Non “buonismo” ma “fraternità”



Oreste Calliano    6 Dicembre 2018       1

Ho partecipato a un interessante convegno su “ Immigrazione e sicurezza: oltre il buonismo e contro il razzismo” organizzato dalla Rete Bianca che sta avviando un percorso di ricomposizione dei cattolici in politica, auspicato sia dalla Chiesa sia dalla società civile.

Il tema assai complesso e stato ritradotto in una domanda retorica di grande efficacia: esiste una terza o quarta visione del problema immigrazione oltre alle alternative semplificatorie estreme? Da che parte stanno i cattolici? La richiesta di sicurezza è illegittima o il buonismo è l’atteggiamento proprio dei credenti?

Iniziamo dal linguaggio. L’espressione “buonismo”, che nulla ha a che vedere con buono, nasce nel linguaggio politico-giornalistico a partire dal 1995 per definire chi si dimostra tollerante nei confronti degli avversari. È figlio tardivo del linguaggio del ’68 in cui la tolleranza veniva vista non come l’atteggiamento di rispetto nei riguardi dei comportamenti, delle convinzioni, delle idee altrui – anche in contrasto con le proprie (dal latino del sec. XVI “tolere” cioè levare, togliere il giudizio negativo, come elogiato da Voltaire) – ma come antitesi di intolleranza, che è l’incapacità di sopportare le opinioni e le convinzioni altrui sul presupposto che la storia è fondata sul conflitto degli interessi, sullo scontro delle opinioni, quindi sulla lotta delle classi (Hegel. Marx). Quindi ogni cedimento alla comprensione, valutazione, mediazione con le opinioni altri è indice di debolezza e quindi di disfatta nella lotta per la vita.

Atteggiamento indice di debolezza psico-sociologica: gli individui e le società che hanno sviluppato forme di intolleranza sono destinate a trovare di fronte a sé antagonisti anziché coprotagonisti, avversari anziché cooperatori, nemici anziché amici (vedi i grandi autocrati o tutti i politici convinti di decidere sempre da soli).

Qui si scontrano sin dal mondo greco due visioni antropologiche dell’uomo e culturali della società: la visione dell’uomo nato buono e poi corrotto dall’educazione e dalle vicende sociali, e l’uomo egoista che afferma la sua personalità contro le avversità naturali e contro gli altri uomini, interni o esterni al proprio gruppo. In ogni società emergono queste due visioni, di solito in contrapposizione tra loro, e spesso una prevale sull’altra costringendo all’esilio le minoranze che la riaffermano (dai greci esuli, ai puritani, ai migranti islamici anti-ISIS).

E noi occidentali, europei, italiani? Occorre distinguere.

Gli Stati Uniti sono sorti sulla base di minoranze gradatamente integrate (purché parlassero inglese, accettassero i valori della Costituzione americana e restassero subalterni ai WASP (white, anglo-saxons, protestants). Ora non è più così e la maggioranza degli abitanti sul suolo americano sono ladinos, con minoranze indios ed europee. Il che solleva gravi problemi di integrazione in un Paese federale, come i casi esplosi nei tentativi di integrazione dei blacks negli anni ’70, tutt’ora irrisolti in alcuni Stati.

In Europa i modelli di integrazione sembrano aver fallito. Il modello inglese di apartheid (in Inghilterra, pur poco conosciuti, operano tribunali shaaritici che applicano il diritto di famiglia musulmano) non ha consentito alle minoranze islamiche di emergere politicamente, se non a Londra dove il sindaco è di origine pakistana e assai tollerante.

In Francia il modello di assimilazione dentro la cornice della citoyenneté o religione civile ha inasprito anziché attenuato i conflitti tra i pied noir espulsi dall’Algeria e i nuovi immigrati dal nord-Africa (a Marsiglia interi quartieri hanno le insegne stradali solo in arabo).

Il modello tedesco ha funzionato in parte, in quanto ha inserito prevalentemente est-europei e turchi, peraltro scelti per qualifiche professionali, così come in Lussemburgo furono scelti solo i portoghesi e in Svizzera i lavoratori utili per i lavori umili.

E noi in Italia? Privi di una cultura dell’immigrazione, in quanto Paese poco coloniale (solo i somali e gli eritrei giunti in Italia si integrarono perfettamente) non abbiamo sviluppato valori, principi e regole operazionali utili ad affrontare un problema così complesso e di lunga durata. Inoltre ci siamo ritrovati, protèsi nel Mediterraneo, esposti alle “invasioni” facilitate e gestite dalle varie criminalità (uno dei business più redditizi dopo la distribuzione delle droghe).

Occorre riflettere sia sul piano sociale, che religioso e giuridico, per dare a chi deve fare scelte politiche e sviluppare strategie di lungo termine, gli strumenti conoscitivi, i valori, le regole gius-sociali per operare.

Provo ad affrontare il tema dal punto di vista valoriale.

La nostra società europea continentale dall’Ottocento in poi si è costruita su tre valori: libertà, uguaglianza, fraternità. I primi due si dice siano espressione uno della cultura politica liberale (la libertà individuale e di proprietà come difesa dell’individuo di fronte al Potere sovrano), l’altro della cultura socialista (l’eguaglianza dei cittadini non solo di fronte alla legge, ma anche di fronte alle opportunità economiche e sociali). Il terzo invece, inteso come solidarietà, pare espressione della cultura politica cristiano-sociale (la solidarietà tra individui e ceti come collante della società, soprattutto nei periodi di crisi). Ma la solidarietà è apparsa come un valore residuale rispetto ai primi due. Il bipolarismo si è costruito tra chi privilegiava la libertà e chi privilegiava la uguaglianza.

La crisi del 2008, palese in Italia solo dal 2011, ha evidenziato i ritardi che le varie classi politiche della prima e seconda fase repubblicana hanno sommato e aggravato: debito pubblico a fini di consenso, istruzione non più interessante sul piano clientelare, abbandono della ricerca (a partire dal nefasto referendum sul nucleare), mancanza di manutenzione del territorio e degli edifici pubblici in quanto costi occulti, non visibili elettoralmente. Poi è esplosa la bolla dell’immigrazione, scatenata dalle guerre fomentate in Africa a fini di acquisizione di risorse energetiche e naturali, dalla diffusione di informazioni distorte sul benessere europeo proposta dalle TV, priva della contromedaglia in termini di sacrifici, di difficoltà umane e di obblighi di integrazione, in una o più generazioni, propria dell’esperienza dell’emigrante, e dallo sfruttamento di una attività economica sostitutiva del contrabbando, ma molto più remunerativa per le criminalità organizzate.

Occorre quindi riprendere e rielaborare il valore della “fraternità”, non solo intesa in senso morale (la parabola del buon samaritano), ma anche in senso giuridico. Qualche studioso (da ultima Ilaria Massa Pinto) individua la fraternità conflittuale come il valore ricavabile per via interpretativa dalla Costituzione italiana, come ci insegnava il maestro di Diritto costituzionale Leopoldo Elia, dai principi di solidarietà, di dignità umana, di eguaglianza di opportunità, di libertà di circolazione. Si tratta del valore che impone non un comportamento da fratelli, impossibile verso persone di culture, religione e identità diverse, ma “come se”fossimo fratelli.

Quindi la “fraternità” rappresenta un valore fondato su diritti e doveri reciproci ricavabili dalle Convenzioni internazionali, dai Trattati europei, dalla Costituzione italiana. Il diritto all’accoglienza sostenibile, il diritto all’asilo se legittimati dalle Convenzioni internazionali, il diritto alle cure mediche e alla possibilità di avere una casa e un lavoro dignitoso, al ricongiungimento famigliare in tutta la UE se legittimati. E i correlati diritti-doveri alla conoscenza della lingua del Paese ospitante, del rispetto dei diritti fondamentali della Carta europea, dell’istruzione dei figli secondo i valori fondamentali del Paese ospitante.

Invece i vari Stati europei, consapevoli da decenni dell’ingigantirsi del problema hanno o fatto gli “gnorri” (la Norvegia non ha aderito all’UE per evitare norme sulla pesca e sull’immigrazione) o hanno scelto i “loro” ex- coloni (Gran Bretagna, Francia, Portogallo) o hanno usato l’immigrazione a fini economici, selezionando la manodopera utile allo sviluppo del Paese e negando il ricongiungimento famigliare (mogli, figli piccoli) inutili a fini produttivi (Germania e Austria negli anni ‘80-‘90 ) o contrastando ogni politica di accordi minimali europei (Paesi di Vysegrad ) o lasciando soli, in contrasto con il principio di solidarietà previsto dai Trattati europei, i Paesi mediterranei.

È ora che l’Economia sociale di mercato tanto voluta dai costituenti europei, in particolare tedeschi, sviluppi la terza gamba: oltre al Mercato unico ed alla Difesa comune, anche la socialità delle politiche nazionali ed europee. I fondi si possono trovare (con bond europei, ad esempio), l’urgenza è estrema. Occorre la volontà politica che si può esprimere nelle prossime elezioni europee.

Se perdiamo quest’occasione l’Europa imploderà, non per motivi economici ma per egoismi nazionali. È già capitato in due recenti passati...


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