Alla presenza di Sergio Mattarella, il 14 marzo si è svolto a Roma il Convegno "Carlo Donat-Cattin, uomo di governo e leader DC" aperto dalla Presidente del Senato Casellati, con interventi dello storico Malgeri, del ministro alla Cultura Bonisoli, della segretaria CISL Furlan, del presidente di Intesa-Sanpaolo Gros-Pietro, e di Pier Ferdinando Casini . È stata la prima iniziativa per celebrare il grande politico tra l’anniversario della scomparsa (17 marzo 1991) e il centenario della nascita (26 giugno 1919). Ne ricordiamo anche noi con affetto la figura, iniziando dallo scritto di Francesco Malgeri sull’Osservatore Romano.
Ricordiamo a cento anni dalla nascita, una delle figure più rappresentative della storia dell’Italia repubblicana, espressione di una viva e intensa sensibilità sociale e politica. Questa sensibilità Carlo Donat-Cattin l’aveva maturata in seno alla sua famiglia, grazie all’esempio del padre che aveva militato nel popolarismo sturziano, e l’aveva consolidata alla scuola dell’Azione cattolica, durante gli anni del fascismo, entrando in contatto con ambienti culturali come il cenacolo domenicano torinese, animato da padre Marcolino Daffara e padre Enrico di Rovasenda. Non aveva mancato di dedicare la sua attenzione anche alla scuola economica dell’Università cattolica di Milano, che aveva in Francesco Vito e nel giovane Amintore Fanfani gli studiosi più accreditati. La Resistenza, che lo vide impegnato nella zona del Canavese, rappresentò per lui un’ulteriore scuola di libertà e democrazia.
Nell’immediato secondo dopoguerra il suo impegno si orientò prevalentemente sul versante sindacale. Militò nelle Acli, fu dirigente a Torino della Libera Cgil e dal 1950 della Cisl. Mai abbandonando, però, l’attenzione alla politica, con l’obiettivo di trasferire in seno al partito della Democrazia cristiana, una cultura, un pensiero, una scuola ispirata all’azione sociale e sindacale. Fu espressione e leader di quella Sinistra sociale che attraverso “Forze sociali”, poi “Rinnovamento” e infine dal 1964 “Forze Nuove”, riflettendo le istanze del pensiero sociale cristiano e l’esigenza di trasferire le attese del mondo del lavoro in seno a un partito interclassista, assumendo la funzione di gruppo propulsore di nuovi equilibri politici. Potremmo affermare che Donat-Cattin fu un sindacalista prestato alla politica, ma anche uomo di partito e di governo, che si distingueva per la sua straordinaria sensibilità sociale.
Il suo passaggio alla politica avviene all’inizio degli anni Cinquanta, quando la Democrazia cristiana conobbe il tramonto del dossettismo, l’emergere di Iniziativa democratica e di un ricambio generazionale alla guida del partito con il progressivo declino della leadership degasperiana.
Sono anni carichi di attese e di speranze. Gli anni che segnano l’avvio del miracolo economico, destinato non solo a favorire un balzo in avanti dell’economia italiana e una straordinaria accelerazione allo sviluppo industriale del paese, ma anche a incidere sul costume, sulla mentalità e i comportamenti degli italiani. Una crescita che conobbe anche alti costi sociali segnati, tra l’altro, dalle grandi migrazioni che dalle regioni meridionali hanno trasferito nel triangolo industriale una massa eccezionale di forza lavoro.
Matura in questi anni anche una delle più significative svolte politiche conosciute dalla storia della democrazia repubblicana, con un processo che porta al superamento del tradizionale quadro politico, ancorato ai partiti del centro democratico, e all’inserimento nell’area di governo del partito socialista che, superando lo schema frontista, si proponeva come forza politica disponibile all’incontro e alla collaborazione con le forze di democrazia laica e cattolica.
Siamo negli anni che, sul piano internazionale registrano importanti novità: dalla destalinizzazione in Unione sovietica, alle rivoluzioni polacche e ungheresi, al processo di distensione avviato da Kruscev, all’avvento di Kennedy alla Casa Bianca. Un processo che suscitò grandi speranze, animate anche dall’avvento di Giovanni XXIII al soglio pontificio e dal grande rinnovamento della Chiesa cattolica operato nella stagione del Concilio Vaticano II.
È in questo contesto storico e politico che Donat-Cattin entra a pieno titolo nella vita politica. Consigliere nazionale della Dc dal 1954, deputato dal 1958 e membro della direzione del partito dal 1959, dopo le elezioni del 1963, cominciò una lunga esperienza di governo, come sottosegretario alle partecipazioni statali nei primi tre governi di centro-sinistra, guidati da Moro, dal dicembre 1963 al giugno 1968.
L’impegno di governo era una esperienza nuova per Donat-Cattin. Una esperienza che gli offre l’occasione per cogliere le molte e significative realtà dell’economia italiana. Se scorriamo i suoi interventi parlamentari in quegli anni vediamo emergere i molti problemi dell’industria pubblica da lui affrontati: dall’Italsider, alla Rai, all’Ansaldo, all’Alfa Romeo, all’Eni, all’Agip, alle acciaierie di Bagnoli, alla Cogne, alla Tirrenia, all’Alitalia e così via.
Il suo impegno di governo gli consentì di affrontare, con una intensa partecipazione, piccoli e grandi problemi che attraversano la vita economica e industriale del nostro paese, spesso con ricadute che investono il mondo del lavoro.
Donat-Cattin coltivava la speranza e l’ambizione di favorire la crescita di un sistema economico in grado di offrire all’uomo, al lavoratore uno sviluppo non alienante, ma costruito sulla base di equilibri che tengano conto soprattutto del rispetto dei valori più profondi che devono animare la convivenza civile. A suo avviso, il centro-sinistra avrebbe dovuto costruire uno «stadio più alto di civiltà».
Prende corpo in questi anni la sua amicizia e collaborazione con Aldo Moro. Si trattò di un rapporto intenso e profondo. La formazione sociale e sindacale di Donat-Cattin, forgiatasi nella durezza degli scontri e delle rivendicazioni del movimento operaio torinese, sorretta dalla chiara idea di un partito che doveva farsi carico delle esigenze e dei bisogni del mondo del lavoro, forse mal si conciliava con l’elaborazione culturale e politica di un intellettuale del Mezzogiorno, che aveva maturato le sue scelte politiche sulla base di una fede profondissima, di una profonda formazione filosofica e giuridica. Probabilmente lo affascinò di Moro l’eccezionale capacità di lettura e interpretazione dei fenomeni sociali, a partire da quel discorso pronunciato nel novembre 1968, sui «tempi nuovi», sul «moto irresistibile della storia» e su una «nuova umanità che vuol farsi».
Attento osservatore della società italiana, a Donat-Cattin non sfuggirono, alla fine degli anni Sessanta, i segnali che provenivano dai mutamenti generazionali e dalle agitazioni studentesche, oltre che operaie. Egli cercò di coglierne il carattere e gli obiettivi, vi rintracciò prospettive «ancora confuse» e «non omogenee», ma anche la denuncia nei confronti degli aspetti autoritari dei sistemi politico-economici, che avevano «la disponibilità — affermò — dei mezzi di controllo e di manipolazione approntati dallo sviluppo tecnologico». Ebbe anche tentazioni scissionistiche, ben presto rientrate, nella convinzione che «senza radici storico-sociali l’avventura politica del cristiano si limita a testimonianza».
Momento significativo nella biografia politica di Donat-Cattin, fu la nomina, nell’agosto del 1969, a ministro del lavoro nel secondo governo Rumor, confermato nel terzo Rumor e nei successivi governi di Colombo e di Andreotti, sino al giugno 1972. Donat-Cattin assumeva la carica che era stata del socialista Giacomo Brodolini, morto nel luglio 1969.
Toccò proprio al vecchio sindacalista, al «ministro dei lavoratori» Donat-Cattin, gestire la drammatica situazione segnata dall’esplodere delle agitazioni sindacali del 1969, di quell’autunno caldo che fu soprattutto una risposta alla crisi determinatasi dalla conclusione del processo espansivo dell’economia italiana e dalla diminuzione degli investimenti industriali.
Il successo più significativo del ministro, grazie all’azione congiunta dei sindacati e della Dc, impegnati sul piano politico e sindacale, fu l’approvazione da parte del Parlamento nel 1970 dello Statuto dei lavoratori, che fissava precise norme a tutela del mondo del lavoro. Donat-Cattin ebbe a definirlo «un fondamento dello Stato democratico» e «il completamento del sistema di libertà» nel paese.
Alla fine degli anni Settanta, nel clima di emergenza economica, sociale e terroristica, Donat-Cattin, sia pure con qualche esitazione e riserve iniziali, aveva condiviso il progetto di Moro, tendente a coinvolgere il Pci nell’area di governo. Aveva giudicato un «capolavoro politico» il modo con cui Moro era riuscito a realizzare quel disegno, che doveva portare a un governo di «tregua» e di «transizione».
Seguirono i giorni drammatici del sequestro e dell’assassinio di Moro, che Donat-Cattin visse con passione e sgomento. Lo confermano le lettere ad Andreotti e la disperata ricerca di una via d’uscita per salvare la vita del suo amico.
Anche le lettere di Moro dal carcere lasciarono un segno nell’animo di Donat-Cattin. Quelle parole, a volte crude e pesanti, svelavano, a suo avviso, «pagine tristi di uno squallido mondo del potere». Quelle pagine, scriveva il vecchio sindacalista con la sua consueta franchezza, «scavano giudizi contro il sistema e contro di noi democratici cristiani». «Sapremo costituire — si chiedeva — quel senso che lasciano con una immagine più vicina a quella di una Dc che ha saputo risollevare l’Italia col sacrificio, la dedizione, il disinteresse di tante guide e di tanti militanti?». Il leader di Forze nuove tornò più volte a interrogarsi su quel difficile e drammatico momento, cercando di trovare nella propria coscienza le ragioni di una scelta difficile e penosa. «Se pure la scelta era difficile — scrisse nell’ottobre del ’90 — chi era amico di Moro la compì con libera e scrupolosa coscienza», precisando che «la coscienza è sempre in qualche misura condizionata dal costume, dagli influssi dominanti della cultura».
La tragica scomparsa di Moro, il venir meno della solidarietà nazionale con il progressivo disimpegno del Pci, e l’emergere della disponibilità socialista a far parte di un esecutivo basato sulla formula del pentapartito, convinse Donat-Cattin a escludere qualsiasi forma di collaborazione governativa con il Pci. Nel 1980 fu l’estensore del «preambolo» alla mozione della maggioranza al Congresso, che accoglieva una pregiudiziale contraria al coinvolgimento del Pci nell’area di governo.
Molti interpretarono questa sua linea se non un tradimento certo un radicale abbandono delle sue antiche battaglie. In realtà, rileggendo oggi, a circa quarant’anni di distanza quella vicenda, va ricordato che la sua posizione era riflesso di una diversa e contrapposta visione dello Stato. Donat-Cattin rifiutava l’idea dello Stato socialista inteso come «economia statizzata e burocratizzata», «liquidazione della libertà di un paese». Giudicava fatale per la democrazia, «una maggioranza pressoché unanimistica, con tutti e due i piedi dentro la “democrazia consociativa” senza controllo, slittante verso la strategia incontrollabile di piccoli gruppi dirigenti».
Ma egli intendeva anche evitare che la Dc venisse sospinta a destra, a interpretare un ruolo conservatore nel quadro politico nazionale. Aveva affermato, un anno prima, il 12 agosto 1979 alla Camera, per definire la fisionomia del suo partito: «Noi non siamo marxisti né siamo liberali. Siamo cresciuti nel solco tracciato per faticosi decenni nella gleba dell’Italia contadina, tra le minoranze cattoliche dei quartieri operai e degli opifici di vallata della prima e della seconda industrializzazione, nel popolo minuto dedito all’artigianato e al commercio, nella schiera interminabile di educatori, intellettuali, uomini di pensiero, nella più ristretta schiera di imprenditori, di scienziati, di ricercatori chiamati alla vita sociale dalla ispirazione cristiana (…) E siamo i continuatori della tradizione politica del popolarismo».
La drammatica vicenda di suo figlio Marco lo spinse ad abbandonare, il 31 maggio 1980, l’incarico di vicesegretario del partito e qualsiasi carica politica. Furono momenti durissimi, laceranti che lasciarono pesanti segni su un uomo forte e coraggioso come Donat-Cattin. Lo sorresse la sua fede. Scriveva a Cossiga il 4 luglio 1988, dopo la morte di Marco: «La fede è faticosa per la mia logorata umanità. Eppure “tutto è Grazia”».
Tornò alla politica tra il 1986 e il 1989 come ministro della Sanità e di nuovo ministro del Lavoro con Andreotti nel 1989. Sono gli anni in cui matura la crisi del sistema politico italiano. Donat-Cattin non credeva che la soluzione si dovesse trovare nel cambiamento del vecchio sistema, imperniato sul ruolo centrale dei partiti e sul sistema proporzionale. Temeva fortemente un cambiamento poco ponderato, che rischiava di incidere negativamente sulla vita democratica nazionale. Temeva soprattutto le avventure plebiscitarie, i partiti personali, il peso eccessivo e l’ingresso sempre più invadente del potere economico e finanziario nella vita politica italiana.
La sua morte, avvenuta il 17 marzo 1991, precede di poco le grandi trasformazioni destinate a modificare radicalmente quel sistema politico nel quale Donat-Cattin si era formato e aveva operato. Precedeva di poco anche la conclusione della lunga esperienza politica della Democrazia cristiana, di cui era stato una delle espressioni più vivaci e coerenti, avendone animato i dibattiti con l’obiettivo di rivendicare il “primato del sociale” e di riaffermare la natura popolare del suo partito.
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