Dalla crisi istituzionale del Venezuela alle elezioni europee fino all’avvio della campagna elettorale per le primarie in vista delle presidenziali negli Stati Uniti. Il 2019 sembra essere un anno cruciale per il futuro della democrazia sullo scacchiere mondiale. Alberto Baviera per l’Agenzia SIR ha intervistato Damiano Palano, direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica.
“Rispetto a vent’anni fa, è cambiato lo scenario globale in cui le democrazie si trovano a vivere”. Parte da qui Damiano Palano, direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica, per analizzare lo stato della democrazia nel mondo e le sue prospettive.
Professore, per decenni si è ritenuto che la democrazia, almeno nell’Occidente, fosse un fatto acquisito ma da almeno 15 anni ci stiamo accorgendo che non è così. Quali le ragioni di questa crisi o messa in discussione?
I motivi di quella che alcuni politologi chiamano “recessione democratica” sono diversi. In primo luogo, si è esaurita la spinta propulsiva della “terza ondata” di democratizzazione, iniziata alla metà degli anni Settanta ed esplosa soprattutto negli anni Novanta del secolo scorso. Allora sembrava che l’estensione globale della democrazia dovesse procedere gradualmente ma senza sosta.
Invece, cos’è successo?
Poco meno di una quindicina di anni fa la marcia si è arrestata. Il numero delle democrazie (intese anche in un senso piuttosto blando) non è più cresciuto. Anzi, secondo Freedom House, un’organizzazione che si occupa di “mappare” lo stato della libertà nel mondo, gli ultimi tredici anni sono stati contrassegnati da un costante arretramento. Alcuni Stati che avevano imboccato la via della “democratizzazione” (come per esempio la Russia e molte delle repubbliche ex-sovietiche) sono tornati a essere regimi autoritari, “autoritarismi competitivi”, o comunque regimi “ibridi” non pienamente democratici. Inoltre, alcune delle nuove democrazie nate negli anni Novanta (soprattutto Ungheria e Polonia) hanno imboccato una deriva “illiberale”, di cui ancora non riusciamo a prevedere gli esiti.
E nelle democrazie “consolidate” qual è la situazione?
Anche qui ci sono segnali di instabilità che destano allarme, come per esempio l’ascesa di forze “anti-sistema”, il ricorso alla delegittimazione degli avversari politici, la crescente polarizzazione o le tensioni che mettono in discussione la divisione dei poteri. In questo caso i motivi hanno a che vedere con le conseguenze della crisi economica globale, che in un decennio ha fatto emergere l’aumento delle disuguaglianze. Ma, oltre che in termini economici, le tensioni di oggi sono state spiegate anche come reazioni “culturali” alla globalizzazione. Secondo questa tesi, i ceti popolari delle democrazie occidentali ritengono che i loro valori, il loro status, la loro stessa sicurezza sia minacciata dalla globalizzazione. E manifestano anche un’avversione nei confronti di quelle che impropriamente si usano chiamare le “élite”, considerate irrimediabilmente distanti dal “popolo”, più che per la ricchezza, per i loro valori “cosmopoliti”.
Valutata a livello mondiale, la democrazia gode di buona salute, è febbricitante o è seriamente malata?
Non dobbiamo essere eccessivamente pessimisti, pur a fronte di una serie di tendenze critiche. Non siamo in una situazione davvero analoga a quella che precedette il crollo dei regimi democratici tra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Per quanto ci possano essere somiglianze tra la condizione di oggi e quella di allora, la violenza politica è in larga parte assente dalle nostre democrazie. Ma ci sono processi strutturali che incidono sulla buona salute dei nostri sistemi politici: la “crisi fiscale”, il declino relativo delle economie occidentali, il mutamento dello scenario comunicativo, la caduta della fiducia nella classe politica, lo sgretolamento dei partiti. Tutti questi processi non devono indurci a dire che oggi la democrazia è “seriamente malata”. Ma la sua salute appare oggi più problematica che in passato, principalmente perché le sue “barriere immunitarie” si sono notevolmente indebolite.
E poi c’è da considerare che il “momento unipolare” è finito e sono emersi (o tornati) nuovi protagonisti della politica globale, come Cina e Russia, i cui modelli politici sono molto lontani dalla liberal-democrazia occidentale. E non possiamo illuderci che non cerchino di “esportare” i loro valori, o comunque di esercitare forme di influenza sui paesi democratici.
Sono sufficienti i meccanismi previsti dalle Costituzioni e gli anticorpi nel corpo sociale per evitare una deriva della democrazia?
Le garanzie congegnate dopo la guerra per “razionalizzare” l’architettura politica potrebbero rivelarsi insufficienti. La vita di ogni democrazia dipende infatti dalle “regole del gioco”. Ma ancora più importanti sono probabilmente quelle regole non scritte, condivise dalle forze politiche, che sostengono un assetto democratico e lo rendono possibile. Gli attori politici e sociali devono ritenere legittima la democrazia, o, meglio, devono considerare come legittimi i rispettivi avversari.
Ma alcuni politologi sostengono che sia già in atto oggi un processo di “deconsolidamento”, ossia di indebolimento della legittimazione di cui gode la democrazia. Secondo alcuni studiosi, una quota crescente dei cittadini occidentali (in particolare le giovani generazioni) nutrirebbe ostilità o indifferenza nei confronti della democrazia. Si tratta di una tesi discutibile, che interpreta in modo un po’ semplicistico i dati di alcuni sondaggi. Ma nonostante la tesi del “deconsolidamento” sia piuttosto debole, possiamo ugualmente riconoscere nell’aumento della conflittualità (anche solo verbale) registrata negli ultimi anni, nel ricorso a stili comunicativi particolarmente aggressivi, nella sistematica delegittimazione dell’avversario, nell’attacco ai media indipendenti, nella giustificazione delle forzature istituzionali, il segnale che effettivamente qualcosa sta cambiando nel sostrato che regge la vita democratica.
Secondo Lei, quali possono essere gli snodi che metteranno alla prova l’istituto democratico per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni?
Per quanto riguarda il Vecchio continente, uno snodo cruciale è rappresentato dalle sorti dell’Unione europea. La strada di una riforma in senso “federale” sembra ormai difficilmente praticabile, ma pare anche molto difficile che si possa tornare indietro, “restituendo” agli Stati le porzioni di sovranità che hanno trasferito al livello sovranazionale.
Un altro snodo è rappresentato dalla presidenza di Donald Trump. Naturalmente Trump non è la causa della polarizzazione che oggi si registra negli USA, ma è semmai un suo frutto, perché il processo ha radici più profonde. Non sappiamo ancora chi saranno i candidati alle prossime presidenziali, ma sicuramente la prossima corsa alla Casa Bianca dirà una parola importante su quali saranno gli scenari futuri. Accanto a questi due fattori (e al netto dell’andamento dell’economia), i mutamenti nello scenario comunicativo giocheranno un ruolo davvero importante.
In che senso?
Negli ultimi anni abbiamo sentito parlare molto di “disintermediazione”, ma non è forse questo l’aspetto più rilevante. Il punto è che l’ascesa dei social media (insieme al declino dei media generalisti) potrebbe favorire ulteriormente la polarizzazione. Già oggi – e sempre più nei prossimi anni – la nostra “dieta informativa” sarà personalizzata, sia per gli algoritmi di Google che ci proporranno informazioni in linea con le nostre convinzioni sia perché saremo noi stessi a chiuderci in una “bolla” personale, all’interno della quale penetrano solo le informazioni che rafforzano le nostre idee. Se davvero si dovesse realizzare una “bubble-democracy”, una “democrazia di bolle”, probabilmente la polarizzazione aumenterebbe ancora di intensità.
Attorno a che cosa ci si può riscoprire “comunità di destini” che promuovendo il progresso ricerca il bene comune?
Dato che i problemi sono complessi, le soluzioni non possono essere semplici. Per molto tempo in Italia si è pensato che, per rispondere alle sfide del mutamento, fosse sufficiente mettere mano alla “macchina” dello Stato, con riforme più o meno generali. O si è ritenuto che il modo per superare le tante “anomalie” italiane fosse ancorarsi al “vincolo esterno” europeo. Per molti motivi, negli ultimi trent’anni si sono invece indebolite le basi “culturali” della democrazia. Le culture politiche novecentesche si sono quasi completamente dissolte.
Per quanto possa apparire una strada scarsamente praticabile, il solo modo per rispondere al logoramento delle nostre democrazie, e per rafforzare il loro “sistema immunitario”, è invece ripartire da ciò che il Novecento ci ha lasciato in eredità. “Reinventando” i partiti, coltivando con pazienza una nuova classe politica, e ricostruendo un orizzonte culturale che sappia “aggiornare” le vecchie tradizioni politiche, senza pensare di poterle sostituire con effimere soluzioni comunicative.
(Tratto da www.agensir.it)
“Rispetto a vent’anni fa, è cambiato lo scenario globale in cui le democrazie si trovano a vivere”. Parte da qui Damiano Palano, direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica, per analizzare lo stato della democrazia nel mondo e le sue prospettive.
Professore, per decenni si è ritenuto che la democrazia, almeno nell’Occidente, fosse un fatto acquisito ma da almeno 15 anni ci stiamo accorgendo che non è così. Quali le ragioni di questa crisi o messa in discussione?
I motivi di quella che alcuni politologi chiamano “recessione democratica” sono diversi. In primo luogo, si è esaurita la spinta propulsiva della “terza ondata” di democratizzazione, iniziata alla metà degli anni Settanta ed esplosa soprattutto negli anni Novanta del secolo scorso. Allora sembrava che l’estensione globale della democrazia dovesse procedere gradualmente ma senza sosta.
Invece, cos’è successo?
Poco meno di una quindicina di anni fa la marcia si è arrestata. Il numero delle democrazie (intese anche in un senso piuttosto blando) non è più cresciuto. Anzi, secondo Freedom House, un’organizzazione che si occupa di “mappare” lo stato della libertà nel mondo, gli ultimi tredici anni sono stati contrassegnati da un costante arretramento. Alcuni Stati che avevano imboccato la via della “democratizzazione” (come per esempio la Russia e molte delle repubbliche ex-sovietiche) sono tornati a essere regimi autoritari, “autoritarismi competitivi”, o comunque regimi “ibridi” non pienamente democratici. Inoltre, alcune delle nuove democrazie nate negli anni Novanta (soprattutto Ungheria e Polonia) hanno imboccato una deriva “illiberale”, di cui ancora non riusciamo a prevedere gli esiti.
E nelle democrazie “consolidate” qual è la situazione?
Anche qui ci sono segnali di instabilità che destano allarme, come per esempio l’ascesa di forze “anti-sistema”, il ricorso alla delegittimazione degli avversari politici, la crescente polarizzazione o le tensioni che mettono in discussione la divisione dei poteri. In questo caso i motivi hanno a che vedere con le conseguenze della crisi economica globale, che in un decennio ha fatto emergere l’aumento delle disuguaglianze. Ma, oltre che in termini economici, le tensioni di oggi sono state spiegate anche come reazioni “culturali” alla globalizzazione. Secondo questa tesi, i ceti popolari delle democrazie occidentali ritengono che i loro valori, il loro status, la loro stessa sicurezza sia minacciata dalla globalizzazione. E manifestano anche un’avversione nei confronti di quelle che impropriamente si usano chiamare le “élite”, considerate irrimediabilmente distanti dal “popolo”, più che per la ricchezza, per i loro valori “cosmopoliti”.
Valutata a livello mondiale, la democrazia gode di buona salute, è febbricitante o è seriamente malata?
Non dobbiamo essere eccessivamente pessimisti, pur a fronte di una serie di tendenze critiche. Non siamo in una situazione davvero analoga a quella che precedette il crollo dei regimi democratici tra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Per quanto ci possano essere somiglianze tra la condizione di oggi e quella di allora, la violenza politica è in larga parte assente dalle nostre democrazie. Ma ci sono processi strutturali che incidono sulla buona salute dei nostri sistemi politici: la “crisi fiscale”, il declino relativo delle economie occidentali, il mutamento dello scenario comunicativo, la caduta della fiducia nella classe politica, lo sgretolamento dei partiti. Tutti questi processi non devono indurci a dire che oggi la democrazia è “seriamente malata”. Ma la sua salute appare oggi più problematica che in passato, principalmente perché le sue “barriere immunitarie” si sono notevolmente indebolite.
E poi c’è da considerare che il “momento unipolare” è finito e sono emersi (o tornati) nuovi protagonisti della politica globale, come Cina e Russia, i cui modelli politici sono molto lontani dalla liberal-democrazia occidentale. E non possiamo illuderci che non cerchino di “esportare” i loro valori, o comunque di esercitare forme di influenza sui paesi democratici.
Sono sufficienti i meccanismi previsti dalle Costituzioni e gli anticorpi nel corpo sociale per evitare una deriva della democrazia?
Le garanzie congegnate dopo la guerra per “razionalizzare” l’architettura politica potrebbero rivelarsi insufficienti. La vita di ogni democrazia dipende infatti dalle “regole del gioco”. Ma ancora più importanti sono probabilmente quelle regole non scritte, condivise dalle forze politiche, che sostengono un assetto democratico e lo rendono possibile. Gli attori politici e sociali devono ritenere legittima la democrazia, o, meglio, devono considerare come legittimi i rispettivi avversari.
Ma alcuni politologi sostengono che sia già in atto oggi un processo di “deconsolidamento”, ossia di indebolimento della legittimazione di cui gode la democrazia. Secondo alcuni studiosi, una quota crescente dei cittadini occidentali (in particolare le giovani generazioni) nutrirebbe ostilità o indifferenza nei confronti della democrazia. Si tratta di una tesi discutibile, che interpreta in modo un po’ semplicistico i dati di alcuni sondaggi. Ma nonostante la tesi del “deconsolidamento” sia piuttosto debole, possiamo ugualmente riconoscere nell’aumento della conflittualità (anche solo verbale) registrata negli ultimi anni, nel ricorso a stili comunicativi particolarmente aggressivi, nella sistematica delegittimazione dell’avversario, nell’attacco ai media indipendenti, nella giustificazione delle forzature istituzionali, il segnale che effettivamente qualcosa sta cambiando nel sostrato che regge la vita democratica.
Secondo Lei, quali possono essere gli snodi che metteranno alla prova l’istituto democratico per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni?
Per quanto riguarda il Vecchio continente, uno snodo cruciale è rappresentato dalle sorti dell’Unione europea. La strada di una riforma in senso “federale” sembra ormai difficilmente praticabile, ma pare anche molto difficile che si possa tornare indietro, “restituendo” agli Stati le porzioni di sovranità che hanno trasferito al livello sovranazionale.
Un altro snodo è rappresentato dalla presidenza di Donald Trump. Naturalmente Trump non è la causa della polarizzazione che oggi si registra negli USA, ma è semmai un suo frutto, perché il processo ha radici più profonde. Non sappiamo ancora chi saranno i candidati alle prossime presidenziali, ma sicuramente la prossima corsa alla Casa Bianca dirà una parola importante su quali saranno gli scenari futuri. Accanto a questi due fattori (e al netto dell’andamento dell’economia), i mutamenti nello scenario comunicativo giocheranno un ruolo davvero importante.
In che senso?
Negli ultimi anni abbiamo sentito parlare molto di “disintermediazione”, ma non è forse questo l’aspetto più rilevante. Il punto è che l’ascesa dei social media (insieme al declino dei media generalisti) potrebbe favorire ulteriormente la polarizzazione. Già oggi – e sempre più nei prossimi anni – la nostra “dieta informativa” sarà personalizzata, sia per gli algoritmi di Google che ci proporranno informazioni in linea con le nostre convinzioni sia perché saremo noi stessi a chiuderci in una “bolla” personale, all’interno della quale penetrano solo le informazioni che rafforzano le nostre idee. Se davvero si dovesse realizzare una “bubble-democracy”, una “democrazia di bolle”, probabilmente la polarizzazione aumenterebbe ancora di intensità.
Attorno a che cosa ci si può riscoprire “comunità di destini” che promuovendo il progresso ricerca il bene comune?
Dato che i problemi sono complessi, le soluzioni non possono essere semplici. Per molto tempo in Italia si è pensato che, per rispondere alle sfide del mutamento, fosse sufficiente mettere mano alla “macchina” dello Stato, con riforme più o meno generali. O si è ritenuto che il modo per superare le tante “anomalie” italiane fosse ancorarsi al “vincolo esterno” europeo. Per molti motivi, negli ultimi trent’anni si sono invece indebolite le basi “culturali” della democrazia. Le culture politiche novecentesche si sono quasi completamente dissolte.
Per quanto possa apparire una strada scarsamente praticabile, il solo modo per rispondere al logoramento delle nostre democrazie, e per rafforzare il loro “sistema immunitario”, è invece ripartire da ciò che il Novecento ci ha lasciato in eredità. “Reinventando” i partiti, coltivando con pazienza una nuova classe politica, e ricostruendo un orizzonte culturale che sappia “aggiornare” le vecchie tradizioni politiche, senza pensare di poterle sostituire con effimere soluzioni comunicative.
(Tratto da www.agensir.it)
La globalizzazione è democrazia? La finanziarizzazione (copyright L.Gallino) dell’economia lo è? L’indifferenza delle classi dirigenti rispetto agli impatti della digitalizzazione e dell’industria 4.0 sull’occupazione sono coerenti con i principi democratici? E la devastazione dell’ambiente naturale con le sue conseguenze anche economiche a lungo termine? I cosiddetti populisti che fanno tanta paura sono solo un sintomo, una conseguenza. I sistemi democratici sembrano affetti da una sindrome autoimmune. Le democrazie liberali tragicamente stanno lentamente erodendo se stesse. Se la politica non prenderà coscienza di questi processi la decadenza sarà irreversibile. Con quali conseguenze non so. Chissà cosa direbbero oggi uomini eterogenei ma dotati di grande intelligenza “storica” come Donat Cattin, come Paolo VI, come Moro, come Bobbio?