L’eredità dell’Appello “ai liberi e forti”



SPECIALE CENTENARIO - Francesco Occhetta SJ    31 Gennaio 2019       0

Sull’ultimo numero de “La Civiltà Cattolica”, autorevole rivista dei Gesuiti, compare un approfondito scritto dal titolo Luigi Sturzo e il Partito popolare italiano. L’eredità dell’Appello “ai liberi e forti”. Ne è autore padre Francesco Occhetta, recente ospite della nostra Associazione al riuscito e partecipato incontro sull’attualità del Popolarismo, insieme a Rosy Bindi e Guido Bodrato. Dalla sua ampia trattazione abbiamo ricavato un estratto per stralci successivi, cuciti redazionalmente, che proponiamo alla vostra lettura.

 

La prima cosa attenzione viene posta sulla difficile congiuntura sociale e politica del dopoguerra. “In quel particolare contesto storico, il colpo d’ala di Sturzo fu quello di creare un partito laico, democratico e di ispirazione cristiana, con una precisa piattaforma programmatica: difesa della famiglia e libertà di insegnamento, lavoro inteso come diritto e referendum locali, centralità delle autonomie territoriali e forme di previdenza sociale, rappresentanza proporzionale e voto alle donne, libertà della Chiesa e costruzione di un ordine mondiale nuovo”.

“Il biografo più noto di Sturzo, Gabriele De Rosa, non ha esitato a definire il breve Appello, composto da sole 890 parole, «uno dei docu­menti più elevati e di maggior impegno civile della letteratura politica, una carta d’identità perfettamente laica, senza riserve e pregiudiziali clericali di nessun genere, espressione singolare di una consapevolezza altamente liberale dei problemi di un moderno Stato democratico»”.

Anche attingendo dagli Archivi del Vaticano, padre Occhetta ripercorre il non facile dialogo con la gerarchia per far comprendere il progetto del Partito popolare italiano, che si avviò secondo le idee del prete di Caltagirone. “Con una sola mossa Sturzo conseguì due obiettivi: far aderire il mondo cattolico a un programma progressista e costituire un’area po­litica in cui far prevalere l’unità sulle differenze. Al partito aderirono persone di varia provenienza: dal gruppo dei democratico-cristiani, già ispirato da Romolo Murri, a quello dei clerico-moderati; dai cattolici-liberali ai cattolici-intransigenti che avevano militato nell’Opera dei Congressi, sciolta nel 1904 da Pio X”.

“L’adesione al PPI fu, per le varie anime del mondo cattolico, un’oasi di unità in mezzo al deserto della dispersione; ma dopo poco tempo le ragioni della divisione prevalsero di nuovo su quelle dell’unità”.

Al di là delle vicende storiche che limitarono a pochi anni l’esperienza del PPI, rimangono notevoli gli aspetti di attualità dell’esortazione “ai liberi e forti”: “La finalità alta e nobile con cui Sturzo iniziò il suo Appello era quella di risvegliare le coscienze assopite e umiliate dal male della guerra: «A tutti gli uomini liberi e forti che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini supremi della Patria, sen­za pregiudizi né preconcetti facciamo appello perché uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e di libertà».

L’obiettivo politico dell’Appello era «garantire la pace durevole» attraverso un equilibrio politico tra la sovranità degli Stati e gli «interessi sovranazionali» mediante un organo internazionale garante, la Società delle Nazioni. Perfino i punti specifici che Sturzo enumera continuano a essere oggi di estrema attualità: il disarmo universale, l’abolizione del segreto dei trattati, la libertà dei mari, una legislazione sociale internazionale, l’uguaglianza nel lavoro, la garanzia delle libertà religiose «contro ogni oppressione di setta». Al centro dell’Appello si intuisce il cambiamento del paradigma politico sturziano: «Ad uno Stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni –, che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private»”.

“È per questo che l’art. 5 della Costituzione italiana sulle autonomie locali conserva l’eredità sturziana; soltanto attraverso le riforme delle autonomie locali è possibile ammettere democraticamente nel sistema le «masse di esclusi», che ai tempi di Sturzo erano i contadini e la piccola e media borghesia, mentre oggi sono gli immigrati, i disoccupati, gli emarginati dal sistema”.

La breve vita del PPI si spiega anche con la divisione interna acuita dalla crisi e dalla reazione fascista, che Sturzo contrasto fino a quando non fu isolato dal Vaticano: “Il suo «no» all’alleanza con le destre liberali nelle amministrative del 1920 e il suo appoggio (di fatto) al successo delle sinistre costò al partito un’insanabile frattura interna. L’area dei clerico-moderati – considerati da Sturzo un gruppo di «eunuchi politici» – si staccò dal partito e venne assorbita dal fascismo, mentre l’area moderata interna – la parte favorevole alla confessionalità del partito – appoggiò il primo governo Mussolini nell’autunno del 1922, mettendo in minoranza Sturzo”.

“Il futuro Duce, nato politicamente tra le fila socialiste, si era insidiosamente presentato a molti cattolici popolari come un lupo travestito da agnello, per creare le condizioni politiche per i 22 anni di esilio di Sturzo – che ebbero inizio il 25 ottobre 1924 – ed essere l’unico vero interlocutore politico davanti alla gerarchia ecclesiastica”.

Bisogna ora domandarsi che cosa ci rimane dell’esperienza del Partito popolare sturziano.

“Anzitutto rimane un metodo: per Sturzo, a differenza di Murri, occorreva formare le coscienze dei cattolici prima di entrare nel campo politico; altrimenti, il potere – la destra di allora – avrebbe finito per cooptare i cattolici non formati. Per questo egli puntava sulla formazione di persone scelte, per dare voce ai poveri, secondo l’insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa. Il popolarismo era per lui l’antidoto al populismo, grazie all’arte della mediazione, allo sviluppo costituzionale, alla difesa dell’iniziativa privata, alla centralità delle autonomie locali”.

“I cattolici in politica dovrebbero essere riconoscibili non da un contenitore, ma dal loro atteggiamento spirituale e interiore; i politici che vivono la politica da cattolici non si devono porre solo il problema di «cosa» essere, ma di cosa fare e verso dove andare. L’irrilevanza politico-partitica di un «elettorato cattolico» distribuito ormai fra tutte le forze politiche non sarebbe tanto grave quanto un’irrilevanza prima di tutto di opinioni e di idee, di proposte concrete e di contenuti”.

Oggi però non si fa politica senza un leader: a questa sottintesa obiezione Occhetta risponde così: “Per la tradizione cattolica, un leader è anzitutto un testimone in cui tutti si riconoscono, perché è capace di difendere i diritti e di chiedere i giusti sacrifici; è capace di proporre percorsi di riconciliazione sociale e di umanizzare gli spazi pubblici, di offrire servizi alle famiglie e prendere posizione in favore della vita e dello sviluppo solidale – oggi, ad esempio, in un ambito che va dalla crisi della finanza a quella ecologica e a quella indotta dalle migrazioni e dalle guerre – e così via”.

L’esempio è Sturzo, leader non per sé, ma per gli altri a servizio dei comuni valori: “I fatti, i bisogni delle persone, le ragioni della giustizia e della libertà hanno suscitato in lui l’«Appello ai liberi e forti», perché «tutti noi viviamo non in un isolamento individualistico, ma in questa società che unisce insieme Cristo ed i cristiani»”.

“Per comporre gli interessi e trovare una soluzione la vita di partito deve riuscire a sostenere dialettiche e posizioni diverse, perché la politica deve saper cucire le divisioni, non espellere chi non la pensa come i leader”: che differenza con capi e capetti politici di questi ultimi anni....

“In un tempo politico in cui l’arroganza del potere sfida i diritti e i doveri riconosciuti dalla legge, l’esperienza politica di 100 anni fa permette al mondo cattolico di ritrovarsi «in questa grave ora» per essere «uniti insieme» come voce dei deboli, garante dei diritti, alternativa alla società dei consumi e protagonista di un «umanesimo comunale» da cui selezionare una nuova classe dirigente per una nuova stagione politica. Solo così – come è stato invocato da molti – potrà essere ascoltata nello spazio pubblico la voce della coscienza cristiana, che in Italia è ancora quella cattolica”.


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