A Torino, 100 anni fa



SPECIALE CENTENARIO - Alessandro Risso    16 Gennaio 2019       0

Dal volume Liberi e forti (e antibolscevichi). Il Partito popolare italiano nella Torino “rossa” del 1919 (Ed. Effatà) pubblichiamo uno stralcio che ci riporta indietro esattamente di un secolo, nel gennaio 1919. Una immersione nelle (poche) anticipazioni e nei commenti a caldo sul lancio del nuovo partito nell’agone politico.

 

Don Alessandro Cantono, il sacerdote biellese attivo promotore politico in tutto il Piemonte, sulla «Voce dell’Operaio» del 12 gennaio aveva cercato di scuotere il laicato cattolico, a suo giudizio un po’ assopito negli ultimi anni di guerra e non ancora conscio dell’importanza della nuova stagione politica:

Tutte le associazioni devono riprendere la loro attività (…). Non basta avere dei circoli, fa d’uopo che essi siano attivi (e urge) una seria organizzazione elettorale per preparare il lavoro in vista della futura e non lontana battaglia elettorale. In quanti luoghi invece non si è fatto nulla! In quanti si dorme senza rendersi conto della importanza che avranno le elezioni. Associazioni, operative, leghe, mutue, organizzazioni di mestiere: ecco ciò che dobbiamo fare. L’azione cattolica nelle sue numerose forme non fu mai tanto necessaria come adesso.


Sono ormai di dominio pubblico le indiscrezioni sull’imminente fondazione di un partito politico. Non è sfuggita l’intervista rilasciata da Filippo Meda a «L’idea Nazionale» e prontamente ripresa dal quotidiano cattolico torinese”Il Momento”. Il ministro lombardo, primo fra i cattolici deputati, pur impiegando un garbato riserbo – “Non molto posso dirle (...) perché, come ella ben comprende, io all’iniziativa non ho partecipato” – conferma di fatto la prossima costituzione del partito, dà un primo chiarimento, insistentemente richiesto dall’interlocutore, sui rapporti con l’autorità ecclesiastica e le organizzazioni collaterali, e fornisce una suggestiva descrizione del nuovo partito. Esso

sarà liberale ma non liberalista, nazionale ma non nazionalista, sociale ma non socialista, democratico ma non demagogico, e nel momento storico che attraversiamo vorrà soprattutto svolgere un’attività diretta a preservare l’Italia dalla follia criminosa degli esperimenti rivoluzionari e delle dittature di classe, assicurandole invece una evoluzione verso ordinamenti sempre più capaci di garantire la pace pubblica e la giustizia, anzi la pace pubblica nella giustizia.


L’appello ai “liberi e forti” riempie la prima pagina dei quotidiani cattolici del giorno 20, con il programma del partito. «Il Momento» pubblica inoltre una ricostruzione degli ultimi avvenimenti con i nomi dei partecipanti alla piccola Costituente,

(...)

Entusiasta il commento che il corsivista “Luciano” scrive sulla «Voce dell’Operaio»:

Il nuovo partito abbia il più forte e tenace appoggio dei cattolici italiani. La Voce dell’Operaio fu fra i primi, se non il primo giornale che lanciò l’idea di un partito politico con programma proprio, chiaro e preciso, fra i seguaci del movimento cattolico (…). Ma allora i tempi non erano maturi.


Nella redazione del settimanale sorto nell’ambito della congregazione del Murialdo, traspare con evidenza il mai sopito rimpianto per la forzata interruzione dell’esperienza del primo movimento democratico cristiano, che a Torino aveva trovato un punto di riferimento nel settimanale «La Democrazia Cristiana».

 

Gli altri giornali torinesi non impiegano più di tanto spazio per illustrare il nuovo partito. «La Gazzetta del Popolo» è mono-tona, insiste cioè sopra un solo tasto:

il partito popolare italiano è costituito ed annunciato dai clericali (...) la comunicazione del programma è stata fatta da organi clericali (...) il programma porta la firma di personalità iscritte al partito clericale (...) il primo dei firmatari è un deputato clericale,


attirandosi il sarcasmo del concorrente cattolico.

Il corrispondente de «La Stampa» da Roma parla anch’egli di “nuovo partito clericale”, ma guarda il PPI con maggior serenità di giudizio, considerandone la forza organizzativa e il valore del gruppo dirigente, premesse “che possono condurre lontano il movimento” e che rispondono

al desiderio di scendere in campo nella maggior lotta politica: quella delle elezioni generali (…) presto imitati nella preparazione dagli altri partiti.


Il quotidiano socialista, invece, si sofferma in particolar modo sul programma – “mirabolante a promesse” – che

tende a conciliare tutte le cose, la chiesa e la Libertà di pensiero; la democrazia ed i principi del cristianesimo, il disarmo e la necessità della difesa nazionale,


attirandosi l’accusa di “ignoranza e malafede” dal «Momento». L’«Avanti!» conclude la propria nota avvertendo compagni e avversari che,

come si vede, i cattolici rinforzano le loro organizzazioni: noi facciamo altrettanto. Il nostro ed il loro partito sono le forze reali del paese, destinate al grande scontro quando, fra poco, tutti i partiti saranno eliminati.


I tempi maturano anche in Italia.

 

Una più estesa panoramica sui commenti che accompagnano l’atto di nascita del Partito Popolare evidenzierebbe il fatto che il maggior interesse dei commentatori politici riguardava i rapporti tra il neonato partito e il Vaticano, con le dipendenti associazioni di azione cattolica. La definizione di tali rapporti non incuriosisce solo i commentatori politici, ma preoccupa i popolari, che si impegnano per prima cosa a delimitare con precisione l’ambito d’azione del partito dalle competenze delle “Unioni” cattoliche. Proprio in queste militava gran parte di quel mondo cattolico conservatore, antiunitario e antiliberale, che a Torino si era espresso negli anni dell’anteguerra sulle colonne de «L’Italia Reale» e aveva poi dovuto cedere il passo, e le simpatie della Curia, a quei gruppi cattolici egualmente conservatori e antisocialisti, ma più disponibili verso la classe dirigente liberale e non troppo preoccupati dalla questione romana, appoggiati dal «Momento»; in linea cioè con la politica di apertura ai liberali in chiave moderata e antisocialista culminata nel cosiddetto “Patto Gentiloni”.

Già Sturzo aveva paventato la possibilità della creazione di un altro organismo da parte di quei “compagni di fede” che ritenevano il programma del PPI “troppo audace”. Per questi motivi «Il Momento», molto sensibile agli umori del cattolicesimo ufficiale, si preoccupa di sgombrare il terreno dalle incomprensioni che può suscitare la nascita del partito. In una lunga corrispondenza da Roma si precisa:

l’azione che saranno per svolgere i cattolici italiani nel campo politico viene ad essere resa indipendente, autonoma da quella che nel campo religioso, sociale, giovanile, con frutti ognor più consolanti, svolge da molti anni l’organizzazione cattolica, confessionale, che fa capo all’“Unione Popolare”, all’“Unione Economico-Sociale”, all’“Unione delle donne cattoliche” ed alla più antica e benemerita fra tutte, la “Gioventù Cattolica”.


(...)

Naturalmente il Partito popolare manterrà “i migliori rapporti coll’azione cattolica militante colla quale ha comune il programma morale e religioso”. Già Meda aveva accennato all’inevitabile soppressione della sezione elettorale dell’Unione, facendo notare come fosse

naturale che di fronte al sorgere di una formazione politica più fresca, più agile, più adatta ad esercitare una influenza nel paese non solo attraverso le elezioni, le organizzazioni elettorali preesistenti vengono a mancare della loro ragion d’essere.


Poiché operano su due piani diversi,

il Partito non assimila, non succede e non contrasta coll’Unione Popolare (il cui) compito è l’educazione sociale delle masse sulla base dei princìpi cristiani:


così scrive Amedeo di Rovasenda, dopo il Convegno delle Giunte Diocesane, che cerca di delimitare con precisione i due campi d’azione, grazie anche al particolare impegno in questo senso profuso dal conte Dalla Torre.

Sul tema «La Voce dell’Operaio» dimostra da subito idee chiare. Il sorgere del Partito popolare italiano

ha fatto nascere la necessità di chiarire bene i rapporti che passano tra di esso e le associazioni cattoliche (…). Vi sono tra loro dei rapporti, ma il partito (…) è fuori di esse, libero, autonomo; è cosa politica, con programma ben chiaro; invece le associazioni cattoliche sono confessionali, (hanno uno scopo) essenzialmente morale, devono cioè avere cura dei giovani, provvedere alla protezione degli operai ed alla loro educazione ed infine illuminare le classi ricche sul buon uso che devono fare dei loro beni materiali. In questo campo deve svolgersi l’azione cattolica che ha sempre una importanza massima, come quella che forma gli spiriti, le coscienze e prepara gli uomini per il Partito.


Viene quindi sottolineato con lucidità il ruolo prepolitico, di formazione economica e sociale, svolto dalle Associazioni cattoliche. Ma con interscambiabilità di ruoli tra le persone, e possibile accumulo di cariche, oppure con ben distinte competenze, e conseguenti incompatibilità? A giudizio del marchese Crispolti non è detto che non vi possa essere comunanza di uomini, perché infatti

la distinzione (tra piano politico e piano ecclesiale, n.d.A.) è avvenuta nelle materie dell’azione, non nella qualità di persone che agiscono. Come per appartenere al partito non c’è bisogno di appartenere alle associazioni cattoliche, così non c’è bisogno ed anzi sarebbe illogico e deplorevole, di disertare le associazioni cattoliche da cui si provenga.


Si potrebbe leggere questa dichiarazione come un accorato invito ai dirigenti di azione cattolica a non sguarnire le Unioni, allettati dal “fascino” dell’avventura politica – un salto che farà lo stesso Crispolti dopo pochi mesi –. Si tratta invece di un intervento preoccupato di evitare una troppo netta divisione tra i due organismi, contrario all’incompatibilità tra le rispettive cariche direttive e alla rigorosa imparzialità annunciata dalla stampa cattolica tradizionalista, vigile sui movimenti di tutti i partiti, senza sconti preferenziali al PPI, anzi “annunzi(ando) atteggiamenti d’eventuale diffidenza”.

Sappiamo che questa sfiducia iniziale, queste riserve nei confronti dell’operazione politica di Sturzo, rimasero latenti nell’ala più conservatrice, e sarebbero ricomparse puntuali – a Torino prima che altrove – nel momento in cui Mussolini fece pressione sul mondo cattolico per far scoppiare le contraddizioni e divergenze che pesavano sul consenso al partito.


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