L’insicurezza indotta e percepita



Oreste Calliano    14 Novembre 2018       0

Durante un breve viaggio in Portogallo, mi hanno colpito alcuni aspetti di questo Paese, uscito dal 1974 da un cinquantennio di dittatura ed entrato nell’UE come il paese più povero e da ricostruire:

Per primo l’uso efficace ed efficiente dei fondi comunitari usati per infrastrutture di livello europeo, recupero dei monumenti e del patrimonio culturale, stimoli al turismo. Poi il sentimento di ricostruzione sia economica, sia sociale e politica che si respirava in Italia negli anni ’60 e che stimola gli operatori economici, culturali e gli abitanti stessi. E il senso di ordine, pulizia, di tranquilla accettazione delle difficoltà che richiamano la civiltà contadina e pescadora.

Ma ciò che più mi ha colpito è il senso di sicurezza e di autoregolamentazione sociale che si percepisce nella popolazione. Su un tram una giovane turista, che non aveva lasciato il posto ad una signora di mezza età con fardello, è stata redarguita in modo tranquillo, ma deciso, da una coetanea, che , così facendo, ha riaffermato che se le regole sociali valgono per tutti, i giovani hanno maggior interesse a farle rispettare. Ciò mi ha fatto pensare al tema “ambiguo” della sicurezza che viene sbandierato a fini politico-elettorali.

Da dove nasce la percezione della insicurezza che, secondo l’Istat ha circa il 34% della popolazione italiana, connesso al 42% di quanti ritengono che ciò derivi dalla scarsa efficienza dello Stato e delle forze dell’ordine?

In tema di sicurezza occorre distinguere: i dati statistici, la percezione sociale e le reazioni emotive sviluppate dai media, dalle fake news e dagli stessi errori cognitivi di ciascuno di noi.

Iniziamo da quest’ultimi. La neuropsicologia ci spiega che le novità, i cambiamenti, le repentine mutazioni di panorama e di visione (come l’auto che scorgiamo dopo una curva) lanciano uno stimolo immediato all’ipotalamo che, sviluppando adrenalina, crea una reazione di paura nella corteccia pre-frontale. Le conseguenze sono: aggressività (prendersela con qualcuno, il capro espiatorio), fuga (abbandonare il campo, ad esempio della politica), blocco reattivo (incertezza, tipo asino di Buridano, o ambiguità, dire una cosa e poi contraddirla).

Poi, se opportunamente lasciati liberi di ragionare, valutiamo più attentamente le prime reazioni e decidiamo il da farsi in base ai dati della realtà e dell’esperienza. Ma se qualche idea consolatoria ci viene proposta, vi aderiamo per giustificare la prima reazione (gli ebrei erano brutti e cattivi, gli indios non erano umani perché non cristiani, gli extracomunitari non hanno diritti perché non sono cittadini... quindi avevamo ragione). Questo non è un problema di insicurezza, ma un problema di errori cognitivi indotti (il marketing emozionale).

La percezione sociale dell’insicurezza è, ad oggi, nata dalla sfiducia che si è diffusa nella popolazione prima statunitense poi europea, a seguito della crisi finanziaria del 2008: questa ha dimostrato che chi detiene il potere se la cava anche se ha commesso gravi errori di valutazione, e spesso ci guadagna, e chi è più debole, meno acculturato, più esposto alle tempeste della vita, ne paga direttamente (crisi bancarie) o indirettamente (perdita del posto di lavoro, mancanza di opportunità, sovraindebitamento) i costi.

Come nasce la fiducia sociale, quello che ora viene definito il “capitale sociale” di una comunità? Dal comportamento e dall’esempio delle classi dirigenti (economiche, culturali, politiche). Se questo manca l’uomo medio non ha esempi di riferimento e cade nella sfiducia, nella disistima e nel disprezzo di ogni “ autorità” non più “ autorevole” (la scuola insegna).

La fiducia, come l’immagine richiede lungo tempo per affermarsi, ma pochissimo tempo per evaporare e lunghissimo tempo per ricostruirsi. Solo le “rivoluzioni” sia violente (francese, sovietica) che concertate (inglese, americana, risorgimentale, europea) creano uno spirito di rinnovamento “umanistico” che consente di ripartire e di riaffermare la fiducia nelle classi dirigenti, nelle istituzioni, nelle regole sociali soprattutto tra i giovani, che hanno nulla da perdere e tutto da guadagnare.

Quanto ai dati sulla criminalità, se sono in diminuzione non tolgono la percezione che molti extracomunitari delinquono con efferatezza e spregio delle sanzioni, forse perché le sentono meno gravi e puntuali rispetto a quelle dei Paesi da cui provengono (spesso dittature o  regimi autoritari) o forse perché il divario culturale si fa sentire. Non bastano i dati, come qualche politico sbandiera, per convincere chi si sente “ in pericolo “a causa delle “novità” rispetto a un mondo che negli anni ’50 e ’60 era tra i più tranquilli e positivi (assenza di guerre, di notizie negative, di degrado ambientale).

A mio avviso i politici non devono negare le percezioni sociali e neppure rinviare tutto a un futuro radioso (le “magnifiche sorti e progressive” leopardiane ), ma chiamare le emozioni sociali con il loro nome per conoscerle, gestirle e se del caso combattere chi le fomenta.

Ansia da  novità, paura del diverso, errori cognitivi, emozioni indotte a fini elettorali, nulla hanno a che fare con la gestione della società dell’innovazione verso la quale ci stiamo avviando. Ma occorre conoscere per deliberare!


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