Punti di forza per un nuovo impegno



Lorenzo Dellai    18 Dicembre 2018       1

Per quanto si possa prestare a letture bizzarre (come quella che evoca un “partito dei Vescovi”) la discussione su “cattolici e politica” nasce da un problema vero e profondo.

Se ci limitassimo alle apparenze di superficie, si potrebbe dire: ma quale “assenza” dei cattolici dalla politica? Mezzo Governo si proclama defensor fidei, si citano Papi e statisti alla De Gasperi ad ogni piè sospinto, si fanno direttive per consigliare l’allestimento del presepe, si rammenta l’obbligo del crocifisso negli uffici pubblici, si tuona sulla inviolabilità dei principi “non negoziabili”.

È una ostentazione inaudita, preconciliare, sostanzialmente “pagana” dei segni cristiani.

Sappiamo bene – Francesco ce lo ricorda sempre – che la croce dei cristiani è un segno di coraggio e non di paura; di speranza e non di chiusura; di libertà e non di asservimento a un potere in cerca di legittimazioni e di collanti che non riesce a trovare altrove. Quando nella storia è stato il contrario, si è trattato di periodi non felici per la comunità civile e per la stessa Chiesa.

La “pubblicistica dei segni cristiani” da parte del Potere – in ogni caso – non risolve evidentemente il problema se proprio in questa fase della nostra vita sociale e politica ritorna con insistenza il tema dei “cattolici in politica”. E infatti – in questo dibattito – si parla di altro. Di due cose in particolare.

La prima è “pre-politica”, in realtà. Si avverte che il tessuto sociale e civile del Paese è sempre più lacerato e disperso. Cresce una Italia della sfiducia, del litigio e della rancorosa chiusura nelle proprie paure, come ci dice anche il recente rapporto del Censis. Scarseggia una linfa vitale che unisca e rilanci l’idea di “comunità”.

Sta in questa emergenza “prepolitica” il primo richiamo ad una nuova militanza sociale e civile da parte dei cattolici italiani. È una scommessa culturale: come contrastare la deriva individualista senza ripiegare nella vecchia mitologia del “collettivo” tipica del Novecento. Alessandro Barrico, nel suo ultimo libro The Game, ha ben descritto un fatto: non è tanto la tecnologia del Web che sta cambiando gli uomini, sono gli uomini che avevano un bisogno radicale di protagonismo personale, oltre le élite, e lo hanno visto corrisposto da questo nuovo gioco. Da questo gioco, che ha i suoi pro e i suoi contro, anche micidiali come sappiamo, non intendono comunque più uscire e non usciranno: inutile attardarsi in patetiche nostalgie e improbabili anatemi.

Dunque, la sfida – anche per i cattolici – è come umanizzare il “nuovo gioco” e piegarne le potenzialità enormi in ragione di una nuova idea di comunità solidale.

Legata alla prima, vi è poi la seconda cosa di cui si parla in questo dibattito ed è invece più precisamente riferita alla politica in senso stretto: l’auspicata presenza di una “cultura politica collettiva” (al di là delle singole testimonianze personali), che sappia reinterpretare i valori della tradizione cattolico democratica nello scenario di oggi, con un necessario rinnovamento di idee, linguaggi, forme e classe dirigente.

Sono le gravi emergenze in atto oggi nel Paese che rendono doveroso riproporre le vocazioni di questa cultura. Ne riprendo alcune.

  1. Una idea di “politica” che non sia “risposta” passiva alle pulsioni della gente, ma indicazione responsabile di una meta, di un percorso possibile, anche con il coraggio di un “rischio” educativo. La politica non è onnipotente, vive solo di umiltà: ha però il compito di scorgere la filigrana del nuovo disegno anche mentre la vecchia trama si sta lacerando e di condurre la comunità sul sentiero sicuro, con mano dolce ma salda.

  2. Una matura visione della “leadership”, che presuppone solidità interiore, fermezza di principi, educazione personale ad un uso sobrio del potere, di ogni potere; vocazione alla “mitezza”, ricordando Mino Martinazzoli.

  3. Una cultura (una religione civile, vorrei dire) delle “istituzioni pubbliche” intese non come un campo di battaglia da conquistare, ma come la “casa comune”, da amministrare pro tempore con saggezza ed equilibrio.

  4. Una adesione piena alla “democrazia”, incompatibile con pericolose derive illiberali e fondata su un presupposto sociale e comunitario.
    Aldo Modo, fin dagli scritti giovanili del 1946, sosteneva che “lo Stato è, nella sua essenza, società che si svolge nella storia, attuando il suo ideale di giustizia.” Ciò postula, oggi, una “terza via” tra la deriva post democratica (le “democrature a base social-populista, oggi così di moda e così ammirate dalla maggioranza di governo e – ahimé – dai cittadini) e la difesa fredda e rassegnata delle sole regole formali della democrazia rappresentativa.

  5. L’Europa come nostro orizzonte “domestico”. Chi oggi si rallegra della crisi dell’Unione europea, sperando che così si allentino i nostri vincoli finanziari, commette un grave errore di miopia sia sul piano economico e finanziario (almeno per un Paese come l’Italia) sia su quello politico. A meno che non di errore si tratti, ma di una precisa strategia: una sorta di “intelligenza” (o, meglio, di attitudine al ruolo di utile idiota) con chi, sul piano internazionale, sta scommettendo contro una Europa unita e forte.

  6. Le Autonomie locali come valore autentico di radicamento e responsabilità diffusa.
    Tema, questo, attorno al quale le passioni politiche e le attenzioni della pubblica opinione si sono quasi totalmente spente. Ma che, invece, rimane centrale per una democrazia efficiente e per la prospettiva di un Paese a “trazione integrale”, nel quale anche le aree interne, i territori di montagna, le “periferie” possano perseguire la propria vocazione civile ed economica, contro ogni omologazione.

  7. Una idea di società aperta, che aiuti i giovani a crescere liberi e non prigionieri della paura nella comunità plurale e globale, consapevoli che il valore della identità – comunque sempre in evoluzione – deve essere vissuto come ricchezza da offrire a chi è diverso (per colore della pelle, religione o convinzioni personali) e non come baluardo da difendere con odio e sospetto.


Ecco cosa traspare, secondo me, dal dibattito che si è riaperto sulla presenza dei cattolici italiani in politica. Una strada lunga, in salita, controcorrente, tutt’altro che scontata e tutta da progettare.

Se di questo si tratta, il tentativo merita impegno, passione, formazione di nuovi protagonisti, disponibilità a mettersi in gioco.

Diversamente, nella migliore delle ipotesi, è tempo perso.

(tratto da www.ildomaniditalia.eu)


1 Commento

  1. Assolutamente d’accordo con molte delle cose ben espresse dall’amico Lorenzo Dellai, e vorrei aggiungere qualche riflessione ulteriore. Forse un po’ più sbilanciata, in un certo senso meno politicamente corretta.
    Il tema è proprio il delicato approccio all’uso del potere. Ma di quale potere stiamo parlando quello reale ma invisibile e straordinariamente forte dello strumento in cui nel tempo si è annidato (il denaro e i suoi surrogati) o quello faticosamente costruito grazie all’impegno, alle lotte ed al sacrificio di milioni di uomini che hanno preferito il bene della collettività, del pianeta stesso, della vita in tutte le sue forme, presenti e future, al proprio ben stare (in taluni casi al più a quello del “gruppo/parte” di appartenenza).
    Non si tratta di cattolicesimo si cattolicesimo no. Si tratta però di confrontare un “modello antropologico” laico ma che trova una coincidenza forte con il messaggio cristiano, e anche più generalmente biblico, ma anche buddista, e di molte altre fedi che non pretende di “imporre dio all’uomo” ne di “maledire chi agisce male” con un modello antropologico per definizione che rinuncia alla speranza, che si arrende alla paura, che crea protettive “religioni del possesso” che inducono la falsa speranza di una sicurezza fondata sull’avere: cose, denaro, informazioni, persino persone, fino ad arrivare al “possesso di Dio”. Una antropologia negativa che scommette al ribasso sulle debolezze dell’essere umano, visto sempre come antagonista al più come alleato temporaneo “contro”.
    Con uno slogan possiamo dire che occorre di scegliere tra l’antropologia dell’incontro e quelle dello scontro. Ma questa necessità non ha un tempo definito, non è solo di questo momento, è per sempre. Continuamente occorre riscegliere questo modello.
    È evidente che nel modello che si fonda sull’incontro, la mitezza non è un “pio buonismo”, semmai un faticoso operare in noi stessi per raggiungere un equilibrio dinamico, non statico, tra noi le nostre aspirazioni le nostre idee, i nostri bisogni e le medesime legittime istanze di altri. Ed è l’aggettivo legittimo sul quale occorre una profonda riflessione. Legittimo non deve significare in senso “tecnico” che i convincimenti, i desideri e i bisogni sono sanciti da un dettato formale condiviso e statico (un corpo normativo di diritti). O non solo. Legittimo molto più faticosamente significa che occorre guardare con sguardo positivo, ascoltare con orecchio positivo, annusare con naso positivo e così via, cercando ciò che mi interessa rispettando e addirittura aiutando l’altro. Consci che l’avversario (“satan”) siamo noi stessi non un altro fuori da noi.
    Come realizzare questo delicato passaggio culturale, proprio con la mitezza e aggiungo, riflettendo anche operando per riscoprire il terzo pilastro liberale: la fratellanza o fraternità. Dire che l’abbiamo dimenticata forse non possiamo ma riflettere sul fatto che ne abbiamo perso il senso profondo merita un approfondimento. Fraternità è prima di tutto scegliere chi non possiamo scegliere. Non ci scegliamo ne padre ne madre ne fratelli o sorelle o altri. Ci capitano, anzi ci capitiamo in mezzo e impariamo a volte anche con fatica a starci dentro. Dunque su questo deve investire la politica su questo primo luogo speciale dove capitiamo e dove facciamo esperienza di quanto siamo reciprocamente ingombranti (anche se amiamo e siamo amati). Un tempo c’erano luoghi e regole che almeno formalmente facilitavano questo processo di “apprendimento a coesistere” uno per tutti il servizio militare, che oggi potrebbe essere sostituto dal servizio civile, ma non fatto solitariamente dove ci piace e dove stiamo bene. Fatto dove serve e con chi ci capita.
    Infine una parola sugli strumenti tecnologici che vanno sotto l’etichetta ICT che oggi sembrano lavorare contro la “coesistenza” a favore dell’antropologia pessimista. Possono essere ripensati e riorientati proprio a costringere al confronto capovolgendo la logica degli “algoritmi” che oggi sembrano offrirci opportunità ma in realtà ci fanno scegliere solo ciò che già ci piace o che gli algoritmi stessi ci illudono ci piaccia; creando solitarie gabbie di conformità ed omologazione, colossali camere dell’eco in cui sentiamo solo la nostra voce.
    La tecnologia, se ben temperata, è in grado invece di operare per consentire le diversità, non solo per predire comportamenti, incasellando le azioni in uno spazio predeterminato e manipolabile. Ma tutto questo, siamone profondamente consapevoli, questo mettere l’uomo la sua libertà la sua dignità al centro troverà sempre ostili i detentori di quegli strumenti che come abbiamo ricordato all’inizio sono diventati gli “idoli” (demoni) nei quali è stato nascosto il potere.
    Nella nostra antropologia al centro vi sono invece la parola ed il suo complemento il silenzio. Ed è tramite lo scambio a voce o a scritto che il silenzio e la parola liberano il potere dalla servitù degli strumenti, del denaro e della tecnologia e li rendono capaci di servire l’uomo e non di “servirsene”. Ci rendono capaci di accettare l’altro e di farci accettare, senza “per forza” cedere alla tentazione della paura, ma “per responsabilità” riconoscerci fratelli. Dunque la politica è chiamata a percorrere queste strade: parole e non slogan, silenzio invece delle urla o dei “vaffa”, fratellanza come principio su cui fondare le scelte. Sufficientemente laici, senza religioni protettive ma uniti anche da fedi diverse a ricomporre una totalità umana, questa si “cattolica”.

Lascia un commento

La Tua email non sarà pubblicata.


*