Serve un nuovo Ulivo?



Giorgio Merlo    5 Settembre 2018       2

Si continua a discutere sulla difficoltà dell'ex centrosinistra nel ricostruire un’alternativa politica, culturale e programmatica alle forze che hanno vinto il 4 marzo e che legittimamente governano il nostro Paese. Una difficoltà che affonda le sue radici in una serie interminabile di motivi politici, culturali, comportamentali e di stile. Ma la principale motivazione della crisi strutturale e quasi ontologica dell'ex centrosinistra resta quella di avere rotto i ponti con il retroterra naturale di una normale forza politica di sinistra o di centrosinistra. Ovvero i ceti popolari, i bisogni e le istanze che provengono da quei mondi vitali e sociali e, soprattutto, aver rincorso – soprattutto nella lunga stagione renziana – politiche e metodi che appartengono storicamente ad altre culture e ad altre visioni di società. E quando il tuo retroterra naturale, culturale e sociale percepisce il mutamento di linea e il cambiamento di prospettiva è persin scontato che il tutto si traduca, poi, in una drastica riduzione del consenso elettorale e politico.

Ora, preso atto che la "vocazione maggioritaria" del Partito Democratico è una condizione che appartiene già al passato e, al contempo, certificato il tramonto del "partito plurale" dopo la lunga gestione "personale" del PdR – il partito di Renzi –, forse è giunto il momento per individuare una strategia innovativa e in profonda discontinuità con il recente passato del centrosinistra italiano. Una discontinuità che deve essere innanzitutto politica ma anche di metodo e di contenuto. E, come sempre capita nella politica come nella vita, non si tratta di inventare tutto da capo. È sufficiente rileggere il nostro recente passato per comprendere gli errori commessi e le potenziali correzioni da intraprendere e tradurre nel campo riformista e democratico del nostro Paese.

Al riguardo, l'esperienza dell'Ulivo di prodiana memoria non può essere considerata una semplice parentesi da archiviare e storicizzare definitivamente: quell’esperienza ha rappresentato una fase di grande innovazione della politica italiana, pur senza mettere radicalmente in discussione le ragioni fondanti del pensiero riformista e democratico da cui attingeva la sua linfa vitale

Se vogliamo recuperare quell’esperienza, occorre avere l'intelligenza e la capacità di saperla sintonizzare con le istanze contemporanee. Almeno su tre fronti.

Innanzitutto va ricostruita una "coalizione plurale". Se è vero che "la politica in Italia è sempre stata politica delle alleanze" come diceva Mino Martinazzoli, è altrettanto vero che occorre piantarla definitivamente con l'autosufficienza politica ed elettorale del partito di renziana memoria, con la cosiddetta "vocazione maggioritaria" e la riduzione degli alleati a semplici comparse. Ossia, ci vuole una coalizione che rispetti sino in fondo il pluralismo.

In seconda istanza, in una coalizione plurale devono trovare spazio e cittadinanza le singole identità politico e culturali. Il tramonto del partito plurale non può che far rinascere – soprattutto in un sistema proporzionale – quelle culture politiche che sono state decisive nel passato ma che anche in una stagione post ideologica come quella contemporanea possono avere un ruolo determinante per ridare qualità alla democrazia e spessore a un programma di governo.

In terzo luogo servono leader unitivi e aggreganti. Basta con i "capi" e la relativa corte squallida di gregari, di clienti e portaborse che hanno ridotto i partiti a strumenti inguardabili e la politica a un gioco di potere spietato e disumano. Leader che, come ha insegnato l'Ulivo nella sua miglior stagione, sapevano costruire una sintesi efficace e coerente delle varie culture politiche che si riconoscevano in quella alleanza. E questo anche per la semplice ragione che l'identificazione tra il capo e il suo partito continua ad avere effetti letali non solo per la carriera personale del capo – cosa peraltro di scarso interesse – quanto per la credibilità e l'efficacia del partito, vista la totale identificazione con il suo proprietario. Di fatto o di diritto, poco cambia nella sostanza.

Ecco perché, forse, è giunto il momento di ripartire da un Ulivo 2.0, come si suol dire con un linguaggio contemporaneo. Un progetto che sappia recuperare l'originalità di quella esperienza per ridare slancio e vigore a una coalizione, quella dell'ex centrosinistra, che oggi è ostaggio della guerra interna tra le varie bande del PD. Un'area che oggi è senza guida politica, culturale, programmatica e forse anche etica.

Un nuovo Ulivo che, con una prassi aderente alla società contemporanea, sappia ricostruire un progetto riformista e democratico recuperando quella fiducia e quella speranza di un "popolo" che continua ad esistere, malgrado tutto. Ma che è sfiduciato ed esausto. Da troppo tempo e dalle ripetute e continue sconfitte elettorali.


2 Commenti

  1. Bello e interessante l’articolo, però purtroppo oggi come oggi la politica non interessa più a nessuno. Mi ricordo di interminabili discussioni fatte all’oratorio e al partito, anche, che se tutti avessimo le stesse idee, certamente con sfumature diverse. Oggi gli elettori votano non per una Politica e per dei Politici con la P maiuscola, ma per chi promette, di tutto ed anche il contrario di tutto, esempio la riduzione delle imposte, la “pace fiscale”, parola nuova, per indicare un condono (così chi ha sempre pagato le imposte fa la fine del merlotto), reddito di cittadinanza e caos sui vaccini, risoluzione traumatica per il problema dei migranti. Ma la gente ci crede e li vota: vi ricordate del dottor Dulcamara nell’opera “l’Elisir d’amore”, tutti avevano fiducia in lui, oggi siamo sugli stessi livelli.

  2. Ritengo poco produttivo soffermarsi sulle cause che hanno prodotto nel PD la perdita dei consensi delle classi popolari senza collocare il fenomeno nel contesto più ampio della crisi di tutte le sinistre in Europa e nel mondo occidentale. La rottura con i ceti popolari viene da lontano (non certo dal solo Renzi). A partire dal crollo del comunismo, in tutta la sinistra c’è stata stata l’affannosa ricerca di nuove identità e la corsa ad indossare l’abito liberal che da sempre contraddistingue i “progressisti” nordamericani. Con ciò sono stati messi da parte gli ideali egualitari e solidaristici che contrassegnavano le sinistre europee, sostituiti da nuovi contenuti, a partire dal culto del mercato e delle liberalizzazioni e dai “diritti civili”. In rapporto a questi ultimi, ricordo quanto ha scritto Zygmunt Bauman ad inizio Duemila. La società odierna ha abbandonato l’aspirazione, diffusa ancora alcuni decenni fa, di costruire un mondo più giusto. In sua vece, viene adottato il riferimento ai diritti civili: questi debbono essere estesi e sviluppati, nella ricerca di nuove, soddisfacenti forme di coabitazione in una società sempre più differenziata. A tale fine, si registrano vecchie istanze inappagate, se ne articolano di nuove e si cerca di conquistarne il riconoscimento. I diritti civili sono destinati ad essere goduti individualmente, ma, per garantirli, la lotta deve essere condotta collettivamente. Scendono così in campo comunità combattive. La logica delle guerre di riconoscimento che esse conducono le istiga a radicalizzare le differenze, e rischia di sfociare nel fondamentalismo e nel settarismo. Aggiungo che gli obiettivi rivendicati come diritti, di cui, da parte progressista, si intende fare modelli normativi, sono riconducibili ad un estremo individualismo e ad un edonismo funzionali alle esigenze di un ultraliberismo volto a destrutturare la società. Questo fatto è ben compreso dai ceti popolari (classe operaia inclusa) i quali diffidano di tali novità, essendo dotati ancora di realismo, a differenza della più parte della borghesia liberal.
    Una strategia innovativa e in discontinuità con il passato (non solo recente) presuppone la rottura con la visione del mondo neoliberale.

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