul territorio è molto più grande della realtà, e anche la connessione tra immigrazione e mancanza di sicurezza è amplificata, ma tutto ciò rientra in quel diffuso senso di paura e di insicurezza che rappresenta una dominante di questa epoca, di un mondo che appare sopraffatto da forze non più controllate.

L'idea di risolvere il problema migratorio aprendo indiscriminatamente i nostri confini e sperando in una rapida integrazione è irrealistica e pericolosa. Aggiunge Calenda che “un andamento degli arrivi di stranieri a un ritmo analogo a quello degli ultimi anni porterebbe, nel 2065, la popolazione straniera residente in Italia a un terzo di quella totale. Un cambiamento profondo e per molti versi scioccante che incide sull'identità del Paese, sulle sue tradizioni e sui suoi vincoli di comunità”. A fronte di ciò, erigere muri impenetrabili è tuttavia fuori della realtà, essendo impossibile. Occorre quindi gestire il fenomeno, e, allo scopo, è necessario mantenere il controllo sui nostri confini, perché una nazione non può sopravvivere se i propri confini sono insicuri e permeabili o ritenuti tali dai propri cittadini. Si tratta tuttavia di un'impresa difficile, in particolare riguardo ai confini marittimi. Questo obiettivo richiede di intervenire nei Paesi di origine e di transito dei migranti fornendo ad essi i mezzi per il controllo delle frontiere, per l'identificazione e anche per i respingimenti e i rimpatri. A tal fine, occorre fornire ai Paesi coinvolti cospicue risorse e una collaborazione tecnica rafforzata.

“Aiutarli a casa loro” è una politica intelligente se effettiva e non un semplice slogan. Come esempio di una politica fattiva in tale senso, Calenda si rifà al Migration Compact proposto alla UE dall'Italia nel 2016. Si fonda su un contratto con i Paesi di origine e di transito dei migranti individuando un nucleo chiave di Stati africani, tra i quali sette casi-pilota (Niger, Sudan, Costa d'Avorio, Nigeria, Ghana, Senegal ed Etiopia). L'Europa dovrebbe offrire ad essi risorse finanziarie per progetti di investimenti, bond, cooperazione in tema di sicurezza, di rimpatri dei non accolti e del loro reinsediamento in patria. Alla parte africana, si richiede il rafforzamento dei controlli sulle frontiere, la cooperazione per rimpatri e riammissioni, la gestione dei flussi con pre-screening, e la creazione di sistemi nazionali di asilo in linea con gli standard internazionali. La UE e gli Stati membri dovrebbero orientare a tale scopo tutti i fondi per la cooperazione già stanziati e prevederne dei nuovi. Tuttavia la proposta non è stata recepita per intero e implementata tempestivamente. Si è opposta la Merkel, che pur aveva appena fatto sottoscrivere un analogo accordo con la Turchia (a cui era interessata la Germania), e si sono opposti i Paesi nordici contestando il legame tra cooperazione e finalità di contenimento dell'immigrazione.

Scrive Calenda che l'UE ha interessi divergenti sulla gestione interna dei flussi migratori (distribuzione dei sopraggiunti, loro circolazione all'interno dell'unione) cosa per cui difficilmente si modificherà il trattato di Dublino; li ha invece convergenti sul fronte esterno nell'ottica di controllare e limitare gli afflussi, ancorché solo un terzo dei fondi europei per la cooperazione vada ai Paesi africani, che invece dovrebbero essere privilegiati nell'ottica sopracitata. Ne conclude che, se l'Europa salterà, sarà in massima parte dovuto all'incapacità di affrontare la questione migratoria e di gestire in modo coordinato i migranti

È inoltre mancata una politica europea per il Mediterraneo, mentre è interesse prioritario dell'Europa la stabilità politica ed economica dei Paesi della sponda sud di questo mare. A tal fine, è necessario: 1) allargare a tali Paesi l'unione doganale;  definire politiche commerciali, di cooperazione, di difesa e di state-building, e creare linee di finanziamento a ciò dedicate; 2) realizzare, con questi Paesi, canali di immigrazione legale selettivi e controllati; 3) implementare gli investimenti privati e il commercio, che restano gli strumenti più efficaci per creare un benessere duraturo.

In tema di gestione dei migranti, Calenda non dà enfasi alla querelle della ripartizione dei nuovi arrivati sul territorio europeo, della quale in Italia si fa un gran parlare. Credo che giustamente la ritenga una questione molto secondaria che riguarda solo la piccola percentuale dei rifugiati (e non i migranti economici). Su un piano generale, c'è una sostanziale convergenza fra la sua analisi e quelle (che ho già proposto in altri articoli) di Paul Collier e di Khalid Koser. Mi limito pertanto ad alcune osservazioni.

Calenda ritiene che, per una corretta gestione dei processi migratori, sia indispensabile definire dei percorsi regolari di ingresso (in particolare dai Paesi della sponda sud del Mediterraneo) da concordare con gli Stati di origine. Era stato detto (in altro articolo) che le quote di ammissione, poiché riguardano solo una ridotta e selezionata percentuale degli aspiranti all'espatrio, non dissuadono i numerosissimi esclusi dal continuare a cercare di raggiungere le loro mete con ogni mezzo. Tuttavia, Calenda non propone (come fanno taluni utopisti di casa nostra) i flussi regolari come unica o principale soluzione per limitare gli ingressi di irregolari, ma affida il controllo dei confini agli strumenti amministrativi e delle forze di sicurezza propri dello Stato, che in materia deve essere molto fermo. Resta però in piedi un'obiezione alla politica tesa a ottenere flussi di migranti selezionati: si rischia, in tal modo, di privare i Paesi poveri degli elementi più dinamici e qualificati, necessari al loro sviluppo. È una logica che fa parte di una visione del mondo (ritenuto inevitabilmente ineguale) all'insegna della competizione tra Paesi (regioni, città, università) per posizionarsi tra i vincenti, anche sottraendo le persone più competenti ai concorrenti rimasti indietro.

Una seconda questione riguarda la creazione di un mercato unico con i Paesi dell'Africa settentrionale (il cortile di casa nostra). Calenda biasima chi, in Italia, per difendere l'agricoltura nazionale, vuole mantenere dazi sui prodotti agricoli importati da tali Paesi (vedi l'olio tunisino). In proposito, rilevo due cose: 1) Calenda lamenta, in altro capitolo del libro, che, nell'ottica della divisione internazionale delle produzioni, si sia abbandonata in Europa la manifattura creando disoccupazione ed impoverendone l'economia. Credo che questa considerazione dovrebbe valere a maggior ragione per l'agricoltura, un settore strategico per affrontare possibili situazioni critiche. Quindi, a mio parere, è possibile e utile aprire ai prodotti agricoli di detti Paesi quando non mettono in seria crisi i nostrani (come è capitato con il riso importato dal sud-est asiatico). 2) Chi vive nel sud del mondo aspira a raggiungere gli standard di consumi e i modi di vita dei Paesi occidentali. Calenda riconosce che un fatto del genere avrebbe un impatto drammatico sull'ambiente e sarebbe difficilmente sostenibile, ma poi, nelle proposte che fa, se ne dimentica quando invoca l'inserimento dei Paesi africani in una sorta di mercato comune che inevitabilmente li condurrebbe a ricercare uno sviluppo sul modello europeo (non più sostenibile già in casa nostra). L'alternativa valida per il continente nero è quella proposta da Thomas Sankara (politico e rivoluzionario burkinabé): “Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa”.

Qui c'è il punto più debole del discorso complessivo fatto dall'autore. Calenda riconosce l'importanza della questione ambientale; sottolinea la necessità di un modello di sviluppo sostenibile incentrato sul benessere sociale e non più sul solo PIL; afferma che “per realizzare la transizione da un'economia di consumo a un'economia del benessere, bisogna coniugare ambiente, crescita economica, sociale e culturale nella prospettiva della sostenibilità”, ma l'accento è posto prevalentemente sulla crescita.

In materia, mi limito ad un aspetto. Calenda menziona, fra i guasti imputabili alla crescita, l'eccessivo consumo delle risorse rinnovabili, la deforestazione, il quasi esaurimento della fauna ittica, ma sembra dare per risolta la questione delle modificazioni climatiche. Scrive infatti che “il gas sarà l'energia di transizione che consentirà di accelerare l'uscita definitiva dal carbone e la diminuzione del consumo di petrolio, mentre le rinnovabili, grazie alla tecnologia, diventeranno sempre più economiche ed efficienti”. Ma intanto la velocità dei mutamenti climatici supera quella dell'innovazione tecnologica e i tempi per un reale cambiamento si fanno sempre più stringenti. Ci dicono i climatologi che, superati i +2° di riscaldamento (rispetto all'epoca preindustriale), si entra in un territorio ignoto dove si finirà (non sappiamo quando) per superare quella soglia oltre la quale i mutamenti (definiti di tipo venusiano) diventano irreversibili e inarrestabili (liberazione di metano per fusione del ghiaccio del permafrost, scomparsa dell'azione riflettente delle superfici ghiacciate, diminuito assorbimento di CO2 dagli oceani per riscaldamento dell'acqua, effetto serra aggiuntivo per l'accrescimento del contenuto atmosferico di vapor acqueo, che agisce da gas serra, ecc.).

Occorre, pertanto, procedere tempestivamente ad un radicale cambiamento dei modi di produrre, consumare e vivere. Non sembra che lo sviluppo, per quanto definito “liberal-progressista”, ipotizzato dall'autore sia, per contenuti e tempi, compatibile con i passi da fare per la salvezza del pianeta.

Il libro fornisce comunque, quanto meno rispetto alla questione migratoria, un utile contributo ad un serio confronto per la messa a punto di interventi volti ad affrontare il fenomeno con realismo e senso di responsabilità.


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