Sturzo: concretezza ed eticità



Rodolfo Buat    10 Dicembre 2018       3

L’approssimarsi del centenario della fondazione del Partito Popolare Italiano (PPI) si accompagna inevitabilmente al ricordo di don Luigi Sturzo.

Approcciare l’anniversario partendo dalla figura di don Sturzo ha sicuramente una ragione nel rilievo assoluto che il prete di Caltagirone ha avuto nella fondazione del partito e ha esercitato una leadership decisiva nell’aggregare componenti sociali e culturali diversi in un’unica forza politica. Ciò tuttavia non deve far dimenticare che il PPI è stata un’esperienza di particolarissima complessità sia nei suoi prodromi che nei suoi esiti, ricchissima di testimonianze individuali e di gruppi. Il PPI è stato il più importante partito di cattolici, sebbene non cattolico, e in quanto tale culmine dell’ingresso dei cattolici nella politica moderna.

Lo stesso don Sturzo sosteneva che “per capire il rapido, incontestato successo del partito popolare italiano, dobbiamo ricordare che il movimento cattolico sociale, chiamato o no Democrazia Cristiana, si era sviluppato ininterrottamente nel corso degli anni di crisi e di guerra…All’inizio del 1919, appena due mesi dopo l’armistizio, esistevano in Italia, nelle mani dei cattolici sociali, più di quattromila cooperative, qualche migliaio di enti assistenziali dei lavoratori, circa trecento banche popolari, molte società professionali, raggiungendo in breve una partecipazione di almeno ottocentomila membri. Inoltre, molti studenti delle scuole secondarie e delle università erano stati educati per lungo tempo in associazioni cattoliche per la gioventù…E infine, la cooperazione delle classi medie e intellettuali, dottori, avvocati, professori, ingegneri e tecnici, si rivelò di importanza e respiro mai visti in un giovane partito di chiara natura sociale”.

Questo rilievo così concreto su ciò che sostiene l’identità di un partito dovrebbe essere raccolto da molti di noi oggi impegnati a interrogarci sul futuro dei partiti e della politica. Non può esistere un’identità forte e forse neanche un programma efficace senza una base sociale che li esprima e li sostenga, e conseguentemente una gestione plurale e non personale. Certo un modello che non trova più valide corrispondenze nel panorama attuale, anche se forse può ancora costituire un riferimento per il futuro.

E tuttavia la ricorrenza della fondazione del PPI è l’occasione per ritornare al pensiero sturziano in quanto tale. Un pensiero che incontra il PPI prima e in modo più complicato la DC poi, pur mantenendo una sua specificità distintiva. Penso che nella confusione dei nostri giorni, nel crollo di tante certezze assolute, nel disintegrarsi di ideologie, nell’esaurirsi dell’identità delle vecchie classi sociali, don Luigi Sturzo ci parla con la forza di una straordinaria modernità. Non tanto o non solo per i contenuti delle proposte politiche di volta in volta avanzate, ma per il metodo di analisi raffinatissimo che da la precedenza all’analisi economica e sociale sulla sintesi politica, e quindi con un’attenzione costante al reale (“se l’uomo comune acquisisse l’abito mentale di osservare e valutare gli avvenimenti storici, i risultati migliorerebbero la vita della società”) più che ai pregiudizi ideologici.

Inevitabilmente, allora, la sua concezione dell’ordinamento politico e istituzionale fa leva su una visione della società colta nei suoi elementi di differenziazione sociale e di articolazione sul territorio. Questa pluralità di soggetti civili non può che trovare corrispondenza in un pluralismo dei soggetti istituzionali.  Non solo lo Stato, dunque, ma i Municipi, le Province, gli ordini professionali, quelle che oggi chiamiamo le Autonomie locali. Non vi è dunque una visione formalistica delle istituzioni, ma una visione molto concreta del divenire sociale.  Mentre il prevalente pensiero politico vede nell’articolarsi dei poteri dello Stato la risposta a un’esigenza di governo e controllo che dall’alto si organizza verso il basso, don Sturzo vede nelle Autonomie locali e sociali soggetti che hanno una propria autonoma legittimazione, preesistente allo Stato centrale che questi prima ancora di ordinare deve riconoscere.

Sicuramente una visione non statalista, che trova il suo radicamento in una profondissima idea di libertà. Scriveva: “Il mio grido di libertà è basato su tre principi: 1) la libertà è unica e indivisibile; si perde la libertà politica e culturale se si perde la libertà economica, e viceversa; 2) la libertà è espressione di verità e di ordine; il correttivo contro gli eccessi della libertà è, anzitutto, l’autodisciplina e l’auto determinazione; a parte quella regolamentazione legislativa necessaria per la coesistenza e il rispetto dei diritti e dei doveri reciproci; 3) lo Stato ha per funzione principale propria quella garanzia e vigilanza dei diritti collettivi e privati, il mantenimento dell’ordine pubblico, la difesa nazionale, la tutela e la vigilanza del sistema monetario e creditizio; la finanza e la buona amministrazione dei servizi pubblici nazionali; in via secondaria e sussidiaria lo Stato interviene, in forma integrativa, in quei settori di interesse sociale e generale nei quali l’iniziativa privata sia deficiente, fino a che sia in grado di riprendere il proprio ruoli”.

Un punto di vista non sempre compreso, visto come eccessivamente liberista e in contrapposizione a una visione più tesa all’affermazione della solidarietà e la giustizia sociale che è stata la cifra della DC a partire dal dopoguerra. Eppure don Sturzo trovava l’aspirazione verso il bene condiviso nella stessa radice cristiana del suo impegno. Diceva: “La politica è per sé un bene: il far della politica è, in genere, un atto di amore per la collettività”. L’idea di libertà di don Sturzo non era, dunque, in contrapposizione all’idea di giustizia, ma semmai in contrapposizione ai rischi totalitari dello Stato, alle imposizioni dei poteri forti, alla sottrazione di forza ai mondi vitali e alle formazioni sociali. Infatti, non era un’idea di libertà formale, ma un’idea concreta, riflesso di una concezione della società come un organismo complesso e articolato e non come una realtà segmentata e classificata.

La modernità del prete di Caltagirone è nella sua visione concreta, essenziale e asciutta dell’agire politico, molto lontana dalla goffa retorica dei suoi tempi e forse, con diverso stile, dei nostri. Per questo a mio parere, rispetto ad altre importanti testimonianze in qualche modo collegate al loro tempo, il pensiero sturziano ha molto da dire anche in un’epoca come la nostra che sente il peso di una trasformazione profonda.

E ancora vale il suo invito a non scoraggiarsi: “L’incivilimento non è lineare; le idee civili di un tempo debbono essere successivamente rivedute e riadattate; le crisi fanno retrocedere in modo che gli istinti barbarici riprendono vigore. Ma il faro della eticità non si oscura mai; e la ripresa, ora in nome della religione, ora in nome della libertà, della socialità, del diritto, della personalità umana, ritorna a essere di guida fra i flutti delle passioni politiche”.


3 Commenti

  1. Un articolo molto denso di spunti. Ne colgo uno in particolare. Ai nostri giorni, quella collaborazione fra classi intellettuali e professionali che Sturzo riconosceva esser stata strategica per il suo Ppi, non solo non la si vede più ma, ahimè, è stata sostituita dalla secessione – culturale, antropologica, economica – dal resto della società della componente più benestante.
    A ciò si aggiunga il fatto che gran parte di coloro che esercitano professioni liberali sono loro stessi soggetti a un profondo processo di proletarizzazione, tale da pregiudicare un loro contributo al miglioramento delle condizioni delle classi subalterne.
    Ai tempi di Sturzo la politica doveva gestire dei processi di elevazione sociale di massa, e arrivarono le dittature, le guerre mondiali. A cosa andiamo incontro noi oggi che ci viene imposto di gestire un epocale processo di retrocessione e di decadimento di massa della classe media in nome del maggior profitto di pochissimi già ricchissimi, camuffato da pretestuose ragioni di bilancio?

    • Certamente una domanda da non lasciar cadere. All’origine del pensiero di destra di oggi vi è sicuramente la profonda disuguaglianza e il disagio che ne consegue. Purtroppo non possiamo riproporre vecchie ricette ed è qui che con pazienza dovremmo prendere confidenza con il reale e far dialogare i nuovi soggetti sociali.

  2. Un articolo che ho letto con interesse per via delle ricerche che nel corso di questi ultimi due anni ho dedicato alla nascita del sindacalismo “bianco”, mi ha suggerito qualche osservazione e integrazione storica critica.
    E’ vero che col PPI si segna definitivamente l’ingresso dei cattolici nella politica del Paese (ed è persino salutato da Gramsci), ed è pur vero che la sua nascita è stata un’operazione complessa, forse ancora più di quella della Confederazione CIL (la “bianca”), richiamandosi entrambi a quel movimento dei cattolici sociali chiamato “democrazia cristiana” che il prof. Giuseppe Toniolo aveva introdotto fin dal suo “Programma di Milano” (1894), come impegno politico e sociale.
    Intervengo su due aspetti della figura di Sturzo (del primo dopoguerra) che meritano approfondimento per non risultare agiografici. Tiro in ballo due passaggi di Buat che riguardano la base sociale a sostegno di un programma con “una gestione plurale e non personale”; ed inoltre la visione di don Sturzo “nelle autonomie locali e sociali soggetti che hanno una propria autonoma legittimazione”.
    Cosa c’è da correggere? Il rapporto sindacato partito.
    Diamo atto che Sturzo ha iniziato in Sicilia il proprio lavoro in campo sociale con le leghe contadine, ma con l’handicap di esser cresciuto in un’Italia emarginata per la sua realtà preindustriale, che lo portò a pensare che solo la strada della politica era quella da perseguire come risolutiva.
    Il sindacalismo bianco nacque prima su base sia professionale che territoriale, con la specificità dell’autonomia (aconfessionale e apartitica) e con un programma in 12 punti: tale realtà sociale confederata richiedeva una gestione collegiale. Questa impostazione, realizzata col grande lavoro di Giambattista Valente, portò un notevole supporto alla nascita del PPI, che ne adottò le migliori caratteristiche. Salvo che quando, dopo 14 anni di riflessione e attività locale, Sturzo fonda il PPI, la gestione diventa personalista e in conflitto col sindacato bianco proprio sull’autonomia: Sturzo concepisce il partito come lo strumento di tutta la politica, e quindi il sindacato è un organo strumentale di trasmissione del partito.
    Nella sua autobiografia Valente definisce “dittatoriale” la gestione di Sturzo, che gli chiede le dimissioni da Segretario generale della CIL per sostituirlo con un deputato più docile (Giovanni Gronchi). Cosicché Sturzo, presente con suoi uomini valenti nella compagine di governo, non realizza il riconoscimento della CIL dallo stesso governo alla pari con la CGdL (la “rossa”), perché l’esercizio contrattuale col Governo lo fa il PPI, come succede per la chiusura del “biennio rosso”.
    Forse un’analisi critica rispetto alle vicende dei cattolici sociali nel primo dopoguerra può aiutare a capire come si sia arrivati rapidamente al loro soffocamento.
    Penso di aver aperto un dibattito?
    Carissimi saluti.

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