Il tema delle migrazioni era già stato oggetto di documentata trattazione nel 2009 da parte di Khalid Koser in Le migrazioni internazionali (editore il Mulino). Più recentemente (2013), Paul Collier, docente di fama internazionale dell'Università di Oxford ed esperto dei Paesi africani, ci fornisce in Exodus (editore Laterza) una nuova documentata rappresentazione dell’attuale fenomeno migratorio che si sottrae alle logiche ideologiche e propagandistiche oggi prevalenti nel pubblico dibattito, e che conferma in larga misura le osservazioni di Koser.
Della sua articolata trattazione di tale fenomeno, propongo sinteticamente quanto l'autore afferma circa le ricadute che esso ha sui migranti stessi, sui Paesi di approdo e su quelli di partenza.
Primo: i migranti. Chi sono?
Lasciamo da parte i rifugiati e i profughi che fuggono da guerre devastanti, ai quali è doveroso dare accoglienza, talora temporanea, ma che nel complesso sono una percentuale assai ridotta di quanti si spostano da un territorio a un altro, e veniamo ai migranti propriamente detti o “migranti economici”. Sono persone che, a fronte dell'enorme divario di reddito e di consumi fra Paesi ricchi e Paesi poveri, decidono di lasciare questi ultimi sapendo che nel corso della loro vita, se restassero in patria, tale divario non sarebbe colmato o lo sarebbe in misura insoddisfacente. Sono persone dinamiche in grado di affrontare l'avventura della migrazione perché posseggono i mezzi economici per l'impresa e le conoscenze o le informazioni necessarie allo scopo.
Non sono quindi le componenti più povere e nemmeno quella rappresentativa della condizione economica e sociale media del proprio Paese. Queste ultime sono persone che, pur desiderandolo, non sono in grado di dare corso al viaggio. Infatti, già oggi, il 40% di chi vive in uno Stato povero sarebbe disponibile, avendone i mezzi, ad abbandonarlo: si tratta di molte centinaia di milioni di esseri umani. Contrariamente a quanto molti pensano, un miglioramento delle condizioni economiche dei Paesi poveri del Sud del mondo (inevitabilmente non tale da colmare il divario con i Paesi ricchi) non riduce l'aspirazione a emigrare, ma anzi mette in condizioni di espatriare un maggior numero di persone fornendo loro i mezzi. Per i migranti, il costo economico e umano del trasferimento è elevato, e l'impresa sovente si presenta più difficoltosa e irta di pericoli di quanto avessero previsto; inoltre, sovente, l'impatto con il Paese di approdo risulta negativo: si attendevano infatti condizioni di vita e possibilità di inserimento molto diverse e migliori di quanto incontrano nella realtà. Tuttavia un eventuale rientro in patria viene sempre avvertito come una sconfitta.
Secondo: i Paesi ospitanti.
L'impatto dei migranti su tali Stati e sulla loro popolazione è oggetto di valutazioni differenti. L'establisment lo giudica in genere positivo, ma esclusivamente in base agli effetti economici (influenza sul PIL e sui contributi pensionistici, svolgimento di lavori non graditi agli autoctoni, ecc.), mentre tende ad ignorarne gli effetti sociali, ai quali invece è molto sensibile la maggioranza dei cittadini: di qui il giudizio contrastante tra élite e ceti popolari.
Ai livelli attuali di ingressi, la concorrenza occupazionale con gli autoctoni non è ancora un vero problema: essa riguarda i soli lavori a basso contenuto professionale (in agricoltura, in edilizia, e nei servizi alle persone) dai quali, per le basse retribuzioni accettate dagli immigrati, i lavoratori del posto si trovano ad essere esclusi anche nei casi in cui fossero disponibili a svolgerli. In alcuni Paesi (ad esempio la Germania), l'arrivo di mano d'opera qualificata ha contribuito alla crescita dell'economia e quindi migliorato la condizione retributiva e occupazionale dei lavoratori, compresi quelli autoctoni. Tuttavia, sul piano generale, ulteriori più consistenti arrivi, con l'aumento dell'offerta lavorativa, finirebbero per incidere negativamente sul livello delle retribuzioni, in primo luogo degli immigrati già presenti, e secondariamente anche dei lavoratori del posto. In fondo, questo è stato l'obiettivo primo dell'apertura delle porte all'immigrazione: ricostituire l’“esercito industriale di riserva” di marxiana memoria.
Già oggi, invece, si rende evidente la competizione fra immigrati e ceti poveri autoctoni nell’accesso ai beni pubblici e ai servizi sociali (case popolari, asili nido, lavori socialmente utili, sussidi ecc.). Un marcato incremento degli arrivi metterebbe in crisi l'intera attività pubblica in tale ambito per la necessità di ripartire fra un aumentato numero di persone i già insufficienti fondi pubblici destinati al welfare e in particolare al sostegno dei più bisognosi.
Collier affronta poi la ricaduta dell'immigrazione sull’identità nazionale, un aspetto che i fautori della mondializzazione e del multiculturalismo rifiutano di prendere in considerazione, ritenendolo politicamente scorretto. Per Collier, l'identità nazionale (che non è fondata solo su aspetti giuridici) è indispensabile per tenere insieme un Paese, per mantenere la solidarietà, la reciproca fiducia e la propensione alla redistribuzione della ricchezza mediante imposte condivise; in sintesi, per salvaguardare il capitale sociale. Senza una integrazione dei nuovi arrivati, la ricaduta sarebbe pesantemente negativa, mentre con l’integrazione la si può salvaguardare.
In materia, fa però una importante distinzione. L’assimilazione culturale degli immigrati consente di raggiungere pienamente l’obiettivo. È quanto caratterizza la politica statunitense in materia e, fino a qualche tempo fa, quella francese. Tuttavia il suo successo dipende dalla dimensione degli arrivi e dalla distanza culturale degli immigrati rispetto a quella del Paese raggiunto: se gli arrivi sono consistenti e la distanza è molta, l’assimilazione diventa lenta, difficoltosa e può fallire. Altri Paesi, come il Regno Unito, hanno scelto il multiculturalismo privilegiando la segregazione culturale dei nuovi arrivati con la formazione di isole territoriali culturalmente differenziate in cui l’immigrato conduce larga parte della sua esistenza mantenendo i suoi originali codici comportamentali. Una tale politica talora è in grado di condurre a una convivenza non conflittuale, ma non consente di realizzare gli obiettivi raggiunti dall’assimilazione e quindi salvaguardare l’identità nazionale con tutto ciò che ne consegue. Inoltre, la presenza di numerose comunità di immigrati (omogenee per provenienza) che vivono sostanzialmente separate dagli autoctoni, incentiva nuovi crescenti afflussi di migranti di analoga cultura e provenienza perché in tali comunità possono trovare punti di riferimento e sostegni che li aiutano a vivere in un Paese altrimenti sconosciuto od ostile. In ogni caso, la possibilità di successo di tale politica di integrazione risente anch’essa della quantità, della qualità e delle dinamiche degli arrivi.
Terzo: i Paesi di provenienza e quanti restano laddove molti se ne vanno.
Coloro che rimangono “ a casa” sono la componente assolutamente trascurata dal dibattito in corso, dai media e nelle prese di posizione di autorevoli personalità pur essendo quella maggiormente bisognosa di attenzione perché la più povera e in difficoltà. Penso ai circa 10.000 bambini che ogni giorno muoiono di stenti e di cui non si parla mai.
Le migrazioni hanno effetti contrastanti su queste popolazioni. Due sono i principali effetti negativi, in particolare per i Paesi piccoli e molto poveri. Le partenze dei soggetti più dinamici e in genere più istruiti, e con maggiori mezzi economici della media della popolazione, provocano una ricaduta negativa sulle prospettive di sviluppo dei Paesi in questione. Inoltre, tali partenze offrono ai molti regimi dispotici e corrotti una valvola di sicurezza: se ne vanno quanti potrebbero costituire un’alternativa al loro potere, mentre coloro che restano sono i più acquiescenti. Di contro, le rimesse degli espatriati oggi rappresentano per i Paesi di provenienza una voce molto importante, un contributo economico più alto dei vari “aiuti” internazionali e talora pari a quello degli investimenti esteri. Al momento, i benefici apportati dalle rimesse superano o eguagliano gli effetti negativi sopra segnalati, ma un’ulteriore accelerazione dei fenomeni migratori tende a capovolgere il rapporto tra benefici e svantaggi. Infatti osserva Collier, già i ricongiungimenti familiari riducono marcatamente le rimesse e maggiormente ciò si verifica allorché, con l’incremento delle partenze, sono intere comunità a lasciare il Paese di origine.
Sempre molto positivi sono invece i permessi di soggiorno temporanei per lavoro o studio. Quando il soggetto interessato rientra in patria porta con sé competenze ed esperienze che possono contribuire significativamente allo sviluppo del proprio Paese anche nella sfera politica, essenziale per fuoriuscire dalla povertà.
Sul piano generale, si possono sinteticamente trarre le seguenti considerazioni conclusive.
Non si può valutare l’impatto del fenomeno migratorio prescindendo dalla sue dimensioni: per molti aspetti, da fenomeno positivo diventa progressivamente negativo al crescere del numero delle persone coinvolte. Si sente discutere se i numeri attualmente raggiunti siano grandi o piccoli, ma la valutazione dipende dalla capacità dei singoli Paesi ospitanti di inserire gli arrivati. Certamente grandi Paesi dalle molte risorse e a bassa densità demografica, come Stati Uniti, Canada e Australia, hanno marcate capacità di accoglienza, e la politica delle porte aperte potrebbe avere ricadute positive sulla loro economia. Invece la capacità di accoglienza dei Paesi europei, densamente popolati, è assai più limitata e l’adozione della politica delle porte aperte appare essere poco lungimirante.
È indubbio che i fenomeni migratori vadano governati. Lasciati a se stessi condurrebbero a gravissimi problemi. Come farlo?
Ci sono teorie da smentire.
“Teniamo le porte aperte e il fenomeno migratorio si riequilibrerà spontaneamente” è una formula illusoria che contraddice ogni proposito di governarlo.
“Regoliamo i flussi aprendo gli ingressi a quote di migranti regolari” è una strategia che risponde alle sole esigenze dei Paesi ospitanti che necessitano di mano d’opera a basso costo, ma non incide sui flussi complessivi. Infatti, le quote di ammissione possono riguardare, in ogni caso, solo una ridotta percentuale degli aspiranti all’espatrio; inoltre, comportano la selezione dei richiedenti il permesso di ingresso in funzione delle esigenze del Paese ospitante (in base a istruzione, competenze, vicinanza culturale, ecc.). Di conseguenza, i numerosissimi esclusi, se non impediti, continuerebbero a cercare di raggiungere le loro mete con ogni mezzo.
“Aiutiamoli a casa loro” oppure “facciamo un Piano Marshall per l'Africa” sono proposte che non consentono di ridurre gli afflussi, quanto meno nel breve e medio periodo; ma, come già detto, li incrementano fornendo alle persone i mezzi economici per il viaggio. Gli aiuti e la cooperazione hanno senso solo per aiutare quanti sono rimasti a casa, ovvero le persone veramente bisognose, mentre solo sul lungo periodo, con un significativo miglioramento della situazione economica e politica del Paese, possono ridurre il numero di quanti intendono migrare.
Il governo del fenomeno migratorio passa inevitabilmente per provvedimenti di natura politica, giuridica e amministrativa promossi dai Paesi verso i quali è volta l’immigrazione perché sono questi ad avere le chiavi in mano per regolare i flussi. Spetta infatti ai governi di tali Stati definire la propria capacità di accoglienza sulla base delle risorse materiali ed economiche disponibili. Tali governi in ogni caso sono tenuti a dare priorità alle necessità dei propri cittadini, dai quali sono eletti e nei confronti dei quali hanno responsabilità. Tuttavia è opportuno che essi tengano presenti anche le esigenze degli altri soggetti interessati: in tal senso, tutti i provvedimenti dovrebbero essere inquadrati, nel limite del possibile, in accordi internazionali che coinvolgano anche i Paesi di origine dei migranti.
Della sua articolata trattazione di tale fenomeno, propongo sinteticamente quanto l'autore afferma circa le ricadute che esso ha sui migranti stessi, sui Paesi di approdo e su quelli di partenza.
Primo: i migranti. Chi sono?
Lasciamo da parte i rifugiati e i profughi che fuggono da guerre devastanti, ai quali è doveroso dare accoglienza, talora temporanea, ma che nel complesso sono una percentuale assai ridotta di quanti si spostano da un territorio a un altro, e veniamo ai migranti propriamente detti o “migranti economici”. Sono persone che, a fronte dell'enorme divario di reddito e di consumi fra Paesi ricchi e Paesi poveri, decidono di lasciare questi ultimi sapendo che nel corso della loro vita, se restassero in patria, tale divario non sarebbe colmato o lo sarebbe in misura insoddisfacente. Sono persone dinamiche in grado di affrontare l'avventura della migrazione perché posseggono i mezzi economici per l'impresa e le conoscenze o le informazioni necessarie allo scopo.
Non sono quindi le componenti più povere e nemmeno quella rappresentativa della condizione economica e sociale media del proprio Paese. Queste ultime sono persone che, pur desiderandolo, non sono in grado di dare corso al viaggio. Infatti, già oggi, il 40% di chi vive in uno Stato povero sarebbe disponibile, avendone i mezzi, ad abbandonarlo: si tratta di molte centinaia di milioni di esseri umani. Contrariamente a quanto molti pensano, un miglioramento delle condizioni economiche dei Paesi poveri del Sud del mondo (inevitabilmente non tale da colmare il divario con i Paesi ricchi) non riduce l'aspirazione a emigrare, ma anzi mette in condizioni di espatriare un maggior numero di persone fornendo loro i mezzi. Per i migranti, il costo economico e umano del trasferimento è elevato, e l'impresa sovente si presenta più difficoltosa e irta di pericoli di quanto avessero previsto; inoltre, sovente, l'impatto con il Paese di approdo risulta negativo: si attendevano infatti condizioni di vita e possibilità di inserimento molto diverse e migliori di quanto incontrano nella realtà. Tuttavia un eventuale rientro in patria viene sempre avvertito come una sconfitta.
Secondo: i Paesi ospitanti.
L'impatto dei migranti su tali Stati e sulla loro popolazione è oggetto di valutazioni differenti. L'establisment lo giudica in genere positivo, ma esclusivamente in base agli effetti economici (influenza sul PIL e sui contributi pensionistici, svolgimento di lavori non graditi agli autoctoni, ecc.), mentre tende ad ignorarne gli effetti sociali, ai quali invece è molto sensibile la maggioranza dei cittadini: di qui il giudizio contrastante tra élite e ceti popolari.
Ai livelli attuali di ingressi, la concorrenza occupazionale con gli autoctoni non è ancora un vero problema: essa riguarda i soli lavori a basso contenuto professionale (in agricoltura, in edilizia, e nei servizi alle persone) dai quali, per le basse retribuzioni accettate dagli immigrati, i lavoratori del posto si trovano ad essere esclusi anche nei casi in cui fossero disponibili a svolgerli. In alcuni Paesi (ad esempio la Germania), l'arrivo di mano d'opera qualificata ha contribuito alla crescita dell'economia e quindi migliorato la condizione retributiva e occupazionale dei lavoratori, compresi quelli autoctoni. Tuttavia, sul piano generale, ulteriori più consistenti arrivi, con l'aumento dell'offerta lavorativa, finirebbero per incidere negativamente sul livello delle retribuzioni, in primo luogo degli immigrati già presenti, e secondariamente anche dei lavoratori del posto. In fondo, questo è stato l'obiettivo primo dell'apertura delle porte all'immigrazione: ricostituire l’“esercito industriale di riserva” di marxiana memoria.
Già oggi, invece, si rende evidente la competizione fra immigrati e ceti poveri autoctoni nell’accesso ai beni pubblici e ai servizi sociali (case popolari, asili nido, lavori socialmente utili, sussidi ecc.). Un marcato incremento degli arrivi metterebbe in crisi l'intera attività pubblica in tale ambito per la necessità di ripartire fra un aumentato numero di persone i già insufficienti fondi pubblici destinati al welfare e in particolare al sostegno dei più bisognosi.
Collier affronta poi la ricaduta dell'immigrazione sull’identità nazionale, un aspetto che i fautori della mondializzazione e del multiculturalismo rifiutano di prendere in considerazione, ritenendolo politicamente scorretto. Per Collier, l'identità nazionale (che non è fondata solo su aspetti giuridici) è indispensabile per tenere insieme un Paese, per mantenere la solidarietà, la reciproca fiducia e la propensione alla redistribuzione della ricchezza mediante imposte condivise; in sintesi, per salvaguardare il capitale sociale. Senza una integrazione dei nuovi arrivati, la ricaduta sarebbe pesantemente negativa, mentre con l’integrazione la si può salvaguardare.
In materia, fa però una importante distinzione. L’assimilazione culturale degli immigrati consente di raggiungere pienamente l’obiettivo. È quanto caratterizza la politica statunitense in materia e, fino a qualche tempo fa, quella francese. Tuttavia il suo successo dipende dalla dimensione degli arrivi e dalla distanza culturale degli immigrati rispetto a quella del Paese raggiunto: se gli arrivi sono consistenti e la distanza è molta, l’assimilazione diventa lenta, difficoltosa e può fallire. Altri Paesi, come il Regno Unito, hanno scelto il multiculturalismo privilegiando la segregazione culturale dei nuovi arrivati con la formazione di isole territoriali culturalmente differenziate in cui l’immigrato conduce larga parte della sua esistenza mantenendo i suoi originali codici comportamentali. Una tale politica talora è in grado di condurre a una convivenza non conflittuale, ma non consente di realizzare gli obiettivi raggiunti dall’assimilazione e quindi salvaguardare l’identità nazionale con tutto ciò che ne consegue. Inoltre, la presenza di numerose comunità di immigrati (omogenee per provenienza) che vivono sostanzialmente separate dagli autoctoni, incentiva nuovi crescenti afflussi di migranti di analoga cultura e provenienza perché in tali comunità possono trovare punti di riferimento e sostegni che li aiutano a vivere in un Paese altrimenti sconosciuto od ostile. In ogni caso, la possibilità di successo di tale politica di integrazione risente anch’essa della quantità, della qualità e delle dinamiche degli arrivi.
Terzo: i Paesi di provenienza e quanti restano laddove molti se ne vanno.
Coloro che rimangono “ a casa” sono la componente assolutamente trascurata dal dibattito in corso, dai media e nelle prese di posizione di autorevoli personalità pur essendo quella maggiormente bisognosa di attenzione perché la più povera e in difficoltà. Penso ai circa 10.000 bambini che ogni giorno muoiono di stenti e di cui non si parla mai.
Le migrazioni hanno effetti contrastanti su queste popolazioni. Due sono i principali effetti negativi, in particolare per i Paesi piccoli e molto poveri. Le partenze dei soggetti più dinamici e in genere più istruiti, e con maggiori mezzi economici della media della popolazione, provocano una ricaduta negativa sulle prospettive di sviluppo dei Paesi in questione. Inoltre, tali partenze offrono ai molti regimi dispotici e corrotti una valvola di sicurezza: se ne vanno quanti potrebbero costituire un’alternativa al loro potere, mentre coloro che restano sono i più acquiescenti. Di contro, le rimesse degli espatriati oggi rappresentano per i Paesi di provenienza una voce molto importante, un contributo economico più alto dei vari “aiuti” internazionali e talora pari a quello degli investimenti esteri. Al momento, i benefici apportati dalle rimesse superano o eguagliano gli effetti negativi sopra segnalati, ma un’ulteriore accelerazione dei fenomeni migratori tende a capovolgere il rapporto tra benefici e svantaggi. Infatti osserva Collier, già i ricongiungimenti familiari riducono marcatamente le rimesse e maggiormente ciò si verifica allorché, con l’incremento delle partenze, sono intere comunità a lasciare il Paese di origine.
Sempre molto positivi sono invece i permessi di soggiorno temporanei per lavoro o studio. Quando il soggetto interessato rientra in patria porta con sé competenze ed esperienze che possono contribuire significativamente allo sviluppo del proprio Paese anche nella sfera politica, essenziale per fuoriuscire dalla povertà.
Sul piano generale, si possono sinteticamente trarre le seguenti considerazioni conclusive.
Non si può valutare l’impatto del fenomeno migratorio prescindendo dalla sue dimensioni: per molti aspetti, da fenomeno positivo diventa progressivamente negativo al crescere del numero delle persone coinvolte. Si sente discutere se i numeri attualmente raggiunti siano grandi o piccoli, ma la valutazione dipende dalla capacità dei singoli Paesi ospitanti di inserire gli arrivati. Certamente grandi Paesi dalle molte risorse e a bassa densità demografica, come Stati Uniti, Canada e Australia, hanno marcate capacità di accoglienza, e la politica delle porte aperte potrebbe avere ricadute positive sulla loro economia. Invece la capacità di accoglienza dei Paesi europei, densamente popolati, è assai più limitata e l’adozione della politica delle porte aperte appare essere poco lungimirante.
È indubbio che i fenomeni migratori vadano governati. Lasciati a se stessi condurrebbero a gravissimi problemi. Come farlo?
Ci sono teorie da smentire.
“Teniamo le porte aperte e il fenomeno migratorio si riequilibrerà spontaneamente” è una formula illusoria che contraddice ogni proposito di governarlo.
“Regoliamo i flussi aprendo gli ingressi a quote di migranti regolari” è una strategia che risponde alle sole esigenze dei Paesi ospitanti che necessitano di mano d’opera a basso costo, ma non incide sui flussi complessivi. Infatti, le quote di ammissione possono riguardare, in ogni caso, solo una ridotta percentuale degli aspiranti all’espatrio; inoltre, comportano la selezione dei richiedenti il permesso di ingresso in funzione delle esigenze del Paese ospitante (in base a istruzione, competenze, vicinanza culturale, ecc.). Di conseguenza, i numerosissimi esclusi, se non impediti, continuerebbero a cercare di raggiungere le loro mete con ogni mezzo.
“Aiutiamoli a casa loro” oppure “facciamo un Piano Marshall per l'Africa” sono proposte che non consentono di ridurre gli afflussi, quanto meno nel breve e medio periodo; ma, come già detto, li incrementano fornendo alle persone i mezzi economici per il viaggio. Gli aiuti e la cooperazione hanno senso solo per aiutare quanti sono rimasti a casa, ovvero le persone veramente bisognose, mentre solo sul lungo periodo, con un significativo miglioramento della situazione economica e politica del Paese, possono ridurre il numero di quanti intendono migrare.
Il governo del fenomeno migratorio passa inevitabilmente per provvedimenti di natura politica, giuridica e amministrativa promossi dai Paesi verso i quali è volta l’immigrazione perché sono questi ad avere le chiavi in mano per regolare i flussi. Spetta infatti ai governi di tali Stati definire la propria capacità di accoglienza sulla base delle risorse materiali ed economiche disponibili. Tali governi in ogni caso sono tenuti a dare priorità alle necessità dei propri cittadini, dai quali sono eletti e nei confronti dei quali hanno responsabilità. Tuttavia è opportuno che essi tengano presenti anche le esigenze degli altri soggetti interessati: in tal senso, tutti i provvedimenti dovrebbero essere inquadrati, nel limite del possibile, in accordi internazionali che coinvolgano anche i Paesi di origine dei migranti.
Una analisi che mi solleva da qualche senso di colpa per non essere “buonista”. Salvo i fuggitivi da guerre sanguinose, gli altri debbono essere respinti con determinazione per rallentare il fenomeno che porterà al disfacimento della nostra identità italiana, cristiana ed europea senza vantaggi per coloro che, loro, malgrado, sono costretti a restare nei loro paesi.
Grazie per la magnifica lezione, per la chiarezza e l’onestà intellettuale. Vorrei che la Cosa o Rete bianca nascente fosse simile a questo sito un luogo in cui esprimere liberamente e spregiudicatamente il proprio pensiero sui temi sensibili (come quello delle migrazioni).
Resto perplesso sulla analisi perché non vedo aspetto da affrontare, per quale motivo una persona deve lasciare senza lottare? Non parlo solo dei paesi in guerra ma anche di quelli con cattiva gestione per usare un eufemismo, inoltre si trascura la responsabilità degli immigrati di questa realtà del loro paese, è poi e non per fare polemica gratuita, se siamo tutti responsabili, ognuno a seconda dal proprio ruolo del divenire della propria società, che facciamo? Se non ci piace più partiamo, portando anche il rischio di quell’atteggiamento? E lo dico da straniero.