Cento anni fa, il 9 settembre 2018, nasceva Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica tra il 1992 e il 1999 e deputato in Parlamento sin dai tempi dell’Assemblea Costituente. Una lunga carriera politica nella DC, più volte ministro sino all’ascesa al vertice dello Stato, eletto proprio nell’anno in cui scoppiava Tangentopoli. Una presenza nella vita pubblica caratterizzata da una curiosa traiettoria politica, iniziata sotto le insegne della destra democristiana e conclusa, oltre sessanta anni dopo, tra gli applausi della sinistra, dopo che come Capo dello Stato si trovò ad essere il contraltare per eccellenza di Silvio Berlusconi, nel momento in cui questi approdò a Palazzo Chigi.
Eppure prima di giungere al Quirinale e assurgere al rango di grande protagonista della politica italiana, Scalfaro aveva vissuto, per lunghi decenni, alquanto in disparte. Lontano cioè dai giochi di potere che avevano come primi attori Amintore Fanfani e Aldo Moro, i due “cavalli di razza” della DC, o l’immarcescibile Giulio Andreotti. D’altronde diversa da questi era anche la sua storia personale, provenendo non dalle leve giovanili dello scudo crociato o dai circoli intellettuali del cattolicesimo sociale, ma dalla magistratura, nei cui ranghi era entrato nei primi anni Quaranta.
Iscritto sin da ragazzo all'Azione Cattolica (il cui distintivo porterà al bavero della giacca per tutta la vita), nella DC si schierò su posizioni conservatrici, aderendo alla corrente di Mario Scelba, di cui fu sottosegretario quanto questi era ministro degli Interni. Netta contrarietà, dunque, a qualsiasi apertura ai socialisti, con il centro-sinistra, ed ancor di più ai comunisti, con il compromesso storico. Nel partito si ritrovò quasi sempre in minoranza, ruolo che assunse senza scomporsi, e diventando con gli anni un padre nobile, considerato una sorta di Catone, specie quando, sul finire degli anni Ottanta, di fronte all’evidente squaglio del sistema politico alzò il dito contro la corruzione dilagante e l’imperante malaffare.
Dopo le elezioni del 1992, che segnarono un po’ la fine della cosiddetta Prima Repubblica, approdò alla presidenza della Camera e poche settimane dopo al Quirinale. Scalfaro divenne così, più che mai rispetto al passato, uno degli indiscussi protagonista della scena politica. Memorabile resta il suo intervento televisivo, punteggiato da una serie di indignati “non ci sto!”, per denunciare l'attacco che, attraverso la sua persona, veniva portato alle istituzioni democratiche.
Proprio il rispetto della Costituzione, la difesa delle prerogative del Parlamento, la garanzia offerta dai pesi e dai contrappesi istituzionali furono la bussola che orientò sia la sua presidenza, sia gli anni successivi all'uscita dal Quirinale. Nel 2006 a 88 anni Scalfaro fu in prima linea alla guida dei Comitati che si battevano contro la riforma costituzionale votata dalla Casa delle Libertà nella legislatura precedente. Gli italiani respinsero queste proposte di modifica, che fra l’altro attribuivano maggiori poteri al premier, così come dieci anni dopo avrebbero bocciato la riforma voluta da Matteo Renzi.
Quanto mai di attualità risulta il monito di Scalfaro sulla necessità di rispettare gli equilibri costituzionali. Troppo spesso vediamo infatti emergere tentazioni plebiscitarie, volte a far credere che chi vince le elezioni diventa solo per questo il padrone del Paese. Non pochi esponenti dell’attuale maggioranza, alcuni dei quali ricoprono addirittura importanti incarichi di governo, mostrano ad esempio di non comprendere il senso dell'indipendenza della magistratura. Si pretende di far credere che l'esito del suffragio universale sia la sola ed unica fonte di legittimazione politica, in barba a quella separazione dei poteri che è invece principio fondante di qualsiasi vera democrazia.
Eppure prima di giungere al Quirinale e assurgere al rango di grande protagonista della politica italiana, Scalfaro aveva vissuto, per lunghi decenni, alquanto in disparte. Lontano cioè dai giochi di potere che avevano come primi attori Amintore Fanfani e Aldo Moro, i due “cavalli di razza” della DC, o l’immarcescibile Giulio Andreotti. D’altronde diversa da questi era anche la sua storia personale, provenendo non dalle leve giovanili dello scudo crociato o dai circoli intellettuali del cattolicesimo sociale, ma dalla magistratura, nei cui ranghi era entrato nei primi anni Quaranta.
Iscritto sin da ragazzo all'Azione Cattolica (il cui distintivo porterà al bavero della giacca per tutta la vita), nella DC si schierò su posizioni conservatrici, aderendo alla corrente di Mario Scelba, di cui fu sottosegretario quanto questi era ministro degli Interni. Netta contrarietà, dunque, a qualsiasi apertura ai socialisti, con il centro-sinistra, ed ancor di più ai comunisti, con il compromesso storico. Nel partito si ritrovò quasi sempre in minoranza, ruolo che assunse senza scomporsi, e diventando con gli anni un padre nobile, considerato una sorta di Catone, specie quando, sul finire degli anni Ottanta, di fronte all’evidente squaglio del sistema politico alzò il dito contro la corruzione dilagante e l’imperante malaffare.
Dopo le elezioni del 1992, che segnarono un po’ la fine della cosiddetta Prima Repubblica, approdò alla presidenza della Camera e poche settimane dopo al Quirinale. Scalfaro divenne così, più che mai rispetto al passato, uno degli indiscussi protagonista della scena politica. Memorabile resta il suo intervento televisivo, punteggiato da una serie di indignati “non ci sto!”, per denunciare l'attacco che, attraverso la sua persona, veniva portato alle istituzioni democratiche.
Proprio il rispetto della Costituzione, la difesa delle prerogative del Parlamento, la garanzia offerta dai pesi e dai contrappesi istituzionali furono la bussola che orientò sia la sua presidenza, sia gli anni successivi all'uscita dal Quirinale. Nel 2006 a 88 anni Scalfaro fu in prima linea alla guida dei Comitati che si battevano contro la riforma costituzionale votata dalla Casa delle Libertà nella legislatura precedente. Gli italiani respinsero queste proposte di modifica, che fra l’altro attribuivano maggiori poteri al premier, così come dieci anni dopo avrebbero bocciato la riforma voluta da Matteo Renzi.
Quanto mai di attualità risulta il monito di Scalfaro sulla necessità di rispettare gli equilibri costituzionali. Troppo spesso vediamo infatti emergere tentazioni plebiscitarie, volte a far credere che chi vince le elezioni diventa solo per questo il padrone del Paese. Non pochi esponenti dell’attuale maggioranza, alcuni dei quali ricoprono addirittura importanti incarichi di governo, mostrano ad esempio di non comprendere il senso dell'indipendenza della magistratura. Si pretende di far credere che l'esito del suffragio universale sia la sola ed unica fonte di legittimazione politica, in barba a quella separazione dei poteri che è invece principio fondante di qualsiasi vera democrazia.
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