L’euro saltella con una gamba sola



Alessandro Corneli    25 Gennaio 2019       1

Mario Draghi, che si prepara a raccogliere l’Italia – ovvero Palazzo Chigi, prima, e il Quirinale, poi – è già passato alla storia per il suo “la BCE farà tutto quanto è necessario per salvare la moneta unica” – stile Giulio Cesare. L’espressione è bella, scultorea.

L’ha ripresa anche Giorgio La Malfa, commentando i vent’anni di euro, ma per precisare che “né l’Inghilterra, né gli Stati Uniti, né la Cina avrebbero bisogno di dichiarare che sarebbe stato fatto il necessario per salvare le loro monete”. Perché? Perché dietro l’euro non c’è il corrispettivo di un potere politico organizzato, cioè di uno Stato (europeo).

Così l’unione monetaria e l’unione politica hanno preso il posto dell’uovo e della gallina: chi è nato prima? Ma non è questo il punto che mi interessa. Il punto è la celebre ed elegante frase di Draghi perché il “tutto quanto è necessario”, tradotto per i semplici, significa solo una cosa (per di più vecchia): stampare denaro. Come hanno fatto il Regno Unito, gli Stati Uniti e la Cina, cioè un governo parlamentare, un governo presidenziale e un governo largamente autocratico.

Stampare denaro, o anche crearlo solo per via elettronica e trasferire gli importi per via telematica, è, tecnicamente, crearlo dal nulla, ma in sostanza significa creare un debito che va a carico dei cittadini. Che lo faccia uno Stato/Governo è plausibile, ma che lo faccia un Ente che è stato “istituito” da un trattato internazionale (il trattato di Maastricht) ed è stato autorizzato a rispondere solo a se stesso e non abbia un rapporto con uno Stato che non c’è, è qualcosa che sfugge alla logica, anzi è una sfida alla logica.

Ecco l’origine della frase elegante per nascondere la verità: gli Stati che hanno adottato l’euro sono stati autorizzati a creare denaro, come USA, UK e Cina (e Giappone). Ma non nella misura che sarebbe stata necessaria alle economie dei singoli Stati per superare la crisi, come sarebbe stato logico, bensì in proporzione al loro peso nel sistema monetario europeo. Così, ad esempio, la Germania che non ne aveva bisogno, poteva crearne più di tutti, ma l’Italia, che ne aveva gran bisogno, in misura insufficiente.

Insomma, chi è in testa può andare a 100 km all’ora, chi è in coda non può superare i 70 km all’ora. Chiunque può indovinare come saranno i distacchi a fine corsa: se maggiori o minori rispetto al momento della partenza.

Non erano queste le premesse e le promesse dell’euro. Dice La Malfa: “alla fine degli anni 80, quando vi fu la riunificazione tedesca, la Francia decise che fosse indispensabile accelerare l’integrazione europea per frenare l’autonomia della Germania. E si pensò di invertire il processo: invece di attendere la nascita di uno stato federale europeo per dotarlo di una moneta unica, si decise di costruire la moneta contando che questo vincolo avrebbe reso comunque indissolubile il legame fra i Paesi dell’Europa e li avrebbe indotti ad accelerare il processo di integrazione politica”. In altre parole, i leader europei hanno risolto il dilemma dell’uovo e della gallina, ma non lo hanno spiegato. E non possono spiegarlo perché dovrebbero ammettere che la soluzione Draghi – cioè il Quantitative Easing – mascherava un ritorno alla sovranità nazionale ma con il “freno tirato” (La Malfa), cioè una sovranità nazionale mascherata da sovranità europea, cioè della BCE. Quindi l’operazione serviva, apparentemente, a salvare l’euro, ma sostanzialmente a salvare la BCE.

In realtà, ciò che tiene a galla l’euro è il fatto che esso sia stato accolto, da molti Paesi extra-euro, come valuta di riserva internazionale in parziale alternativa al dollaro. Anche lo yuan cinese si sta facendo largo ma ha alle spalle la seconda economica del mondo che ha come obiettivo quello di diventare la prima. Nello scontro che si profila tra dollaro e yuan, l’euro è il vaso di coccio, a meno che quella parte di Europa che lo ha adottato abbia un sussulto e decida di affermarsi come Stato veramente indipendente e autonomo, desideroso solo di contribuire, con gli scambi commerciali, alla pace mondiale, senza farsi coinvolgere in disegni politici altrui.

Se vogliamo smettere di ripetere le solite formule di circostanza – del tipo “ci vuole più Europa” – oppure se si vuole chiarire il significato vero e profondo di queste frasi, come quella appena riportata, allora bisogna dire che l’accelerazione sulla moneta unica, avvenuta in seguito alla fine del comunismo e alla riunificazione della Germania (sacrosanto diritto), avrebbe potuto assumere un significato politico se l’Europa del dopo-Muro di Berlino avesse detto: “è finita la guerra fredda, è finita la divisione dell’Europa, non c’è più bisogno di sudditanza dell’Europa verso gli Stati Uniti, che ringraziamo per la protezione che ci hanno dato, ma che è stata concessa anche nel loro interesse; crediamo nella pace, nella svolta della nuova Russia, decisa nel suo stesso interesse, e crediamo nella globalizzazione economica”. Invece si è voluta avanzare la gamba monetaria in accordo con il dopo guerra fredda ma si è lasciata la gamba politico-militare bloccata sul terreno della contrapposizione Est-Ovest. Questo è il salto politico che è mancato.

Non dico se questo sia stato opportuno o no, se sia stata una mossa preveggente o dettata dal timore o imposta dall’esterno. Dico solo che questa è la causa vera del mancato sviluppo politico dell’Europa che ha, come conseguenza, la crisi economico-monetaria in cui è caduta. Essa infatti è la parte del mondo che si sviluppa a un tasso più basso rispetto all’Asia, agli USA e a buona parte del Terzo Mondo.

Con una gamba sola non si corre: si saltella.

(Tratto da www.servirelitalia.it)


1 Commento

  1. Concordo con la diagnosi di Alessandro Corneli circa il fatto che “si è voluta avanzare la gamba monetaria in accordo con il dopo guerra fredda ma si è lasciata la gamba politico-militare bloccata sul terreno della contrapposizione Est-Ovest” per cui sarebbe venuto a mancare il salto politico dell’Unione Europea da “zollverein”a stato federale europeo.

    Va comunque sottolineato che l’iniziale struttura CEE è sempre stata sin dall’inizio qualcosa di più che una semplice unione doganale dal momento che lo scopo fondante era stato quello di mettere in comune tra gli stati membri le materie prime esistenti nel territorio della Comunità mediante la creazione di un mercato unico e di creare tra essi, anziché uno scontro, una certa solidarietà economica al fine di evitare il rinnovarsi di quegli attriti che avevano portato nella prima metà del XX Secolo allo scoppio delle due guerre mondiali.

    Col tempo si sono andate sempre più rafforzando le pretese di svolgere anche funzioni originariamente di armonizzazione politico-economica e diventate sempre più invasive con la fine della guerra fredda e l’avvio della globalizzazione fino a sconfinare, a quel che ci risulta, addirittura nella pretesa politico-culturale di individuare veri e propri miti fondanti dell’identità europea, come sarebbe avvenuto nel tentativo (miseramente naufragato per mancanza di ecumenicità continentale del testo poetico) di creare addirittura un’epica europea fondata sulla Chanson d’Aspremont, uno dei poemi epici che compongono la francese Chanson des gestes.

    A nostro avviso non può essere compreso il problema dell’arresto di un serio processo di trasformazione della attuale UE in un auspicabile quanto, temiamo, utopico Stato federale europeo se prescindiamo dall’analisi culturale, prima ancora che politica, della dottrina anarco-capitalistica che, più o meno consciamente, guida, a nostro avviso, la politica statunitense sin dalle sue origini come stato federale e che, sotto un certo aspetto, quello dell’internazionalismo, presenta un certo parallelismo, con il marxismo-leninismo (tendenza cosmopolititica abbandonata nell’ambito del comunismo sovietico con la sconfessione del pensiero di Trosky e conseguente persecuzione di questi sino alla sua uccisione in Messico su mandato di Stalin).

    Liberal-democrazia di estrazione massonico-borghese da un lato e, dall’altro, dittatura del proletariato. Sogno cosmopolitico kantiano in nome della pace universale, che ha ispirato la Federazione delle ex colonie inglesi dell’America Settentrionale, da un lato, contrapposto, dall’altro lato, al teorico sogno cosmopolitico marxista che aveva come punto d’arrivo la sparizione degli stati in nome di un’umanità non più politicamente contrapposta in nazioni in lotta tra di loro per il primato economico e politico-militare ma armonicamente portata a valorizzare su scala mondiale la giustizia sociale e la divisione del benessere reso possibile per tutti dal progresso tecnico ed economico sviluppabile senza limiti.

    Il senso storico della realisticamente imperiale cultura tradizionale russa ha reso sufficientemente scettici i governanti sovietici, a cominciare da Stalin, sulla possibilità di raggiungere per l’intera umanità il “paradiso in terra” predicato dall’astratta dottrina marxista e il comunismo è stato visto nel blocco sovietico dai governanti russi e dai capi degli stati satelliti fedeli a Mosca come un mero strumento identificativo dell’identità politica ed economica dell’Impero sovietico, militarmente identificato dopo la Seconda Guerra Mondiale nel Patto di Varsavia, al quale aderivano i partiti comunisti di osservanza sovietica di tutto il mondo.

    Di contro le particolari condizioni ambientali (isolamento dall’Europa e dalle sue diatribe tra stati, sua inattaccabilità da parte degli stati coloniali del Vecchio Continente e creazione, con la Dottrina Monroe del “cortile di casa” panamericano) e culturali (società borghese, particolarmente attiva nel creare ricchezza, talvolta anche con aggressività brutale, sostanzialmente monoclasse, e quindi politicamente autogestita, contrariamente a quanto succedeva col parlamentarismo britannico ed europeo in generale, dove esisteva, a seconda del paese, un dualismo sociale più o meno equilibrato tra nobiltà, gestrice del potere politico-militare, e borghesia produttiva) che hanno portato alla formazione degli attuali Stati Uniti d’America hanno conservato presso quel popolo e la sua classe dirigente un certo radicato convincimento utopico universalistico (che però non ha escluso, anzi talvolta, forse, addirittura ha favorito, una certa aggressività nell’azione politica, economica e militare internazionale) di matrice massonico-kantiana. Non a caso la Società delle Nazioni, dopo la Prima Guerra Mondiale, e l’Organizzazione delle Nazioni Unite, dopo la Seconda, sono state ispirate dall’azione diplomatica statunitense in nome del raggiungimento di una pace universale.

    Tale convincimento ha portato senz’altro notevoli benefici quando si è trattato di lottare contro i regimi nazi-fascisti da un lato e quelli comunisti dall’altro dal momento che, dopo le due guerre mondiali, ha permesso nell’Europa Occidentale l’instaurarsi di regimi democratici che hanno segnato, pur con tutti quei limiti che la realtà umana comporta nel prevaricatorio esercizio di un potere imperiale, dei momenti storici di grande libertà e di benessere economico socialmente diffuso, forse mai goduti in precedenza nel corso della storia in alcun altro tempo e in alcun altro luogo.

    Riteniamo però che la situazione sia molto cambiata, oltre che politicamente anche culturalmente, dopo la fine dell’Impero Sovietico (la c.d. caduta del muro di Berlino nel 1989). Allora in Occidente diventò un luogo comune affermare che si era giunti “alla fine della storia” in quanto vi era stato il trionfo definitivo del sistema economico “di mercato” patrocinato dall’Occidente liberal-democratico nel corso della Guerra Fredda e che pertanto era finito il pluralismo ideologico di natura politico-istituzionale ma che, come vedremo meglio in seguito, introdurrà nel pensiero occidentale, reso euforico dai risultati ottenuti, un’ideologia unica basata sul primato dell’economia sulla politica, dal momento che, contrariamente a quel che era successo negli assunti del pensiero progressista dominante in Europa dalla fine del XVIII Secolo alla fine del XX Secolo, all’azione economica, e non più all’istituzione politica che era vista quasi come un corollario di un sistema economico sociale che aveva il suo fulcro nell’apertura dei mercati alla concorrenza mondiale, veniva affidata la funzione escatologica di assicurare la felicità al genere umano. In conclusione l’adozione della dottrina anarco-capitalistica.

    Questa si sostanzia in una dottrina che possiamo senz’altro definire “antipolitica” nel senso più pieno della parola, dal momento che va praticando l’esautoramento a tutto tondo della funzione sovrana dello stato, come formulatore di valori organizzativi delle collettività umane secondo “principi di giustizia”, in nome di una sorta di teologia soterico-tecnocratica affermante il superamento dell’umanistico-sapienziale pensiero politico, tramandato nei millenni dalla filosofia, in nome di presunte certezze tecnico-economiche dotate di una asserita obiettività scientifica. E gli effetti negativi di tale dottrina, di fatto ormai praticata con sincera quanto ingenua convinzione “liberista” dalle nazioni occidentali (le perdenti del gioco) e con ipocrita riserva mentale “sovranista” dalle nazioni asiatiche emergenti (le vincenti, almeno momentaneamente, del gioco), si vedono soprattutto dal verificarsi in ogni nazione del pianeta, una concentrazione della ricchezza in sempre meno mani, fenomeno questo altamente squilibrante, e quindi pericoloso, per le buone relazioni politiche mondiali.

    A noi sembra che il principio cardine della dottrina anarco-capitalistica, i cui fautori sono comunque ben consci che l’azione politica non può essere totalmente eliminata dalla vita sociale pena il caos, consista da un lato nel fare in modo, al limite anche “suggerendo” ai politici (che quindi non esercitano più, come tradizionalmente, una funzione sovrana) quali attività legislative ed amministrative porre in essere e nel fare in modo che l’intervento statale nella regolamentazione dell’attività di mercato sia ridotto al minimo e, dall’altro, che l’azione dei politici non consenta mediante affermazioni di mettere in dubbio davanti all’opinione pubblica il primato della tecnocrazia su qualsiasi dottrina politica valorialmente divergente da tale impostazione.

    In altre parole l’odierno establishment tecnocratico anarco-capitalistico euroamericano cerca di convincere un Occidente in affanno economico della necessità razionale di fare un vero e proprio atto di fede sul fatto che un’azione basata su criteri tecnico-economici, tendenti ad uno sviluppo infinito dell’attività produttiva, possa non raggiungere gli asseriti fini salvifici di creare una società mondiale giusta e felice, in altre parole “libera dal male”. E’ paradossale come tale tecnocrazia nel prefiggersi di raggiungere i suoi fini “antipolitici” faccia riferimento al progressismo politico degli ultimi due secoli precedenti che riteneva di poter usare la scienza e la tecnica mettendole al servizio dell’uomo, e non facendone i suoi padroni.

    Ci troviamo quindi di fronte ad una sorta di totalitarismo di nuova concenzione che finisce col distruggere il pensiero critico umanistico-filosofico, considerato superato dallle certezze scientifico-economiche del pensiero tecnocratico (si pensi alla filosofia del, non a caso, statunitense Dewey), che suggerisce all’uomo del XXI Secolo di sottomettere alla propria “verità obiettiva scientifica” tecnocratico-economica la tradizionale problematicità filosofica sulla moralità umana e il suo rapporto con la felicità e la giustizia. Ma in questo modo al contrario si riduce l’uomo, in nome della sua stessa presunta salvezza (quale?), a strumento della tecnica e delle sue implicazioni economiche, che diventano sovrane anche nei confronti della stessa politica e giungono, come fa la scuola economica iperliberista di Chicago che definisce lo stato come “un problema”, a ridurre l’essere umano ad una funzione meramente produttiva dell’impresa, che così appare come una vera e propria “sovrana assoluta” (restando praticamente l’unica tra le istituzioni sociali che oggi riesce ad avere il sopravvento sull’individuo funzionalizzandolo a sé in assoluto). Marcuse nel secolo scorso parlò in proposito di “uomo ad una dimensione”. E’ chiaro che a questo punto non è più l’attività economica che è fatta per l’uomo ma è l’uomo che è fatto per l’attività economica, che a questo punto diventa legittimamente fine a se stessa in quanto portatrice di una presunta vera e propria salvezza escatologica dell’umanità.

    A partire dalla Rivoluzione Francese le ideologie politiche (subito vi fu una polarizzazione tra girondini e giacobini, perpetuatesi dopo la Restaurazione nel XIX Secolo tra liberali moderati e radicali e diventata infine esasperato scontro tra stati liberali e stati totalitari nel corso del XX Secolo) apparivano come delle “dottrine escatologiche immanentizzate” implicite nella concezione progressista della storia affermatasi dal XVIII Secolo in poi, una sorte di “inversione” dell’escatologismo cristiano in cui la “liberazione dal male” avveniva non ad opera di Dio che si fa uomo, ma ad opera dell’uomo stesso illuminato dalla ragione scientifica, fautrice della liberazione politica del genere umano attraverso il trionfo dei diritti umani patrocinati dal pensiero liberaldemocratico del progresso tecnologico, che, in un certo senso, si “fa Dio” autoliberandosi). Ma la politica, malgrado il primato borghese, rimaneva pur sempre ancora sovrana sull’economia e garantiva coi suoi “filosofici” valori l’emancipazione dell’essere umano consentendo di discutere della dialettica libertà-giustizia e di raggiungere una tendenzialmente continuativa espansione della civiltà industriale, pur interrotta da due guerre mondiali e da vari conflitti regionali alle cui genesi non erano estranee anche problematiche di saturazione dei mercati, quindi di natura economica.

    Nel trionfalismo post Guerra Fredda, che dato il primato culturale, oltre che politico e militare, degli Stati Uniti, assumenva la forma iperliberista propria dell’anarco-capitalismo, impersonato dal Presidente Regan negli USA e dalla Prima Ministra Thacher in Inghilterra, si festeggiava la “reductio ad unum” della precedente pluralità ideologica col convergere dell’intera umanità verso l’”ideologia triunphans” liberal-democratica, quasi vista come un’“antropoteologia”, senza accorgersi che, in realtà, si era scivolati nel campo dell’”antipolitica” distruggendo tutte le ideologie politiche, quella liberal-democratica compresa.

    L’errore di fondo fatto dagli Stati Uniti (e dai suoi alleati) era quello di credere che, viste le nuove aperture della Cina alle teorie economiche liberiste occidentali, che faceva ben sperare in una economia globalizzata ispirata al c.d. “antisovranismo”, praticamente consistente in una “apertura dei mercati” sino alla creazione di un unico grande mercato mondiale, si affermasse effettivamente la fine dei sovranismi e l’egenomia di fatto degli Stati Uniti come affermatori delle dottrine “antipolitiche” sull’intero pianeta. Naturalmente “antipolitiche”, ma sicuramente non antistatunitensi, data l’immagine che questa Nazione, permeata di messianismo immanentizzato, ha di sè come di un popolo eletto a cui l’impero è dovuto per i valori liberal-democratici che rappresenta. Il problema è che un conto è la visione che una nazione può avere di sé e un altro gli interessi geopolitici che una nazione può avere da salvaguardare.

    Il fatto è che l’idea di coronare progetti di giustizia e di felicità universali, tipica della politica cosmopolitica, non è compatibile con l’idea stessa di “darwinismo sociale”, molto vicina allo homo homini lupus di Hobbes, che sta alla base dell’idea stessa di mercato e di interesse economico. Inoltre, inaspettatamente, la Cina ed i paesi del Sud-est Asiatico ci hanno mostrato che è falso pensare che per essere competitivi sul mercato globale si debba essere retti da istituzioni politiche liberal-democratiche, anzi sembrano dimostrare che, a giudizio di molti osservatori geopolitici al presente, purtroppo, le cose stiano andando in tutt’altro modo.

    All’epoca della lotta tra ideologie politiche era ben chiaro che la società dovesse essere sovranamente guidata da chi regge lo stato e ne rappresenta le istituzioni poiché si dava per scontato che la giustizia, scopo supremo della politica, non poteva di certo essere garantita dal mercante, cioè da colui che persegue il proprio interesse personale. Ma le cose con la civiltà industriale hanno cominciato ad essere viste con occhi diversi ritenendo che essa avrebbe portato a ricchezze senza limiti per tutti, purché si lasciasse il campo libero agli imprenditori, stante che la ricchezza di energia messa a disposizione dell’uomo dal progresso tecnico rendeva possibile una potenziale ricchezza infinita (mito del progresso illimitato). Più crescerà il reddito prodotto più, in automatico, vi sarà ricchezza per tutti (la c.d. autoregolamentazione del mercato ne avrebbe garantito l’equa distribuzione per tutti). A questa costruzione ideologica, definita liberista in economia e fautrice dello stato liberale in politica, se ne contrapposero altre genericamente accomunate da una visione solidaristica o socialistica atta a favorire, con l’aiuto di riforme legislative e amministrative statali, una più equa redistribuzione della ricchezza che nei fatti la libertà del mercato aveva dimostrato di non essere in grado di redistribuire equamente.

    Questa esperienza solidaristica, che, creando una dialettica tra destra individualistico-liberale e sinistra statalistico-sociale, era entrata a far parte del bagaglio politico-culturale occidentale, soprattutto europeo, è entrata definitivamente in crisi nell’Occidente liberal-democratico con il reganismo-thacherismo e, come abbiamo visto, ha finito col diventare, in epoca di globalizzazione, l’illusione del sistema, ormai liberal-democratico solo per tradizione ideologica ma non per l’effettiva prassi “antipolitica” di stampo anarco-capitalistico che ormai regge i Paesi occidentali.

    I c.d. populismi altro non sono che la conseguenza di questa invisibile trasformazione che sta minando i non più sovrani regimi politici occidentali e, in particolare, ha impantanato in vere e proprie sabbie mobili la UE, che in altra occasione ebbi a definire un “ircocervo anarco-capitalista”, incapace di qualsiasi benché minima azione veramente in grado di reggere politicamente le sorti dei paesi consociati, ancor meno di quanto riescano ancora a farlo i singoli stati sovrani. Decisamente migliore è la resistenza opposta dalla “democrazia autoritaria” russa, dalla Cina e dagli altri paesi del’Estremo Oriente, al limite anche dotati di regimi liberal-democratici come il Giappone ma vissuti con un rigoroso spirito solidaristico asiatico.

    A nostro modo di vedere, e preciso che la nostra è ovviamente una semplice ipotesi di lavoro che andrebbe approfondita nelle sedi di studio adeguate, le spinte antisovraniste al globalismo, accettate come strumento di un presunto inarrestabile progresso, culturalmente ereditato dal pensiero storico-filosofico occidentale degli ultimi due secoli, che dovrebbe avvantaggiare tutta l’umanità mediante un presunto indiscutibile sviluppo economico senza fine, in realtà hanno avuto origine dalla logica interna al sistema industriale che non consente, se non traumaticamente, rallentamenti produttivi e deve continuamente cercare modi, presentati come benefici, se non addirittura salvifici, per ovviare a ciò.

    E’ però ormai evidente che tale forzatura si sta scontrando con delle realtà che il progressismo delle origini poteva ignorare ma che oggi non sono più ignorabili: da un lato la saturazione sempre più evidente dei mercati che non riescono a smaltire una base produttiva globale smisurata che tendenzialmente svantaggia i più ricchi paesi di vecchia industrializzazione, in pratica i paesi europei e nordamericani (dove il ceto medio, frutto della consolidata industrializzazione, tende a ridursi sempre più ritrasformandosi in proletariato per la riduzione della capacità di penetrazione nei mercati globali delle loro industrie ad alto costo del lavoro) che rende il commercio sempre più (liberisticamente) aggressivo e la realtà naturale sempre più gravemente compromessa nei suoi equilibri dall’aggressività umana dovuta sia all’attività industriale sempre più espansa in tutto il pianeta sia nella stessa attività di trasporto delle merci mediante sempre più giganteschi natanti.

    Non è casuale se anche lo stesso Sommo Pontefice Papa Francesco, forse l’unica autorità mondiale che ha in generale un quadro chiaro del periodo storico che il mondo sta vivendo, ha ritenuto, in modo inusitato, di intervenire sull’argomento ecologico. Nel campo delle scelte politiche vediamo però che la “guerra commerciale mondiale” in atto non si lascia assolutamente impressionare dagli argomenti che, contrariamente a come ragionavano i progressisti del XVIII e del XIX Secolo che ritenevano il mondo saccheggiabile senza limiti (e tutte le loro teorie politico-sociali, di destra o di sinistra che fossero, prescindevano, almeno nella loro applicazione pratica, dalla coscienza della limitatezza delle risorse del mondo, il che le rende oggi non più applicabili nella forma pensata in passato perché basate su presupposti oggi non più ignorabili senza far correre grossi rischi all’intera umanità), introducono prepotentemente il problema della distribuzione dei benefici economici oltre che in senso orizzontale nello spazio (giustizia sincronica) anche in senso verticale, tra le generazioni che si susseguono nel tempo (giustizia diacronica), e i problemi di vivibilità del mondo (che stanno generando tensioni sociali in tutte le regioni del pianeta, evolute o meno) sempre più difficili da gestire, in particolare legate al combinato disposto delle mutazioni climatiche e dell’esplosione della bomba demografica (anch’essa sostanzialmente di natura ecologica, frutto dell’eccessivo dominio che l’uomo ha acquisito sulla natura).

    E’ evidente che è in corso un radicale scontro culturale tra gli establishment di tutto il pianeta che fa riferimento in termini meramente pratici (le teorie progressiste della cultura occidentale sono ormai saltate e sono estranee alle visioni del mondo delle culture orientali) ad un’azione improntata al mito salvifico dello sviluppo economico senza limiti evidenziando come ormai la vera molla del sistema che a questo si appella in realtà è un nuovo modo con cui i grandi stati imperial-commerciali del Pianeta si fanno la guerra, e la “pancia dei popoli” che, pur privi di schemi culturali adeguati a leggere la situazione, avvertono a sensazione sulla propria pelle il declino dell’età dell’oro, tende a diffidare dei governanti che appaiono sempre più dei fantocci nelle mani dei “militaristi dell’economia” che sostengono il mito della crescita infinita creante sempre più problemi agli equilibri sia naturali che sociali del mondo. L’attuale fobia per le migrazioni, attualmente ancora prive di grossi svantaggi sociali, che, com’è regola costante da che mondo è mondo, vengono strumentalizzate da alcuni politici, a nostro modo di vedere è solo l’inconscio modo di prefigurare, specialmente da parte degli strati più deboli ed indifesi della popolazione, ciò che potrebbe succedere con esiti imprevedibili per gli equilibri mondiali fra alcuni decenni se l’attuale sistema di valori non verrà sostituito da valori spiritualmente più alti dell’attuale nichilismo ammantato da “autosalvazione umana” consentendo cambi di rotta nella condotta globale.

    Siamo partiti dall’Europa, che in questo quadro si presenta come “il ventre molle” del mondo, e, tornando ad essa, ci sembra che in un tale quadro mondiale la regione del pianeta più esposta a decadere è proprio lei in quanto essa non è un polo globale dotato di sovranità unitaria e i molteplici interessi contrapposti dei membri (chi più chi meno, chi in modo sfacciatamente esplicito chi in forma mascherata, tutti “nanosovranisti” di se stessi) della UE, mero “ircocervo anarcocapitalistico”, vaso di coccio tra vasi di ferro, da un lato e i vincoli con i declinanti Stati Uniti, difficilmente allentabili, dall’altro temiamo che le impediranno di curare al meglio i propri interessi.

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