Riflessioni sulla magistratura debordante



Giuseppe Ladetto    25 Gennaio 2019       4

In Italia, è stato detto che il potere esecutivo è debole per un insieme di fattori: fra questi, ci sarebbe anche un debordare della magistratura dal ruolo che le è proprio.

In argomento, a livello partitico, ci sono quanti (M5S e una consistente parte della cosiddetta sinistra) respingono una tale rappresentazione quando non vedono nei magistrati l’argine al dilagare della corruzione e all’invasività di una classe politica clientelare. Altri invece, come Forza Italia, accusano la magistratura di “fare politica” a favore della sinistra. In entrambe le posizioni c’è molto di strumentale perché le iniziative del potere giudiziario sono considerate prevalentemente nell’ottica delle ricadute su di sé o sugli avversari. Infatti, come ha detto Carlo Nordio, i politici per anni hanno utilizzato gli avvisi di garanzia e le inchieste come una clava contro i rivali.

Tuttavia, al di là delle strumentalizzazioni, è lecito essere perplessi a fronte di molte, anzi troppe, iniziative giudiziarie a carico di esponenti del mondo politico. Già due fondamentali partiti della Prima Repubblica sono stati spazzati via da iniziative delle procure. In seguito, esponenti di primo piano delle forze politiche succedutesi al governo del Paese sono entrati nel mirino della magistratura, per non parlare delle numerose iscrizioni a registro degli indagati di sindaci e presidenti di Regioni e Province di varie parti politiche. Come ha detto Paolo Mieli in un dibattito televisivo, pare assai difficile ritenere che tutto ciò sia fortuito.

Subito si ribatte che queste sono chiacchiere da bar perché non tengono conto della complessità delle indagini e delle procedure che impongono certi atti. Che dire? Da cittadino privo di cultura giuridica, sono andato a cercare (fra le molte annotazioni di articoli e letture che conservo) alcune dichiarazioni (di cui avevo memoria) di eminenti personalità che ritengo competenti e capaci di valutazioni serene.

Ripropongo quanto scritto da Mario Cicala (già membro del CSM ed ex presidente dell’Associazione nazionale dei magistrati), in un articolo sul “Nostro Tempo” di qualche anno fa. In tutto l’Occidente ed in particolare in Europa, si sta affermando una democrazia elitaria nella versione giudiziaria. La democrazia giudiziaria poggia sulla convinzione dei giudici di non essere un mero strumento per l’attuazione della legge approvata dal parlamento, bensì di essere chiamati a dare corpo e sostanza al Diritto, a qualche cosa che prescinde dalle singole leggi scritte. Questa convinzione è favorita dall’intreccio di fonti normative (Costituzione, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Carta di Lisbona, ecc.) in cui primeggiano disposizioni di principio ritenute di rango superiore alla legge scritta. Oggi una parte della magistratura non accetta il mito della soggezione alla legge e rivendica un ruolo politico. Così, il magistrato diventa giudice e sacerdote, non attua solo il diritto, plasma anche la morale.

Analoghe considerazioni fa Michele Ainis in La Costituzione e i suoi nemici. Il costituzionalista si chiede quanto sia grave la malattia della giustizia italiana rispetto allo stato di salute dei sistemi europei se la Banca Mondiale, in tema di giustizia civile, classifica l’Italia al 156° posto su 181 paesi, mentre quasi tutti gli Stati europei sono fra i primi 50. E non è vero che l’Italia spenda poco per il suo apparato giudiziario; piuttosto spende male, dilapida quattrini in un’organizzazione elefantiaca, che avrebbe bisogno d’una robusta cura dimagrante. Ma senza una giustizia che funzioni, l'Italia non verrà mai fuori dalla palude in cui si trova. Nessun rivolgimento sociale o culturale, aggiunge Ainis, avrà gambe per correre se la magistratura è a sua volta azzoppata, se non può più somministrare i torti e le ragioni.

In questa malattia degenerativa, gioca anzitutto una componente culturale che ha trasformato il modo con cui i giudici vivono la propria funzione e la propria stessa indipendenza. Durante l’Ottocento, quest’ultima era legata all’idea di leggi certe e chiare, applicabili senza spirito di parte. Oggi sappiamo che la discrezionalità interpretativa è un momento insopprimibile di ogni decisione giudiziaria, tanto più in un ordinamento permeato da valori elastici e plurali come quelli scolpiti nella Costituzione. L’indipendenza dei giudici si è così tradotta nella salvaguardia della loro libertà ideologica, che a sua volta giustifica e sorregge il correntismo della magistratura. Si può (si chiede ancora Ainis) domandare alla magistratura italiana di non appannare la propria indipendenza saltando dai palazzi di giustizia a quelli del governo? C’è sempre un che di stonato quando l’arbitro si trasforma in giocatore.

Se qualcuno pensa che siano giudizi di personaggi legati, sul piano culturale, a posizioni di centrodestra o comunque conservatrici, vediamo allora un insospettabile in tal senso. Luciano Violante (in un articolo su “La Stampa” del 14/11/2009) scriveva che “la crescita del potere dei giudici ha radici profonde; non riguarda solo l’Italia e va affrontata con spirito di classe dirigente. Non esiste un governo mondiale, ma esistono un tribunale penale internazionale e una corte internazionale di giustizia. Non esiste un governo europeo, ma ci sono due corti europee, una a Strasburgo e una a Lussemburgo. (…) Viviamo in società giuridificate che consegnano ai magistrati un ruolo di governo. In Italia, il fenomeno è più accentuato che altrove (…). Le diverse magistrature sono messe sul podio dal numero sterminato di leggi. Il reato di immigrazione clandestina delega ai giudici la risoluzione di un drammatico problema politico e sociale. Una recente legge ha attribuito alla Corte dei conti il compito di controllo dei bilanci in corso di esercizio per tutti gli Enti pubblici, 8000 Comuni, 110 Province, tutte le Regioni e altre migliaia di amministrazioni, una misura «centralistica» e «giustizialista» che consegna il timone della pubblica amministrazione alla magistratura contabile”.

Violante si chiede se sia possibile conciliare questo ruolo dei magistrati con la democrazia. La sua risposta è che servono misure che riconducano la magistratura nella fisiologia delle moderne democrazie, chiarendone le responsabilità e salvaguardandone l'indipendenza. Aggiunge che la struttura del CSM, organo di raccordo tra magistratura e politica, va cambiata perché è cambiato il ruolo del giudice: al suo interno non più di 1/3 dei componenti deve essere di magistrati, a cui aggiungere 1/3 di eletti dal parlamento e 1/3 di personalità nominate dal capo dello stato tra coloro che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di assoluto rilievo. Per cancellare qualunque sospetto di una giustizia domestica, propone di sottrarre la competenza per la responsabilità disciplinare agli organi di autogoverno e di attribuirla per tutte le magistrature ad un’Alta Corte. In ogni caso va interrotta la sinergia tra magistrati e mezzi di informazione.

In tempi più recenti, Marcello Sorgi, in un articolo su “La Stampa” (20/1/2017), in occasione del  venticinquennale dell'operazione “Mani pulite” ad opera della Procura di Milano, scriveva che, trascorso un quarto di secolo, nulla è cambiato e il finanziamento illecito dei partiti è aumentato. Il punto di arrivo di tale svolta storica è un Paese in cui la politica vive in libertà vigilata in attesa delle decisioni della magistratura a qualsiasi livello (Procure, Tribunali, Cassazione, Corte Costituzionale ed ora l’ANAC di Cantone). La magistratura non si occupa più solo di prevenire e punire la corruzione, ma in sostanza si propone di regolare la vita democratica, dalla legge elettorale, ai referendum e perfino al contrasto tra Movimento 5 stelle e i suoi eletti. Tutto, ovviamente, in nome della Costituzione che sancisce la separazione dei poteri, e senza alcun cenno di inversione di tendenza.

C’è poi il bel libro di Giuseppe Ayala Chi ha paura muore ogni giorno, in cui ricorda gli anni di collaborazione con Giovanni Falcone e le lunghe discussioni sulle necessarie riforme della magistratura. Ayala riporta le idee di Falcone, da lui condivise. Ne riassumo i punti più rilevanti. 1) L’unicità delle carriere è estranea a tutti gli ordinamenti dei principali Paesi occidentali; inoltre, il nuovo codice fondato sul modello accusatorio esalta la diversità di funzioni fra pubblico ministero e giudice e inevitabilmente comporta la separazione delle carriere. 2) Il principio di obbligatorietà dell’azione penale è impossibile da osservare ed è fra le cause dell'inaccettabile lentezza della macchina giudiziaria. 3) I tre gradi di giudizio, ignoti agli altri ordinamenti, allontanano oltre il ragionevole il passaggio della sentenza in giudicato. 4) L’Italia è il solo Paese a non disporre di una politica contro la criminalità, che non può essere lasciata alle scelte di capi ufficio delle procure o di singoli magistrati. Il Guardasigilli, che ne dovrebbe essere il titolare (come accade in tutti i Paesi occidentali), è privo di qualunque potere (le ispezioni che può disporre non possono dare luogo nemmeno allo spostamento di un cancelliere e sono inutili): così come è oggi, il ministro della giustizia non serve a niente.

Per queste sue posizioni critiche, scrive Ayala, Giovanni Falcone fu oggetto di isolamento e di torbidi giochi di potere all’interno della magistratura e del CSM, tesi ad ostacolarne il cammino e impedire che egli assumesse gli incarichi ai quali per le sue capacità era più che titolato.

Alla lista dei critici dell'attuale stato della giustizia, si aggiunge anche Carlo Calenda che, in un recente libro (Orizzonti selvaggi), scrive: “I poteri del governo vanno rafforzati e tutelati dall'invadenza della giustizia (in particolare quella amministrativa)”.

Ernesto Galli della Loggia, allargando il discorso a un contesto più ampio che va al di là del solo nostro Paese, scrive che “le società occidentali sembrano essersi fatte un punto d’onore nel progressivo indebolimento dei loro valori identitari, del legame con la tradizione culturale, dunque con la storia, sostituiti da una vera e propria fissazione sulle regole e su chi e come le amministra (giudici e tribunali). Da tempo, in tal modo, le società occidentali appaiono sempre più avviate sulla strada dell’astrattezza e del formalismo, in una parola dell’irrealtà”.

Ora non credo che le dichiarazioni citate, per quanto colte al di fuori di un contesto più ampio, possano essere omologate a “chiacchiere da bar”. Penso piuttosto che pongano un problema reale. Sarebbe quindi il caso che le differenti forze politiche, al di fuori di ogni strumentalizzazione, affrontassero con spirito di classe dirigente (come ha scritto Luciano Violante) le cause della anomala crescita dello spazio occupato dalla magistratura per ripristinare un corretto equilibrio con gli altri poteri dello Stato e restituire alla politica il ruolo che le spetta in una democrazia funzionante. Una radicale riforma della giustizia è inoltre indispensabile vista la pesante incidenza negativa che le disfunzioni nel suo funzionamento hanno sull’economia (a partire dal PIL), sulla vita delle imprese e più in generale del Paese.

Viene detto che l'Italia è la patria del diritto e che ha la più bella Costituzione del mondo, ma ciò non dovrebbe impedire di guardare con attenzione agli ordinamenti vigenti in Paesi dove la giustizia funziona e non trascina indagini, cause e processi per anni, senza, sovente, giungerne a termine con un risultato.

Probabilmente i giuristi non saranno d'accordo, ma, da cittadino privo di cultura giuridica, credo di riflettere un'opinione diffusa tra la gente comune.


4 Commenti

  1. Credo che sia stata l’opinione pubblica a stimolare “l’invadenza” del potere giudiziario a causa dello scarso senso dell’onestà presente nella classe politica in via generale. Purtroppo la percezione di risultati positivi è davvero flebile. L’ultimo caso clamoroso di invadenza è l’entrata a gamba tesa su un operato sicuramente politico sul Ministro degli Interni che ha bloccato i porti, assecondando senza dubbio il prevalente sentire degli italiani, relativamente alla massiccia invasione di immigrati. Questo caso clamoroso credo farà molto male alla giustizia italiana che, forse, in futuro sarà soggetta a forti decurtazioni di quei poteri ora in discussione.

  2. Premesso che lo stato moderno, massimamente quello democratico, è uno stato di diritto (generalmente considerato una grande conquista di civiltà) e che, pertanto non può essere estromesso un certo controllo giudiziario, va rilevato in generale, se vogliamo essere salomonici, che perché funzioni un tale equilibrio tra politica e diritto c’è un solo modo per consentire che, al di là delle soluzioni tecnico giuridiche mai infallibili,consente che possa attuarsi, al di la della evidente sovranità della politica sul diritto, che della prima è figlio, visto che senza leggi stabilite dai politici l’ordinamento giuridico non può praticamente funzionare: i boni mores che nascono dal livello di civiltà dei componenti la civitas (di solito omogenei nell’ambito dei governati ed in quello dei governanti)e che sono alla base del patto di fedeltà tra governanti e popolo. Senza di esso nessuna regola di “controllo e bilanciamento” previsto dalle leggi può Funzionare. In un un clima del genere politici avranno sempre da lamentarsi dell’invasione di campo dei magistrati ed i magistrati avranno sempre da lamentarsi delle violazioni di legge, spesso anche penali, dei politici. E’ un peccato che tra i pareri espressi non vi fosse anche quello di Piercamillo Davigo che spesso ricorda quanto riportato da Cicerone e da Sant’Agostino che “REMOTA IUSTITIA QUID SUNT REGNA (GLI STATI) NISI MAGNA LATROCINIA (ASSOCIAZIONI A DELINQUERE), QUIA ET IPSA LATROCINIA QUID SUNT NISI PARVA REGNA?
    Gli ordinamenti giuridici e le istituzioni politiche sono realtà molto fragili che si reggono e raggiungono lo scopo socialmente utile per cui sono fondate, come tutte le realtà umane e sociali, sull’ANIMUS dei componenti più che sulle incastellature materiali.
    E’ questo che faceva dire a Machiavelli, sulla scia degli antici filosofi greci che LE BUONE LEGGI RAFFORZANO I BUONI COSTUMI MA LE BUONE LEGGI SENZA I BUONI COSTUMI NON SERVONO A NULLA. Figuriamoci poi se dei cattivi politici fanno delle leggi ingiuste trasformando il “regnum” in “latrocinium” (non siamo ingenui: la tecnicità delle leggi non favorisce di certo il controllo elettorale).
    Credo che, prima di ogni soluzione tecnica in sè e per sè, sia questa la pregiudiziale del problema sollevato, la bona fides dell’animus della collettività, sia alla base che al vertice e il senso di giustizia che ne dovrebbe scaturire, che non riguarda solo il rapporto tra politica e magistratura ma, più generalmente, l’efficienza di uno Stato. Il problema sollevato ritengo che sia solo un corollario.

  3. Per affrontare le criticità della giustizia in Italia credo sia necessario partire dall’alto: la separazione delle carriere, con lo sdoppiamento anche del CSM tra magistratura inquirente e giudicante, mi pare una riforma ineludibile. Poi la riduzione da 3 a 2 gradi di giudizio potebbe essere un secondo passo. Non sono un esperto in materia, ma leggere che un certo Giovanni Falcone la pensava così mi conforta assai.

  4. Due considerazioni suscitate dagli interessanti commenti degli amici.
    1) Il fenomeno del debordare della magistratura si è andato affermando nell’ultimo trentennio e riguarda non solo l’Italia, ma l’intero occidente. Ha scritto recentemente Francis Fukuyama che la democrazia liberale è messa in crisi da vari fattori tra i quali l’affermarsi di una “vetocrazia” in grado di bloccare le decisioni del potere esecutivo o di impedirne la realizzazione. Fra i principali interpreti ed artefici di detta “vetocrazia”, ci sono la magistratura e le cosiddette autorità indipendenti. In un mondo di rapidi e continui mutamenti, questa paralisi del potere esecutivo è ritenuta grave per la vita del paese; inoltre, delegittima le istituzioni: il risultato è il crescente distacco dei cittadini dalla politica.
    2) Non si può demonizzare l’intera classe politica come da tempo avviene da parte dell’antipolitica e di quei magistrati che ad essa si ispirano. Certo, ci sono i furfanti nel mondo politico come in tutti gli altri settori della società (nessuno escluso). Tuttavia, da sempre, chi agisce concretamente nella realtà, e vuole risolvere i problemi, non può talora evitare di sporcarsi in qualche misura le mani pur cercando di agire nell’interesse del Paese. Ritengo Enrico Mattei uno dei più grandi italiani del secolo scorso. Grazie a lui, è stata possibile, con il metano che ha messo a disposizione a basso prezzo, la trasformazione di un Paese arretrato e distrutto in una potenza manifatturiera. Se si fosse trovato di fronte taluni odierni magistrati e il clima demonizzante oggi dominante, probabilmente sarebbe stato subito eliminato dalla scena politica e imprenditoriale. Anche allora c’erano quanti lo criticavano aspramente dicendone tutto il male possibile, ma fortunatamente queste voci non sono state ascoltate dal Paese.

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