Su Sergio Marchionne, morto pochi giorni fa all’età di 66 anni dopo qualche settimana di ricovero all’ospedale universitario di Zurigo, si è scritto molto, e non abbiamo un nostro originale contributo da aggiungere, se non notare che è stato veramente un grande manager, come i risultati economici dimostrano in modo incontrovertibile. Per capire in cosa quest’uomo fosse speciale, abbiamo scelto un articolo di Flavia Perina pubblicato sul sito www.linkiesta.it.
Nel Paese dei nati con il cucchiaio d’argento in bocca, dei manager per diritto famigliare, dei diplomati alla scuola d'elite e laureati all’università privata, dei figli di papà – insomma – che giocano a fare i General Qualsiasicosa, la biografia dell’apolide Marchionne (svizzero per il fisco, canadese per passaporto, abruzzese per carattere) meriterebbe di essere discussa per un solo motivo: perché colpisce al cuore il modello di cooptazione tra insider che domina da sempre nell’impresa italiana.
Figlio di un carabiniere. Nipote di esuli dalmati, nonno infoibato dagli slavi, zio fucilato dai nazisti come disertore. Expat in Canada non per noia ma per necessità, forse per fame, e qui incredibilmente avviato verso gli studi di Filosofia che all’età sua – inizio anni ’70 – erano la magnifica ossessione della generazione del libero pensiero. Gli omologhi italiani del signor Marchionne – Luca Montezemolo tra tutti - all’epoca correvano rally con i figli di Susy Agnelli e si facevano le ossa negli studi legali degli amici dei genitori, insomma crescevano secondo l’italian way delle famiglie reali, occupando le copertine dei rotocalchi più che le rispettive scrivanie. Ed è ovviamente a lui, non a loro, che toccherà immaginare un possibile futuro per l’aristocrazia industriale italiana quando la medesima si renderà conto di non capirci più un tubo. È il 2004. Sono passati dieci anni dalla sepoltura della Prima Repubblica. E tanto c’è voluto per metabolizzare l’idea che il “mondo di prima” non tornerà più.
Un Paese normale, all’epoca, ne avrebbe avuti una decina di Marchionne, forse anche un centinaio, era il momento di marchionnizzare l’intero Paese, nel senso di sottrarlo al familismo relazionale, ai nati con la camicia, ai nipoti con l’hobby della Parigi-Dakar, ai Gastoni Paperoni della concertazione al circolo o in tribuna d’onore
Un Paese normale, all’epoca, ne avrebbe avuti una decina di Marchionne, forse anche un centinaio, era il momento di marchionnizzare l’intero Paese, nel senso di sottrarlo al familismo relazionale, ai nati con la camicia, ai nipoti con l’hobby della Parigi-Dakar, ai Gastoni Paperoni della concertazione al circolo o in tribuna d’onore. Ci sarebbe stata la corsa a trovare questi Marchionne nelle università non-blasonate, in Italia o all’estero, ovunque crescevano talenti in grado di capire il prodotto, il mercato, le evoluzioni del capitalismo. E di sicuro ci sarebbe stato conflitto per le scelte di questi possibili Marchionne, ma magari il nostro acciaio, il nostro alluminio, i nostri scooter, i nostri computer, le nostre lavatrici, sarebbero ancora qui - erano settori relativamente più sani e remunerativi dell’auto, forse avrebbero potuto farcela – e anche i sindacati sarebbero stati obbligati ad aggiornarsi ai conflitti del mondo nuovo.
E magari qualche Marchionne, qualche outsider, qualche apolide di talento, sarebbe servito (e servirebbe ancora) anche alla politica che giocava con l'Alitalia e con l'Ilva come continua a giocarci adesso, confondendo manovre gradite agli establishment di turno per soluzioni magiche alle crisi aziendali, sempre con uno sguardo di riguardo al club degli insider e mai immaginando di poter cedere decisioni fuori dal perimetro del do-ut-des che è la regola del nostro asfittico sistema produttivo, ieri e pure ora che la rivoluzione è al potere, e debutta riciclando gli slogan sulla compagnia di bandiera – ricompriamocela! - o sull'ultimo acciaio che ci è rimasto in casa – rimettiamolo a bando! - confidando nella smemoratezza del Paese.
Ma di Marchionne ne abbiamo avuto uno solo. Ed è proprio la sua anomalia, la sua unicità, che ci mostra in controluce il provincialismo di quel che fu la nostra èlite industriale, e i limiti di tutto ciò che è venuto dopo, a cominciare dalla diffusa negazione del carattere epocale della crisi del 2008 – a destra perché i ristoranti erano comunque pieni, a sinistra perché la globalizzazione doveva essere per forza amica – per finire con la retorica pro o contro l’uomo forte: l’unico tratto del signor Marchionne che sembra essere stato percepito dal dibattito italiano, a destra per esaltarlo e a sinistra per condannarlo, ovunque senza capire che la forza in questa storia non c’entra nulla, è solo l’increspatura che lascia il sasso nello stagno.
Nel Paese dei nati con il cucchiaio d’argento in bocca, dei manager per diritto famigliare, dei diplomati alla scuola d'elite e laureati all’università privata, dei figli di papà – insomma – che giocano a fare i General Qualsiasicosa, la biografia dell’apolide Marchionne (svizzero per il fisco, canadese per passaporto, abruzzese per carattere) meriterebbe di essere discussa per un solo motivo: perché colpisce al cuore il modello di cooptazione tra insider che domina da sempre nell’impresa italiana.
Figlio di un carabiniere. Nipote di esuli dalmati, nonno infoibato dagli slavi, zio fucilato dai nazisti come disertore. Expat in Canada non per noia ma per necessità, forse per fame, e qui incredibilmente avviato verso gli studi di Filosofia che all’età sua – inizio anni ’70 – erano la magnifica ossessione della generazione del libero pensiero. Gli omologhi italiani del signor Marchionne – Luca Montezemolo tra tutti - all’epoca correvano rally con i figli di Susy Agnelli e si facevano le ossa negli studi legali degli amici dei genitori, insomma crescevano secondo l’italian way delle famiglie reali, occupando le copertine dei rotocalchi più che le rispettive scrivanie. Ed è ovviamente a lui, non a loro, che toccherà immaginare un possibile futuro per l’aristocrazia industriale italiana quando la medesima si renderà conto di non capirci più un tubo. È il 2004. Sono passati dieci anni dalla sepoltura della Prima Repubblica. E tanto c’è voluto per metabolizzare l’idea che il “mondo di prima” non tornerà più.
Un Paese normale, all’epoca, ne avrebbe avuti una decina di Marchionne, forse anche un centinaio, era il momento di marchionnizzare l’intero Paese, nel senso di sottrarlo al familismo relazionale, ai nati con la camicia, ai nipoti con l’hobby della Parigi-Dakar, ai Gastoni Paperoni della concertazione al circolo o in tribuna d’onore
Un Paese normale, all’epoca, ne avrebbe avuti una decina di Marchionne, forse anche un centinaio, era il momento di marchionnizzare l’intero Paese, nel senso di sottrarlo al familismo relazionale, ai nati con la camicia, ai nipoti con l’hobby della Parigi-Dakar, ai Gastoni Paperoni della concertazione al circolo o in tribuna d’onore. Ci sarebbe stata la corsa a trovare questi Marchionne nelle università non-blasonate, in Italia o all’estero, ovunque crescevano talenti in grado di capire il prodotto, il mercato, le evoluzioni del capitalismo. E di sicuro ci sarebbe stato conflitto per le scelte di questi possibili Marchionne, ma magari il nostro acciaio, il nostro alluminio, i nostri scooter, i nostri computer, le nostre lavatrici, sarebbero ancora qui - erano settori relativamente più sani e remunerativi dell’auto, forse avrebbero potuto farcela – e anche i sindacati sarebbero stati obbligati ad aggiornarsi ai conflitti del mondo nuovo.
E magari qualche Marchionne, qualche outsider, qualche apolide di talento, sarebbe servito (e servirebbe ancora) anche alla politica che giocava con l'Alitalia e con l'Ilva come continua a giocarci adesso, confondendo manovre gradite agli establishment di turno per soluzioni magiche alle crisi aziendali, sempre con uno sguardo di riguardo al club degli insider e mai immaginando di poter cedere decisioni fuori dal perimetro del do-ut-des che è la regola del nostro asfittico sistema produttivo, ieri e pure ora che la rivoluzione è al potere, e debutta riciclando gli slogan sulla compagnia di bandiera – ricompriamocela! - o sull'ultimo acciaio che ci è rimasto in casa – rimettiamolo a bando! - confidando nella smemoratezza del Paese.
Ma di Marchionne ne abbiamo avuto uno solo. Ed è proprio la sua anomalia, la sua unicità, che ci mostra in controluce il provincialismo di quel che fu la nostra èlite industriale, e i limiti di tutto ciò che è venuto dopo, a cominciare dalla diffusa negazione del carattere epocale della crisi del 2008 – a destra perché i ristoranti erano comunque pieni, a sinistra perché la globalizzazione doveva essere per forza amica – per finire con la retorica pro o contro l’uomo forte: l’unico tratto del signor Marchionne che sembra essere stato percepito dal dibattito italiano, a destra per esaltarlo e a sinistra per condannarlo, ovunque senza capire che la forza in questa storia non c’entra nulla, è solo l’increspatura che lascia il sasso nello stagno.
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