Qualche tempo fa, Federico Geremicca, su “La Stampa”, ha descritto le nuove faglie politiche che si manifestano in questo terzo millennio: populismo-antipopulismo, europeismo-antieuropeismo, globalizzazione-nazionalismo. Delle prime due, ho già avuto modo di parlare. Mi soffermo ora sulla terza faglia, globalizzazione-nazionalismo.
Io sono totalmente ostile alla globalizzazione, ma non mi ritengo affatto un nazionalista. Forse ho le idee confuse anche a causa dell'età avanzata, o forse Geremicca usa impropriamente le parole (ovviamente ritengo che sia valida la seconda ipotesi...).
A discolpa di Geremicca devo dire che non è il solo a comportarsi in tal modo, perché è diffuso l’uso strumentale del termine “nazionalismo”. È questo un vocabolo dal significato plurimo. Sono stati, talora, designati come “nazionalisti” i movimenti nazionali che hanno caratterizzato i vari “risorgimenti”, ma nell’uso più ricorrente il termine “nazionalismo” ha una connotazione negativa in quanto allude a uno sviluppo degenerativo del concetto di nazione (come capita fra famiglia e familismo). In questa accezione, il nazionalismo (sostenuto da una ideologia che ha alimentato i conflitti del Novecento) si inserisce in una concezione gerarchica della società e del mondo, da cui discende l’esaltazione della propria nazione considerata superiore (per razza, cultura, civiltà o istituzioni politiche) alle altre, e si traduce in atti di forza tesi a dominare altri popoli e ad espandere territorialmente, militarmente o economicamente lo Stato nazionale. Il nazionalismo infatti ha sempre mirato e mira a far coincidere lo Stato con la nazione, e a cancellare nel territorio che ritiene proprio (anche a seguito di conquiste e annessioni) la presenza di altre culture e lingue ancorché autoctone.
Nell’Ottocento, i movimenti che si sono battuti per la libertà, l’indipendenza o l’unità del proprio paese (i vari risorgimenti che vanno dall'Italia e Germania ai Paesi dell’est Europa, dei Balcani e all’Irlanda) sono stati generalmente definiti “nazionali”. Infatti, ancora oggi, ben pochi considererebbero un nazionalista Garibaldi o Cavour. Nel Novecento, hanno seguito lo stesso percorso quei movimenti e partiti che nel Sud del mondo hanno lottato contro il colonialismo per la propria indipendenza. In questo caso, sovente si è utilizzato il termine “nazionalista” per contrassegnare taluni di detti movimenti, in specie quando malvisti dall'Occidente: così si è parlato di “nazionalismo arabo”, ma non si è mai designato come “nazionalista” il movimento sionista che anch’esso, come quello arabo, è riconducibile a quella riscoperta della nazione che ha caratterizzato i vari “risorgimenti”.
È indubbio che, in certe condizioni, i movimenti nazionali possano tradursi in nazionalismo nel significato negativo del termine. Nei processi unitari, segnali in questa direzione sono stati la discriminazione nei confronti delle minoranze linguistiche e l’ostilità riguardo ai cosiddetti “dialetti” e alle culture locali denunciati come “localismo”. La deriva nazionalista è stata particolarmente marcata in quelle parti d’Europa (Balcani, Mitteleuropa) dove la caduta degli imperi multinazionali, che comprendevano territori caratterizzati da un inestricabile intreccio di popoli, lingue, etnie (non a caso si chiama “macedonia” un’insalata di frutta), ha lasciato spazio a continui conflitti. In tal senso, il crollo dell'impero asburgico ha creato un vuoto nell'Europa danubiana di cui ancora oggi si sentono le conseguenze. Tuttavia tutto ciò non giustifica il riunire in un solo fascio il sentimento nazionale e il nazionalismo.
Ma nell’odierna società globalizzata, il tiro al bersaglio riguarda non solo il nazionalismo, ma soprattutto la nazione in quanto tale. C’è infatti chi ne nega lo stesso concetto. Che cos’è la nazione? Oggi, è in auge il patriottismo costituzionale, per il quale appartengono alla nazione tutti quanti si riconoscono nei dettami della costituzione che sta a suo fondamento. Ma a parte il fatto che nessun requisito giuridico basta a tal fine, la cittadinanza a cui allude il patriottismo costituzionale riguarda l’appartenenza allo Stato più che alla nazione. Ma la nazione non si identifica con lo Stato (ci sono nazioni frammentate in più Stati, e Stati multinazionali).
La nazione, come recita ogni dizionario, è il complesso degli individui legati da una stessa lingua, da cultura, usi e costumi comuni, che hanno coscienza di questo patrimonio e si riconoscono in una storia che lega le generazioni nel tempo. Il senso di appartenenza collettiva e di destino che caratterizza la nazione è indispensabile per tenere insieme una società e, in particolare oggi, per arginare un individualismo disgregatore di ogni legame sociale. Un tempo, nelle società premoderne, a svolgere tale funzione erano i legami comunitari nelle tante piccole comunità che costituivano gli Stati, mentre nelle classi dirigenti poteva essere la devozione verso il sovrano.
Oggi, ogni riferimento alla nazione viene sempre più indicato come un pericolo, perché atto a provocare aggressività verso gli altri. Falsa opinione, perché l’appartenenza a una nazione non comporta necessariamente ostilità nei confronti delle altre. Ad esempio, i patrioti risorgimentali si battevano per la creazione dell’Italia unita e nel contempo erano solidali con le altre nazionalità in lotta per l'indipendenza. Semmai è il “patriottismo” ideologico ad essere pericoloso. Infatti, mentre tutte le forme di appartenenza nazionale non sono necessariamente destinate a entrare in conflitto con gli “altri”, pur escludendoli (ogni definizione, nel momento che include ciò che in essa rientra, esclude il resto), le appartenenze ideologiche vedono negli altri coloro che non hanno scelto la via della verità e della salvezza e quindi sempre degli avversari da annientare. È questa la logica che ha alimentato le terribili guerre di religione che hanno insanguinato l'Europa nei secoli XVI e XVII. A questa logica si ricollega il fondamentalismo, ma ad essa non sfugge neppure l’occidentalismo, e lo si è già constatato con le guerre per esportare la liberaldemocrazia.
La più parte di chi si oppone alla globalizzazione non lo fa nell’ottica del nazionalismo, ma per difendere l’identità e la stessa sopravvivenza della nazione. Sono altri a ritenere che la propria patria sia “la nazione unica, dal destino manifesto a cui spetta guidare il mondo”. E altrettanto il recupero della sovranità dello Stato (nazionale o federale) è un atto indispensabile per contrastare un dominio del mercato che ha ormai reso impotente la politica.
Come ha scritto Domenico Accorinti, in un lungo commento ad un articolo, “sovranismo” fa parte di quelle parole (insieme a “nazionalismo”) usate in modo scorretto dall’élite globalista per eliminare la politica in quanto tale. Questa infatti presuppone che i cittadini debbano aver voce preminente nell’indirizzare le scelte che si pongono nella società in cui vivono. Ma ciò rappresenta un ostacolo all’affermazione del mercato globale con i suoi automatismi, e al dominio dell'oligarchia tecnocratica che lo presiede e che ha come obiettivo la crescita per la crescita, in particolare la propria crescita.
Quindi sarebbe bene fare molta attenzione alle parole che si usano senza confondere la giusta difesa del valore della nazione con il nazionalismo. Guardando alla costruzione europea, è necessario distinguere fra nazione (una realtà storico-valoriale) e Stato (una struttura politica). Costruire l’Europa non implica affatto andare contro le nazioni delle quali vanno invece salvaguardate l’identità, la lingua, la cultura e le specifiche caratteristiche, ed altresì quelle delle “aimat”, le piccole patrie locali, in cui sopravvivono esperienze comunitarie.
Edificare un'Europa unita (federazione o confederazione che sia) comporta il superamento degli Stati (nazionali o meno) a favore di un organismo fondato sul principio di sussidiarietà, in grado di essere autonomo e indipendente (in primo luogo nella politica estera e nella difesa militare) e capace di far sentire la sua voce nel mondo.
È questo un cammino assai difficoltoso, irto di ostacoli. Fra questi, assai più degli egoismi dei vari Paesi europei o delle rivendicazioni dei “sovranisti”, c’è la volontà dei gruppi dirigenti americani (politici, militari e preposti agli apparati) di impedire la nascita di una potenza che ridimensionerebbe il ruolo planetario degli USA. Oggi (come sostiene Dario Fabbri, autorevole analista di “Limes”), la crescente ostilità americana verso la Germania (nata ben prima di Trump) è motivata dal fatto che questo Paese, per la sua forza economica, la solidità delle sue istituzioni e la capacità tecnologica e organizzativa, rappresenta un potenziale centro di aggregazione politica del nostro continente.
Io sono totalmente ostile alla globalizzazione, ma non mi ritengo affatto un nazionalista. Forse ho le idee confuse anche a causa dell'età avanzata, o forse Geremicca usa impropriamente le parole (ovviamente ritengo che sia valida la seconda ipotesi...).
A discolpa di Geremicca devo dire che non è il solo a comportarsi in tal modo, perché è diffuso l’uso strumentale del termine “nazionalismo”. È questo un vocabolo dal significato plurimo. Sono stati, talora, designati come “nazionalisti” i movimenti nazionali che hanno caratterizzato i vari “risorgimenti”, ma nell’uso più ricorrente il termine “nazionalismo” ha una connotazione negativa in quanto allude a uno sviluppo degenerativo del concetto di nazione (come capita fra famiglia e familismo). In questa accezione, il nazionalismo (sostenuto da una ideologia che ha alimentato i conflitti del Novecento) si inserisce in una concezione gerarchica della società e del mondo, da cui discende l’esaltazione della propria nazione considerata superiore (per razza, cultura, civiltà o istituzioni politiche) alle altre, e si traduce in atti di forza tesi a dominare altri popoli e ad espandere territorialmente, militarmente o economicamente lo Stato nazionale. Il nazionalismo infatti ha sempre mirato e mira a far coincidere lo Stato con la nazione, e a cancellare nel territorio che ritiene proprio (anche a seguito di conquiste e annessioni) la presenza di altre culture e lingue ancorché autoctone.
Nell’Ottocento, i movimenti che si sono battuti per la libertà, l’indipendenza o l’unità del proprio paese (i vari risorgimenti che vanno dall'Italia e Germania ai Paesi dell’est Europa, dei Balcani e all’Irlanda) sono stati generalmente definiti “nazionali”. Infatti, ancora oggi, ben pochi considererebbero un nazionalista Garibaldi o Cavour. Nel Novecento, hanno seguito lo stesso percorso quei movimenti e partiti che nel Sud del mondo hanno lottato contro il colonialismo per la propria indipendenza. In questo caso, sovente si è utilizzato il termine “nazionalista” per contrassegnare taluni di detti movimenti, in specie quando malvisti dall'Occidente: così si è parlato di “nazionalismo arabo”, ma non si è mai designato come “nazionalista” il movimento sionista che anch’esso, come quello arabo, è riconducibile a quella riscoperta della nazione che ha caratterizzato i vari “risorgimenti”.
È indubbio che, in certe condizioni, i movimenti nazionali possano tradursi in nazionalismo nel significato negativo del termine. Nei processi unitari, segnali in questa direzione sono stati la discriminazione nei confronti delle minoranze linguistiche e l’ostilità riguardo ai cosiddetti “dialetti” e alle culture locali denunciati come “localismo”. La deriva nazionalista è stata particolarmente marcata in quelle parti d’Europa (Balcani, Mitteleuropa) dove la caduta degli imperi multinazionali, che comprendevano territori caratterizzati da un inestricabile intreccio di popoli, lingue, etnie (non a caso si chiama “macedonia” un’insalata di frutta), ha lasciato spazio a continui conflitti. In tal senso, il crollo dell'impero asburgico ha creato un vuoto nell'Europa danubiana di cui ancora oggi si sentono le conseguenze. Tuttavia tutto ciò non giustifica il riunire in un solo fascio il sentimento nazionale e il nazionalismo.
Ma nell’odierna società globalizzata, il tiro al bersaglio riguarda non solo il nazionalismo, ma soprattutto la nazione in quanto tale. C’è infatti chi ne nega lo stesso concetto. Che cos’è la nazione? Oggi, è in auge il patriottismo costituzionale, per il quale appartengono alla nazione tutti quanti si riconoscono nei dettami della costituzione che sta a suo fondamento. Ma a parte il fatto che nessun requisito giuridico basta a tal fine, la cittadinanza a cui allude il patriottismo costituzionale riguarda l’appartenenza allo Stato più che alla nazione. Ma la nazione non si identifica con lo Stato (ci sono nazioni frammentate in più Stati, e Stati multinazionali).
La nazione, come recita ogni dizionario, è il complesso degli individui legati da una stessa lingua, da cultura, usi e costumi comuni, che hanno coscienza di questo patrimonio e si riconoscono in una storia che lega le generazioni nel tempo. Il senso di appartenenza collettiva e di destino che caratterizza la nazione è indispensabile per tenere insieme una società e, in particolare oggi, per arginare un individualismo disgregatore di ogni legame sociale. Un tempo, nelle società premoderne, a svolgere tale funzione erano i legami comunitari nelle tante piccole comunità che costituivano gli Stati, mentre nelle classi dirigenti poteva essere la devozione verso il sovrano.
Oggi, ogni riferimento alla nazione viene sempre più indicato come un pericolo, perché atto a provocare aggressività verso gli altri. Falsa opinione, perché l’appartenenza a una nazione non comporta necessariamente ostilità nei confronti delle altre. Ad esempio, i patrioti risorgimentali si battevano per la creazione dell’Italia unita e nel contempo erano solidali con le altre nazionalità in lotta per l'indipendenza. Semmai è il “patriottismo” ideologico ad essere pericoloso. Infatti, mentre tutte le forme di appartenenza nazionale non sono necessariamente destinate a entrare in conflitto con gli “altri”, pur escludendoli (ogni definizione, nel momento che include ciò che in essa rientra, esclude il resto), le appartenenze ideologiche vedono negli altri coloro che non hanno scelto la via della verità e della salvezza e quindi sempre degli avversari da annientare. È questa la logica che ha alimentato le terribili guerre di religione che hanno insanguinato l'Europa nei secoli XVI e XVII. A questa logica si ricollega il fondamentalismo, ma ad essa non sfugge neppure l’occidentalismo, e lo si è già constatato con le guerre per esportare la liberaldemocrazia.
La più parte di chi si oppone alla globalizzazione non lo fa nell’ottica del nazionalismo, ma per difendere l’identità e la stessa sopravvivenza della nazione. Sono altri a ritenere che la propria patria sia “la nazione unica, dal destino manifesto a cui spetta guidare il mondo”. E altrettanto il recupero della sovranità dello Stato (nazionale o federale) è un atto indispensabile per contrastare un dominio del mercato che ha ormai reso impotente la politica.
Come ha scritto Domenico Accorinti, in un lungo commento ad un articolo, “sovranismo” fa parte di quelle parole (insieme a “nazionalismo”) usate in modo scorretto dall’élite globalista per eliminare la politica in quanto tale. Questa infatti presuppone che i cittadini debbano aver voce preminente nell’indirizzare le scelte che si pongono nella società in cui vivono. Ma ciò rappresenta un ostacolo all’affermazione del mercato globale con i suoi automatismi, e al dominio dell'oligarchia tecnocratica che lo presiede e che ha come obiettivo la crescita per la crescita, in particolare la propria crescita.
Quindi sarebbe bene fare molta attenzione alle parole che si usano senza confondere la giusta difesa del valore della nazione con il nazionalismo. Guardando alla costruzione europea, è necessario distinguere fra nazione (una realtà storico-valoriale) e Stato (una struttura politica). Costruire l’Europa non implica affatto andare contro le nazioni delle quali vanno invece salvaguardate l’identità, la lingua, la cultura e le specifiche caratteristiche, ed altresì quelle delle “aimat”, le piccole patrie locali, in cui sopravvivono esperienze comunitarie.
Edificare un'Europa unita (federazione o confederazione che sia) comporta il superamento degli Stati (nazionali o meno) a favore di un organismo fondato sul principio di sussidiarietà, in grado di essere autonomo e indipendente (in primo luogo nella politica estera e nella difesa militare) e capace di far sentire la sua voce nel mondo.
È questo un cammino assai difficoltoso, irto di ostacoli. Fra questi, assai più degli egoismi dei vari Paesi europei o delle rivendicazioni dei “sovranisti”, c’è la volontà dei gruppi dirigenti americani (politici, militari e preposti agli apparati) di impedire la nascita di una potenza che ridimensionerebbe il ruolo planetario degli USA. Oggi (come sostiene Dario Fabbri, autorevole analista di “Limes”), la crescente ostilità americana verso la Germania (nata ben prima di Trump) è motivata dal fatto che questo Paese, per la sua forza economica, la solidità delle sue istituzioni e la capacità tecnologica e organizzativa, rappresenta un potenziale centro di aggregazione politica del nostro continente.
Infatti è l’ europa come sentimento nazionale a fare paura. Io credo che l’europa sia nel sogno europeo e questo è un passo avanti che le potenze cosiddette globali non possano permettersi di subire.
Grazie Beppe del tuo contributo a chiarire e sviluppare un linguaggio di una nuova politica.
Patria, Nazione, Stato: tre termini su cui è necessario fare chiarezza e ringrazio Beppe Ladetto che qui lo ha fatto.
Intervento preciso e utile. Condivido le affermazioni soprattutto quelle relative alla costruzione dell’Europa, alla difesa delle nazioni, e delle piccole patrie o comunità locali; tutto essenziale per per costruire una casa comune fra i popoli europei, le loro culture, le loro fedi.