La riduzione della povertà passa dalle politiche economiche. Prendendo spunto da quanto Gianni Bottalico scrive su “Agenda Domani” (vedi La riduzione della povertà passa dalle politiche economiche del 18 novembre 2018): “Dal 1999 al 2013, il numero di persone nel mondo che vivono sotto la soglia di povertà estrema è pur sceso del 28%, passando da 1,7 miliardi a 767 milioni, ma i poveri restano ancora troppi, il 10% della popolazione mondiale. Nell’Unione Europea i poveri sono saliti a 117,5 milioni”; aggiungendo che nel mondo vi è sovrapproduzione: ci sono troppi beni, tutti mirano ad essere più competitivi a esportare, riducendo i salari e i diritti dei lavoratori; abbassando la capacità di spesa delle famiglie e alimentando la spirale dell’impoverimento del ceto medio. “Mai tanta ricchezza, mai così mal distribuita”.
E ricordandoci che la lotta globale alla povertà è inserita fra i 17 obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. E poiché anche nel nostro Paese la povertà relativa e assoluta è peggiorata, “se si vogliono raggiungere risultati apprezzabili nella riduzione della povertà, occorre abbandonare un modo di concepire l’economia e i conti pubblici in funzione del primato della moneta sulla persona e sulla democrazia e dare, invece, priorità alla sostenibilità del vivere per tutti, alle dinamiche dell’economia reale, fatta di famiglie, aziende, Stati i quali debbono avere la facoltà di fare da volano all’economia con investimenti per le necessarie opere pubbliche, per il lavoro e per il rafforzamento dello stato sociale”.
Condivido pienamente. E concordo, con Bottalico, che serva maggior coraggio ai cattolici impegnati oggi nel sociale e in politica, a un secolo dall’Appello “ai liberi e forti” di don Luigi Sturzo, per dare un segnale alternativo alle politiche economiche degli ultimi lustri, tenendo anche conto del fondamentale indirizzo della Laudato sì di papa Francesco e del suo invito a celebrare annualmente – siamo alla seconda edizione – la Giornata mondiale dei poveri.
Purtroppo, invece, anche molti cattolici democratici, continuano a sostenere di fatto scelte di “austerità” e non si creano alternative serie alle politiche di Bruxelles. Così ci guadagnano i populisiti e i sovranisti: i sondaggi e i risultati elettorali non solo in Italia dicono di un andazzo preoccupante per le sorti future e per la capacità di realizzare una Comunità di popoli uniti in una Federazione continentale.
Serve superare la divisione tra i riformatori e progressisti (così come sinteticamente indicata da Ceccanti) tra coloro che si trovano su posizioni con elementi di liberalismo e chi ha una visione più statalista. E offrire un progetto solidarista “di contrasto alla povertà, insieme a politiche economiche orientate a fermare la caduta del ceto medio nell’area di rischio di povertà”, che vada oltre le vecchie storie del pur glorioso socialismo e di quel centro liberal-democratico e popolare che è usato e asservito dal capitalismo. È necessario sviluppare politiche che (pur nel rispetto degli equilibri di bilancio e delle regole comunitarie, le quali sono a garanzia di tutti) siano espansive, di sostegno agli investimenti e al lavoro e che non mettano continuamente ceti medi contro strati più poveri, oppure giovani contro anziani, oppure ancora nord contro sud. Se su queste divisioni si continua a giocare si regaleranno elettori alle destre e agli irresponsabili e inesperti giacobini.
Anche Roberto Esposito su “Repubblica” (del 17 novembre scorso) si chiede perché le tre grandi tradizioni politiche (la tradizione cristiano-democratica degli Adenauer, dei De Gasperi, degli Schuman; quella repubblicana e laica, soprattutto francese; quella socialista, diversificata tra socialdemocrazia tedesca e scandinava, e il socialismo spagnolo, portoghese, greco) che hanno dato vita all’Europa non riescano a dare risposte convergenti e convincenti. “Non si tratta solo di correnti ideali, anche se un riferimento alto, sul piano culturale e simbolico, è tutt’altro che irrilevante nel momento in cui l’Europa deve ridefinirsi”; sono partiti e organizzazioni politiche e sociali “che stanno per affrontare una battaglia decisiva per l’esistenza dell’Europa contro altre forze (…). Sono d’accordo con quanto ha detto Cacciari nel Forum del PD. Tentare di unificare in un collettore unico in un unico listone europeista, inevitabilmente generico e indifferenziato, avvantaggerebbe gli avversari, che vanno ciascuno con la propria bandiera nazionale e nazionalista. Non sempre in politica la somma vale più dell’alleanza e dell’articolazione” perché le singole culture europee si presentino con i propri valori, in un’alleanza che non le omologhi artificiosamente. Infatti “il motore, e il cuore, dell’Europa sta nell’articolazione delle sue differenze”.
Resta da capire, qualunque sia la tattica scelta per la formazione delle liste alle prossime elezioni del Parlamento europeo, se la coalizione verso cui si indirizzeranno i sostenitori dell’Europa unita e di un processo di integrazione (rispettoso delle autonomie regionali e culturali) intenderà affrontare i cambiamenti profondi di politica economica fin qui perseguita, per affrontare le povertà e per costruire una Unione più “sociale” e popolare.
I debiti devono ridursi, i deficit di bilancio non devono essere la regola, ma c’è da chiedersi se ai cittadini di tutta l’Unione non vadano comunque assicurati lavoro, reddito, servizi sanitari e scolastici da Paesi civili, economicamente accessibili e a carattere universale.
E ricordandoci che la lotta globale alla povertà è inserita fra i 17 obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. E poiché anche nel nostro Paese la povertà relativa e assoluta è peggiorata, “se si vogliono raggiungere risultati apprezzabili nella riduzione della povertà, occorre abbandonare un modo di concepire l’economia e i conti pubblici in funzione del primato della moneta sulla persona e sulla democrazia e dare, invece, priorità alla sostenibilità del vivere per tutti, alle dinamiche dell’economia reale, fatta di famiglie, aziende, Stati i quali debbono avere la facoltà di fare da volano all’economia con investimenti per le necessarie opere pubbliche, per il lavoro e per il rafforzamento dello stato sociale”.
Condivido pienamente. E concordo, con Bottalico, che serva maggior coraggio ai cattolici impegnati oggi nel sociale e in politica, a un secolo dall’Appello “ai liberi e forti” di don Luigi Sturzo, per dare un segnale alternativo alle politiche economiche degli ultimi lustri, tenendo anche conto del fondamentale indirizzo della Laudato sì di papa Francesco e del suo invito a celebrare annualmente – siamo alla seconda edizione – la Giornata mondiale dei poveri.
Purtroppo, invece, anche molti cattolici democratici, continuano a sostenere di fatto scelte di “austerità” e non si creano alternative serie alle politiche di Bruxelles. Così ci guadagnano i populisiti e i sovranisti: i sondaggi e i risultati elettorali non solo in Italia dicono di un andazzo preoccupante per le sorti future e per la capacità di realizzare una Comunità di popoli uniti in una Federazione continentale.
Serve superare la divisione tra i riformatori e progressisti (così come sinteticamente indicata da Ceccanti) tra coloro che si trovano su posizioni con elementi di liberalismo e chi ha una visione più statalista. E offrire un progetto solidarista “di contrasto alla povertà, insieme a politiche economiche orientate a fermare la caduta del ceto medio nell’area di rischio di povertà”, che vada oltre le vecchie storie del pur glorioso socialismo e di quel centro liberal-democratico e popolare che è usato e asservito dal capitalismo. È necessario sviluppare politiche che (pur nel rispetto degli equilibri di bilancio e delle regole comunitarie, le quali sono a garanzia di tutti) siano espansive, di sostegno agli investimenti e al lavoro e che non mettano continuamente ceti medi contro strati più poveri, oppure giovani contro anziani, oppure ancora nord contro sud. Se su queste divisioni si continua a giocare si regaleranno elettori alle destre e agli irresponsabili e inesperti giacobini.
Anche Roberto Esposito su “Repubblica” (del 17 novembre scorso) si chiede perché le tre grandi tradizioni politiche (la tradizione cristiano-democratica degli Adenauer, dei De Gasperi, degli Schuman; quella repubblicana e laica, soprattutto francese; quella socialista, diversificata tra socialdemocrazia tedesca e scandinava, e il socialismo spagnolo, portoghese, greco) che hanno dato vita all’Europa non riescano a dare risposte convergenti e convincenti. “Non si tratta solo di correnti ideali, anche se un riferimento alto, sul piano culturale e simbolico, è tutt’altro che irrilevante nel momento in cui l’Europa deve ridefinirsi”; sono partiti e organizzazioni politiche e sociali “che stanno per affrontare una battaglia decisiva per l’esistenza dell’Europa contro altre forze (…). Sono d’accordo con quanto ha detto Cacciari nel Forum del PD. Tentare di unificare in un collettore unico in un unico listone europeista, inevitabilmente generico e indifferenziato, avvantaggerebbe gli avversari, che vanno ciascuno con la propria bandiera nazionale e nazionalista. Non sempre in politica la somma vale più dell’alleanza e dell’articolazione” perché le singole culture europee si presentino con i propri valori, in un’alleanza che non le omologhi artificiosamente. Infatti “il motore, e il cuore, dell’Europa sta nell’articolazione delle sue differenze”.
Resta da capire, qualunque sia la tattica scelta per la formazione delle liste alle prossime elezioni del Parlamento europeo, se la coalizione verso cui si indirizzeranno i sostenitori dell’Europa unita e di un processo di integrazione (rispettoso delle autonomie regionali e culturali) intenderà affrontare i cambiamenti profondi di politica economica fin qui perseguita, per affrontare le povertà e per costruire una Unione più “sociale” e popolare.
I debiti devono ridursi, i deficit di bilancio non devono essere la regola, ma c’è da chiedersi se ai cittadini di tutta l’Unione non vadano comunque assicurati lavoro, reddito, servizi sanitari e scolastici da Paesi civili, economicamente accessibili e a carattere universale.
Caro Baviera,un piccolo appunto metodologico.
Non possiamo più permetterci un linguaggio che evidenziando punti critici e richieste di nuove strategie (economiche, sociali, culturali) unifichi alternative contraddittorie: se i debiti devono ridursi perchè trasferiti alle generazioni future che non li potranno sopportare non si può contemporaneamente richiedere lavoro, servizi sociali e welfare universali ed economicamente accessibili (il modello di welfare europeo). Se si deve creare nuovo lavoro occorre investire in formazione, ricerca, sostenibilità ambientale che hanno tempi lunghi di risultati e sottraggono inevitabilmente risorse al welfare attuale (v. le pensioni). Occorre fare scelte ed elaborare strategie a medio termine.
L’attuale democrazia (meglio telecrazia o infocrazia) non lo consente a chi vuol mantenere il potere a breve termine.
Ma perché mai “i debiti (pubblici) devono ridursi e i deficit di bilancio (pubblico) non devono essere una regola”?
Il debito pubblico deve ridursi solo quando, a fronte di esso, c’è una spesa mal fatta; non certo quando la spesa è buona, poiché, in questo caso, si rinvia al futuro, non solo l’onere del rimborso del debito, ma anche le risorse con cui rimborsare il debito, ricordandosi peraltro che l’onere per la collettività del rimborso del debito pubblico vale solamente quando i creditori sono stranieri. Se sono nazionali, il rimborso del debito pubblico è solamente un fattore di redistribuzione interna e non “un fardello per le generazioni future”, poiché una parte della collettività dovrà pagare con le imposte e un’altra parte incasserà la stessa cifra.
Il deficit pubblico (sempre a condizione che la spesa sia ben fatta) è cosa positiva quando essa stimola domanda e/o offerta aggregate che siano carenti e blocchino pertanto la crescita dell’economia; è cosa negativa quando stimola domanda e/o offerta aggregate che siano già eccessivamente elevate.
Debito e deficit pubblico sono grandezze che hanno rilevanza quali obiettivi intermedi; non sono giammai grandezze che hanno rilevanza quali obiettivi finali, cioè le cose che veramente contano. Devono essere usati in modo che ci facciano avvicinare agli obiettivi finali, in quanto siano funzionali a questi ultimi.
Caro Daniele, non essendo un economista mi limito ad osservare che il grande debito pubblico italiano nasce negli anni ’70 quando, spesso a fini di consenso elettorale si elargirono le pensioni d’annata agli insegnanti, in maggioranza di origine borghese in quanto laureati, consentendo poi lavori in nero a danno dei giovani potenziali futuri insegnanti, gli investimenti demagogici, o peggio, nella chimica, nella metallurgia tradizionale, nelle infrastrutture inutili (la regione Abruzzo con due autostrade parallele e una pletora di alberghi nella capitale insegna) erodendo dall’interno il modello IRI che era il vanto dell’economia mista italiana ecc. Negli anni ’80 poi si mise pure la Corte Costituzionale ad approvare l’equiparazione dello stipendio degli alti magistrati a quello degli ambasciatori di I classe consentendo in base al “principio dei diritti acquisiti” un deficit pubblico che è debordato.
E’ chiaro che investimenti “ben fatti” sono utili, ma quando “le vacche sono magre” e il potere vuole mantenere il consenso, anche Giuseppe avvertì il Faraone che sarebbe arrivata la “tempesta”.
Quanto è importante in tempi di ordoliberismo imperante quello che ci ricorda il prof. Ciravegna! Debito e deficit pubblico sono strumenti in funzione di obiettivi che sta alla politica definire. E se il debito alimenta una spesa ben fatta ciò significa che esso lascia in dote alle generazioni future posti di lavoro, infrastrutture, sviluppo sociale e benessere diffuso. Esattamente ciò di cui invece saranno private dalle attuali politiche di austerità.
Ciò che scrive Oreste Calliano è vero, ma riguarda l’espansione del deficit pubblico italiano, non l’espansione del debito pubblico. Quest’ultimo ebbe una spinta rilevante in séguito al divorzio Tesoro dello Stato – Banca d’Italia (non sùbito nel 1981, quando fu statuito, ma a partire dalla fine degli Anni Ottanta), che sancì l’attenuazione della monetizzazione dei predetti deficit pubblici, per cui il finanziamento dei deficit pubblici prese la via dell’emissione di titoli del debito pubblico.