Ci ritroviamo, a distanza di qualche decennio, in un mondo profondamente mutato, ma non come lo avevamo sognato.
L’Europa Unita, al di là del non essersi realizzata (con la Brexit e con una visione solo mercantile è iniziato il disfacimento), arranca faticosamente e agli occhi dei cittadini rappresenta la responsabile di tanti mali. Tanti (incoscienti!) vorrebbero porre fine all’esperienza.
Lo sviluppo dei popoli del Terzo e Quarto mondo (qualcuno ricorda ancora la kennediana “Alleanza per il Progresso”?) si è realizzato solo limitatamente, e in alcuni casi la situazione è peggiorata; come non si è dato corso, salvo poche eccezioni, alla richiesta di san Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000 di remissione dei debiti. Le guerre e gli armamenti, anziché essere banditi per sempre, tornano a dettare legge; non solo a livello di Stati e Alleanze Internazionali, ma anche se non soprattutto a livello personale e di gruppi. Le questioni “ecologiche” individuate già allora come prioritarie addirittura da un politico a fine carriera e non certo progressista (nel senso che assegniamo a questo temine) come Amintore Fanfani, sono sotto gli occhi di tutti; ma nessuno di noi è disposto a compiere le scelte “rivoluzionarie” necessarie per invertire la tendenza. E gli allarmi degli ambientalisti continuano ad essere considerati qualcosa di ideologico o troppo radicale per essere raccolti dal cittadino medio e dai politici oggi sul mercato. Anche l’appello Laudato sì di papa Francesco è stato riposto in polverose biblioteca anche da parte di tanti credenti e comunità ecclesiali.
Non parliamo poi di cosa succede nel mondo del lavoro; del ruolo sempre più invadente ma necessario della tecnologia e dell’elettronica, della minore necessità di personale, della trasformazione dell’organizzazione e degli orari lavorativi, delle tutele che si riducono e dei diritti sempre più scarsi, del dumping sociale, delle esternalizzazioni, delle rilocalizzazioni, delle “rivoluzioni” che hanno investito il lavoro pubblico e che anche in questo settore producono contrazione di dipendenti.
Questo lungo elenco ci dice che è saltato il rapporto di alleanza tra mondo economico (capitalismo), e istituzioni (democrazia), il quale aveva permesso dal dopoguerra di crescere in tanti settori, in benessere, in istruzione e servizi sociali, e di sperare nella costruzione di un mondo più civile, pacifico, e fraterno. Al contrario, una serie di elezioni che hanno messo in luce nuovi soggetti politici e l’affermarsi di personalità politiche e di potere, in molte parti del mondo, con conseguente modifica di Costituzioni, alleanze, rapporti internazionali, hanno ridato fiato a sovranismi, nazionalismi e chiusura di frontiere, stanno suscitando interrogativi e dubbi. Anche l’Italia ne è soggetta; e ritorna la necessità di ragionare sulla qualità della democrazia.
Commenta, riguardo alle ultime vicende italiche, Riccardo Saccenti, giovane esponente del MEIC: “Molti commentatori autorevoli hanno spiegato che quello che era in questione era, essenzialmente, la tenuta del nostro sistema istituzionale e del delicato equilibrio di poteri che per settant’anni ha retto la vita dello Stato, messo a rischio dallo scontro fra la rivendicazione delle prerogative qualificanti le istituzioni più alte della Repubblica e una maggioranza parlamentare che, investita dal consenso elettorale, pretende di essere interprete esclusiva della sovranità. Altri hanno invece rimarcato la questione della collocazione europea e internazionale dell’Italia e del suo ruolo nelle prossime evoluzioni del progetto politico europeo, oltre che del peso e dell’importanza del nostro Paese dentro il sistema economico globale. Questi tratti di una crisi politico-istituzionale sono l’esito tangibile di processi ben più profondi e di cui misuriamo oggi la portata storica: movimenti che hanno cambiato la geografia della nostra realtà così che il trauma istituzionale di oggi diventa il segno di un crinale storico in cui l’Italia vive una profonda crisi della propria vita democratica. Là dove il riferimento alla “democrazia” non è riducibile al solo momento istituzionale e alle sue specifiche procedure, ma ad uno stile nel quale l’uguaglianza fra gli individui si somma al riconoscimento doveroso delle qualità di ciascuno, da preservare e comporre dentro un orizzonte comune. L’accezione istituzionale e quella sociale della democrazia sono difficilmente scindibili a meno di non svuotare le forme del suo spessore politico. Eppure è questo quello di cui oggi viviamo gli effetti, perché il vero nodo del contendere, attorno a cui si coagulano argomentazioni radicali, è esattamente il senso e il valore del termine “democrazia”. Da un lato vi è una Carta costituzionale che, memore dell’esperienza drammatica del “secolo breve”, esprime la democrazia come esercizio di una sovranità da parte del popolo da compiere “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, anteponendo cioè diritti e doveri, e dunque la persona, a un esercizio dell’autorità privo di limiti. Dall’altro vi è un’idea di democrazia intesa come attribuzione del potere a una classe dirigente, la quale assume su di sé un ruolo di interprete delle istanze dei cittadini e che non ammette limiti, non tanto all’attuazione di un programma di governo o di iniziative legislative quanto nell’esercizio del potere tout court”.
Questo è il nodo che non possiamo evitare o fingere di non vedere. Continuo a ripetere che la Democrazia non è solo consenso, voti e numero di parlamentari che formano le maggioranze: la democrazia deve tenere conto delle espressioni della società civile, del coinvolgimento continuo/partecipazione dei cittadini, dei valori immodificabili della Carta Costituzionale, del processo (nel nostro caso) di costruzione dell’Europa Unita, della dignità trascendente dalla persona, del primato della coscienza.
Per questo è necessario tenere gli occhi ben aperti, vigilare, e bloccare tentativi di deviare rispetto ai principi, da parte di qualunque maggioranza numerica o culturale. Alcune disposizioni, preannunciate, porranno la questione delle leggi giuste, di norme contrarie alla propria coscienza. E noi sappiamo che “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”. Perciò forse potremmo essere chiamati a contravvenire a leggi ingiuste: già oggi chi opera in mare o fa parte di organismi di controllo degli sbarchi si trova di fronte a questa angosciante alternativa!
Mi piace citare anche, a supporto del mio ragionamento, un commento di Franco Maletti qui su “Rinascita popolare”: “Aggiungerei (cosa di non poco conto) la responsabilità della degenerazione verso una democrazia sguaiata, dove la minoranza viene considerata “vecchiume” da spazzare via e la maggioranza, in quanto tale, rivendica il diritto di fare ciò che vuole: si tratta di una subdemocrazia più vicina a quella dei vari Putin, Erdogan, Orban e via di questo passo. Non si può negare che queste ultime non siano democrazie, in quanto i loro protagonisti vincono con ‘libere elezioni’: ma quale differenza rispetto alle democrazie più progredite che noi abbiamo sempre conosciuto! Tutto questo ha dato il via libera, a livello nostrano, a quei populismi che rendono i loro condottieri fieri della loro ignoranza e capaci di solleticare sentimenti, paure e rancori inconfessabili portandoli alla ribalta come ‘emergenze’ nazionali. Si è arrivati al capolavoro di convincere i più poveri che la colpa della loro condizione è dovuta a quelli che stanno peggio di loro. [..] Oggi dobbiamo ripartire da capo, dobbiamo innanzitutto ricostruire quella Democrazia Civile che sembra averci abbandonato per sempre”.
Un bel tema da affrontare. Quello di rigenerare una democrazia malata, per tanti motivi e non solo italici; malata infatti anche fuori dall’Italia, se si pensa che JP Morgan (raccogliendo consensi da altre Agenzie internazionali), aveva solo poco tempo fa rilevato che la crisi nei Paesi del sud Europa non si doveva solo a fattori economici “ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei Paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea. [...] I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”.
L’Europa Unita, al di là del non essersi realizzata (con la Brexit e con una visione solo mercantile è iniziato il disfacimento), arranca faticosamente e agli occhi dei cittadini rappresenta la responsabile di tanti mali. Tanti (incoscienti!) vorrebbero porre fine all’esperienza.
Lo sviluppo dei popoli del Terzo e Quarto mondo (qualcuno ricorda ancora la kennediana “Alleanza per il Progresso”?) si è realizzato solo limitatamente, e in alcuni casi la situazione è peggiorata; come non si è dato corso, salvo poche eccezioni, alla richiesta di san Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000 di remissione dei debiti. Le guerre e gli armamenti, anziché essere banditi per sempre, tornano a dettare legge; non solo a livello di Stati e Alleanze Internazionali, ma anche se non soprattutto a livello personale e di gruppi. Le questioni “ecologiche” individuate già allora come prioritarie addirittura da un politico a fine carriera e non certo progressista (nel senso che assegniamo a questo temine) come Amintore Fanfani, sono sotto gli occhi di tutti; ma nessuno di noi è disposto a compiere le scelte “rivoluzionarie” necessarie per invertire la tendenza. E gli allarmi degli ambientalisti continuano ad essere considerati qualcosa di ideologico o troppo radicale per essere raccolti dal cittadino medio e dai politici oggi sul mercato. Anche l’appello Laudato sì di papa Francesco è stato riposto in polverose biblioteca anche da parte di tanti credenti e comunità ecclesiali.
Non parliamo poi di cosa succede nel mondo del lavoro; del ruolo sempre più invadente ma necessario della tecnologia e dell’elettronica, della minore necessità di personale, della trasformazione dell’organizzazione e degli orari lavorativi, delle tutele che si riducono e dei diritti sempre più scarsi, del dumping sociale, delle esternalizzazioni, delle rilocalizzazioni, delle “rivoluzioni” che hanno investito il lavoro pubblico e che anche in questo settore producono contrazione di dipendenti.
Questo lungo elenco ci dice che è saltato il rapporto di alleanza tra mondo economico (capitalismo), e istituzioni (democrazia), il quale aveva permesso dal dopoguerra di crescere in tanti settori, in benessere, in istruzione e servizi sociali, e di sperare nella costruzione di un mondo più civile, pacifico, e fraterno. Al contrario, una serie di elezioni che hanno messo in luce nuovi soggetti politici e l’affermarsi di personalità politiche e di potere, in molte parti del mondo, con conseguente modifica di Costituzioni, alleanze, rapporti internazionali, hanno ridato fiato a sovranismi, nazionalismi e chiusura di frontiere, stanno suscitando interrogativi e dubbi. Anche l’Italia ne è soggetta; e ritorna la necessità di ragionare sulla qualità della democrazia.
Commenta, riguardo alle ultime vicende italiche, Riccardo Saccenti, giovane esponente del MEIC: “Molti commentatori autorevoli hanno spiegato che quello che era in questione era, essenzialmente, la tenuta del nostro sistema istituzionale e del delicato equilibrio di poteri che per settant’anni ha retto la vita dello Stato, messo a rischio dallo scontro fra la rivendicazione delle prerogative qualificanti le istituzioni più alte della Repubblica e una maggioranza parlamentare che, investita dal consenso elettorale, pretende di essere interprete esclusiva della sovranità. Altri hanno invece rimarcato la questione della collocazione europea e internazionale dell’Italia e del suo ruolo nelle prossime evoluzioni del progetto politico europeo, oltre che del peso e dell’importanza del nostro Paese dentro il sistema economico globale. Questi tratti di una crisi politico-istituzionale sono l’esito tangibile di processi ben più profondi e di cui misuriamo oggi la portata storica: movimenti che hanno cambiato la geografia della nostra realtà così che il trauma istituzionale di oggi diventa il segno di un crinale storico in cui l’Italia vive una profonda crisi della propria vita democratica. Là dove il riferimento alla “democrazia” non è riducibile al solo momento istituzionale e alle sue specifiche procedure, ma ad uno stile nel quale l’uguaglianza fra gli individui si somma al riconoscimento doveroso delle qualità di ciascuno, da preservare e comporre dentro un orizzonte comune. L’accezione istituzionale e quella sociale della democrazia sono difficilmente scindibili a meno di non svuotare le forme del suo spessore politico. Eppure è questo quello di cui oggi viviamo gli effetti, perché il vero nodo del contendere, attorno a cui si coagulano argomentazioni radicali, è esattamente il senso e il valore del termine “democrazia”. Da un lato vi è una Carta costituzionale che, memore dell’esperienza drammatica del “secolo breve”, esprime la democrazia come esercizio di una sovranità da parte del popolo da compiere “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, anteponendo cioè diritti e doveri, e dunque la persona, a un esercizio dell’autorità privo di limiti. Dall’altro vi è un’idea di democrazia intesa come attribuzione del potere a una classe dirigente, la quale assume su di sé un ruolo di interprete delle istanze dei cittadini e che non ammette limiti, non tanto all’attuazione di un programma di governo o di iniziative legislative quanto nell’esercizio del potere tout court”.
Questo è il nodo che non possiamo evitare o fingere di non vedere. Continuo a ripetere che la Democrazia non è solo consenso, voti e numero di parlamentari che formano le maggioranze: la democrazia deve tenere conto delle espressioni della società civile, del coinvolgimento continuo/partecipazione dei cittadini, dei valori immodificabili della Carta Costituzionale, del processo (nel nostro caso) di costruzione dell’Europa Unita, della dignità trascendente dalla persona, del primato della coscienza.
Per questo è necessario tenere gli occhi ben aperti, vigilare, e bloccare tentativi di deviare rispetto ai principi, da parte di qualunque maggioranza numerica o culturale. Alcune disposizioni, preannunciate, porranno la questione delle leggi giuste, di norme contrarie alla propria coscienza. E noi sappiamo che “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”. Perciò forse potremmo essere chiamati a contravvenire a leggi ingiuste: già oggi chi opera in mare o fa parte di organismi di controllo degli sbarchi si trova di fronte a questa angosciante alternativa!
Mi piace citare anche, a supporto del mio ragionamento, un commento di Franco Maletti qui su “Rinascita popolare”: “Aggiungerei (cosa di non poco conto) la responsabilità della degenerazione verso una democrazia sguaiata, dove la minoranza viene considerata “vecchiume” da spazzare via e la maggioranza, in quanto tale, rivendica il diritto di fare ciò che vuole: si tratta di una subdemocrazia più vicina a quella dei vari Putin, Erdogan, Orban e via di questo passo. Non si può negare che queste ultime non siano democrazie, in quanto i loro protagonisti vincono con ‘libere elezioni’: ma quale differenza rispetto alle democrazie più progredite che noi abbiamo sempre conosciuto! Tutto questo ha dato il via libera, a livello nostrano, a quei populismi che rendono i loro condottieri fieri della loro ignoranza e capaci di solleticare sentimenti, paure e rancori inconfessabili portandoli alla ribalta come ‘emergenze’ nazionali. Si è arrivati al capolavoro di convincere i più poveri che la colpa della loro condizione è dovuta a quelli che stanno peggio di loro. [..] Oggi dobbiamo ripartire da capo, dobbiamo innanzitutto ricostruire quella Democrazia Civile che sembra averci abbandonato per sempre”.
Un bel tema da affrontare. Quello di rigenerare una democrazia malata, per tanti motivi e non solo italici; malata infatti anche fuori dall’Italia, se si pensa che JP Morgan (raccogliendo consensi da altre Agenzie internazionali), aveva solo poco tempo fa rilevato che la crisi nei Paesi del sud Europa non si doveva solo a fattori economici “ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei Paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea. [...] I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”.
Carlo pone due questioni cruciali: le conseguenze derivanti dalla rottura del compromesso fra capitalismo e democrazia, le quali forse sono ancora sottostimate.
La seconda, i limiti dell’investitura democratica. Un discorso giusto in linea di principio, ma che è stato usato, da una certa classe dirigente, per fini non del tutto trasparenti. Con la scusa dei vincoli esterni la democrazia è stata subordinata a decisioni fondamentali di politica economica, peraltro in contrasto con la Costituzione (la moneta prima della persona!), prese da élites e tecnocrazie a vantaggio della finanza speculativa globale e a scapito del lavoro, dell’economia reale. Un vulnus democratico, pagato a caro prezzo dai partiti che l’hanno consentito, sfiduciati dai loro elettorati.