I cento anni di Giulio Andreotti



Aldo Novellini    15 Gennaio 2019       1

Sette volte presidente del Consiglio, con le più svariate formule politiche, ministro in buona parte dei governi tra gli anni Cinquanta e Ottanta: inossidabile simbolo del potere democristiano e per molti versi immagine della stessa Prima Repubblica. Emblema di quella logica di mediazione, di costruzione degli equilibri e della ricerca di compromessi che sono un po' l'essenza della politica e, in fondo, della democrazia, Giulio Andreotti, di cui celebra oggi il centenario della nascita, era figlio della stagione del proporzionale con la DC perno del sistema politico. Pur non essendone mai stato il segretario, era un po' l'arco di volta della DC. Lo fu più di Aldo Moro il sottile tessitore, scomparso tragicamente troppo presto, o di Amintore Fanfani, il brillante condottiero, penalizzato da un carattere forse troppo volitivo, che gli fece perdere molti sostegni nello stesso scudo crociato.

Una vicenda politica che si intreccia con un campionario di personaggi spesso ingombranti, da Michele Sindona a Licio Gelli, a Mino Pecorelli a Salvo Lima. Sino all'accusa più pesante e clamorosa di concorso esterno in associazione di tipo mafioso che nella primavera del '93 lo portò sotto processo. Ne fu assolto, pur con il chiaroscuro della prescrizione fino al 1980.

In ogni caso, nel lungo iter giudiziario Andreotti, a differenza di tanti altri imputati eccellenti prima e dopo di lui, si mostrò sempre rispettoso dei giudici e dell'indipendenza della Magistratura: una lezione di senso dello Stato che non soltanto gli deve essere riconosciuta ma che lo pone ad esempio per molti altri uomini politici.

Rimase sempre un uomo della Prima Repubblica, con i suoi riti e le sue consuetudini tra caminetti, vertici e rimpasti. Modalità di confronto entro le maggioranze di governo e con le forze di opposizione, fatte di reciproco rispetto che la Seconda Repubblica ha immaginato di rimuovere e che leader come Silvio Berlusconi o Matteo Renzi hanno sempre disprezzato, mostrando di non capire cosa sia realmente la politica. Prima della sua nomina a senatore a vita, nel 1991, faceva il pieno di preferenze nel suo collegio elettorale, un radicamento sul territorio normale all'epoca della Prima Repubblica e che oggi, nell'era delle liste bloccate, è quasi del tutto inesistente.

Difficile dire cosa oggi rimanga di lui nella politica italiana. Più facile  individuare quello che non gli appartiene affatto, a cominciare proprio dallo scarso rispetto per le istituzioni e da un certo dilettantismo demagogico che affiora ovunque nell'affrontare i problemi del Paese.

Andreotti, con ragione, considerava la politica come l'arte del possibile, quasi esaltando l'ordinaria amministrazione rispetto alle grandi visioni. Eppure nel suo pragmatismo, a volte volutamente grigio, emergono alcuni decisivi principi di fondo: da una solidarietà interclassista, come elemento di coesione nazionale, alla prospettiva dell'integrazione europea, in cui collocava il futuro dell'Italia, alla collaborazione tra i Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, alla distensione internazionale come fattore di sviluppo dei popoli. Valori che orientarono la sua vita politica e a cui rimase sempre fedele.


1 Commento

  1. Sto rileggendo la biografia di Andreotti scritta da Massimo Franco che descrive un personaggio politico con doppia personalità: nel privato e nel politico “luci e ombre”. E’ possibile un tale sdoppiamento di coscienza e se si (etica dei principi ed etica della responsabilità) è questo il “volto demoniaco del potere” descritto da Gerard Ritter. I mezzi non corrompono i fini come diceva Bobbio?

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