Appare vano denunciare il pericolo di una eccessiva e crescente concentrazione di potere nelle mani di Casaleggio e Salvini, se non si prova neanche a giocare la partita dell'opposizione, come ha fatto sin qui il vecchio centrosinistra.
Un dato pare abbastanza certo: opporsi ai cosiddetti “populisti” in nome del “programma unico” imposto dalle tecnocrazie, dai vincoli europei creatori di crisi, dagli organismi economici internazionali, significa continuare a lasciar segnare a porta vuota l'attuale coalizione di governo pentaleghista, data nei sondaggi al 60%, dieci punti in più del 4 marzo, ma potenzialmente in grado di raccogliere fino ai due terzi dei consensi dell'elettorato, per mancanza di concorrenti credibili nel rappresentare gli interessi e le aspirazioni dei ceti medi e popolari. Per realismo si deve anche esser consapevoli che nell'attuale clima del Paese, definirsi “alternativi ai populisti”, se da un lato fa guadagnare le simpatie del mondo dei media e della cultura, dall'altro significa che l'elettore medio perlopiù percepisce un messaggio che suona alle sue orecchie all'incirca così: “questi, nella scelta di voto, li scartiamo a priori perché fanno politiche ostili ai nostri interessi”.
Non è un caso che persino l'establishment mostri qualche segnale di ripensamento. Come il recente editoriale sul Corriere della Sera di Galli della Loggia per rivalutare il concetto di “nazione” in opposizione al nazionalismo, che sa tanto di salvataggio in calcio d'angolo da parte di una classe dirigente che non ha alcuna idea nuova da proporre per fronteggiare il ritorno a protagonista politico della classe media e lavoratrice. Perché è di questo che si tratta. Quando la classe media in senso lato, piccola e media borghesia e ceti popolari, penalizzata e impoverita da anni di politiche neoliberiste, ri-scopre che recandosi in massa alle urne e votando in modo omogeneo, è maggioranza, può dettare l'agenda della politica. Ed è quello che sta succedendo in tutto l'Occidente a partire dal 2016, anno della Brexit e soprattutto dell'elezione di Trump, la quale ha dato a questo ribaltamento, o rivoluzione, una dimensione globale.
Si deve ripartire da qui. Il primo punto da chiarire è il seguente: la nuova agenda “sovranista” è migliore o peggiore di quella “globalista”?, rappresenta un pericolo per la democrazia o costituisce una straordinaria iniezione di vitalità per istituzioni democratiche che si sono prese la rivincita sul potere economico e finanziario che le stava esautorando? L'élite mondialista che controlla il sistema mediatico, ha promosso una lettura allarmistica, catastrofista di questa nuova fase politica, e ce la propina h24, in modo multimediale, mobilitando eserciti di opinionisti ed esperti, quasi sempre senza contraddittorio. Se si segue questa interpretazione bisogna solo esser consapevoli che essa porta dritto a risposte come il Fronte repubblicano di Calenda e un tale tipo d'opposizione è destinata a non toccar più palla per un bel po' e così oggettivamente finisce per esser complice della concentrazione di potere verso i leaders della “rivoluzione populista”.
L'altra risposta è quella di chi sostiene che ciò che è preoccupante non è lo scossone all'establishment, dato nelle urne dalla classe media delusa e sfruttata, bensì quello che stava andando avanti prima: disuguaglianze crescenti, impoverimento del lavoro e del popolo, austerità disumana e diseconomica, la Nato alterata in una alleanza aggressiva, una politica di irresponsabile provocazione verso la Russia che stava precipitando l'Europa in un conflitto nucleare. Insomma, un delirio d'onnipotenza, da parte di una oligarchia “sotto l’influenza di un potente «effetto Prometeo»”, come ha osservato il sociologo Mauro Magatti, dell'Università Cattolica, che aveva reciso elementari vincoli di responsabilità verso il resto dell'umanità, e che era sicura che niente, tanto meno la democrazia, ormai creduta devitalizzata, potesse più fermarla.
Se questa linea interpretativa è fondata, allora il secondo passo da fare è il seguente: i ceti medi medi e lavoratori, nella fase di loro maggior sofferenza sociale chi hanno trovato a sostenere il cambio delle priorità della politica, per passare dal primato della speculazione finanziaria a quello dello sviluppo diffuso, della ripresa della domanda interna? La risposta fa male a noi tutti, ma quell'elettorato ferito, spesso con il cuore a sinistra, sensibile alla solidarietà, ha trovato solo i “populisti”, perché il centrosinistra non c'era sulla frontiera del cambiamento, e se c'era era supremo garante del conformismo e della continuità col pensiero unico, con l'austerity, con le politiche deflattive imposte dall'Ue, che negli ultimi sette anni hanno notevolmente peggiorato la situazione economica e sociale del Paese. Occorre riconoscere gli errori, scusarsi con i propri elettori e imparare dagli sbagli compiuti.
Dunque, in conclusione, c'è bisogno di una opposizione che non si rassegni a stare in panchina ma che sappia giocare la sua partita entrando nel campo da gioco, non dell'avversario, che sarebbe scimmiottarlo, e, si sa, gli elettori tra la copia e l'originale preferiscono sempre l'originale, bensì entrare nel campo da gioco delineato dall'elettorato, dalla classe media, senza la quale non può esservi futuro per la democrazia. E qual è il perimetro che delimita questo campo di gioco? È il nuovo discorso politico che si sta affermando in conseguenza del voto delle classi medie occidentali: keynesismo al posto del monetarismo, dazi in misura necessaria alla tutela della dignità del lavoro al posto di una globalizzazione senza regole che livella al ribasso salari e diritti dei lavoratori, controllo delle frontiere e contrasto dell'immigrazione illegale, con umanità verso le sue vittime, recupero della sovranità, popolare, nazionale e ad ogni livello istituzionale nei confronti delle oligarchie economiche, multipolarismo anziché unilateralismo nelle relazioni internazionali. Tutti ingredienti di una possibile Coalizione per la domanda interna, capace di preparare una nuova stagione di sviluppo per il Paese, a cui anche i cattolici democratici e popolari possono dare un contributo significativo.
Compito di un'opposizione che voglia esser competitiva, è stare nel nuovo discorso politico, non il ripristino dell'agenda globalista. Anche a costo di perder per strada quei settori del campo riformatore ormai indissolubilmente legati all'establishment.
Un dato pare abbastanza certo: opporsi ai cosiddetti “populisti” in nome del “programma unico” imposto dalle tecnocrazie, dai vincoli europei creatori di crisi, dagli organismi economici internazionali, significa continuare a lasciar segnare a porta vuota l'attuale coalizione di governo pentaleghista, data nei sondaggi al 60%, dieci punti in più del 4 marzo, ma potenzialmente in grado di raccogliere fino ai due terzi dei consensi dell'elettorato, per mancanza di concorrenti credibili nel rappresentare gli interessi e le aspirazioni dei ceti medi e popolari. Per realismo si deve anche esser consapevoli che nell'attuale clima del Paese, definirsi “alternativi ai populisti”, se da un lato fa guadagnare le simpatie del mondo dei media e della cultura, dall'altro significa che l'elettore medio perlopiù percepisce un messaggio che suona alle sue orecchie all'incirca così: “questi, nella scelta di voto, li scartiamo a priori perché fanno politiche ostili ai nostri interessi”.
Non è un caso che persino l'establishment mostri qualche segnale di ripensamento. Come il recente editoriale sul Corriere della Sera di Galli della Loggia per rivalutare il concetto di “nazione” in opposizione al nazionalismo, che sa tanto di salvataggio in calcio d'angolo da parte di una classe dirigente che non ha alcuna idea nuova da proporre per fronteggiare il ritorno a protagonista politico della classe media e lavoratrice. Perché è di questo che si tratta. Quando la classe media in senso lato, piccola e media borghesia e ceti popolari, penalizzata e impoverita da anni di politiche neoliberiste, ri-scopre che recandosi in massa alle urne e votando in modo omogeneo, è maggioranza, può dettare l'agenda della politica. Ed è quello che sta succedendo in tutto l'Occidente a partire dal 2016, anno della Brexit e soprattutto dell'elezione di Trump, la quale ha dato a questo ribaltamento, o rivoluzione, una dimensione globale.
Si deve ripartire da qui. Il primo punto da chiarire è il seguente: la nuova agenda “sovranista” è migliore o peggiore di quella “globalista”?, rappresenta un pericolo per la democrazia o costituisce una straordinaria iniezione di vitalità per istituzioni democratiche che si sono prese la rivincita sul potere economico e finanziario che le stava esautorando? L'élite mondialista che controlla il sistema mediatico, ha promosso una lettura allarmistica, catastrofista di questa nuova fase politica, e ce la propina h24, in modo multimediale, mobilitando eserciti di opinionisti ed esperti, quasi sempre senza contraddittorio. Se si segue questa interpretazione bisogna solo esser consapevoli che essa porta dritto a risposte come il Fronte repubblicano di Calenda e un tale tipo d'opposizione è destinata a non toccar più palla per un bel po' e così oggettivamente finisce per esser complice della concentrazione di potere verso i leaders della “rivoluzione populista”.
L'altra risposta è quella di chi sostiene che ciò che è preoccupante non è lo scossone all'establishment, dato nelle urne dalla classe media delusa e sfruttata, bensì quello che stava andando avanti prima: disuguaglianze crescenti, impoverimento del lavoro e del popolo, austerità disumana e diseconomica, la Nato alterata in una alleanza aggressiva, una politica di irresponsabile provocazione verso la Russia che stava precipitando l'Europa in un conflitto nucleare. Insomma, un delirio d'onnipotenza, da parte di una oligarchia “sotto l’influenza di un potente «effetto Prometeo»”, come ha osservato il sociologo Mauro Magatti, dell'Università Cattolica, che aveva reciso elementari vincoli di responsabilità verso il resto dell'umanità, e che era sicura che niente, tanto meno la democrazia, ormai creduta devitalizzata, potesse più fermarla.
Se questa linea interpretativa è fondata, allora il secondo passo da fare è il seguente: i ceti medi medi e lavoratori, nella fase di loro maggior sofferenza sociale chi hanno trovato a sostenere il cambio delle priorità della politica, per passare dal primato della speculazione finanziaria a quello dello sviluppo diffuso, della ripresa della domanda interna? La risposta fa male a noi tutti, ma quell'elettorato ferito, spesso con il cuore a sinistra, sensibile alla solidarietà, ha trovato solo i “populisti”, perché il centrosinistra non c'era sulla frontiera del cambiamento, e se c'era era supremo garante del conformismo e della continuità col pensiero unico, con l'austerity, con le politiche deflattive imposte dall'Ue, che negli ultimi sette anni hanno notevolmente peggiorato la situazione economica e sociale del Paese. Occorre riconoscere gli errori, scusarsi con i propri elettori e imparare dagli sbagli compiuti.
Dunque, in conclusione, c'è bisogno di una opposizione che non si rassegni a stare in panchina ma che sappia giocare la sua partita entrando nel campo da gioco, non dell'avversario, che sarebbe scimmiottarlo, e, si sa, gli elettori tra la copia e l'originale preferiscono sempre l'originale, bensì entrare nel campo da gioco delineato dall'elettorato, dalla classe media, senza la quale non può esservi futuro per la democrazia. E qual è il perimetro che delimita questo campo di gioco? È il nuovo discorso politico che si sta affermando in conseguenza del voto delle classi medie occidentali: keynesismo al posto del monetarismo, dazi in misura necessaria alla tutela della dignità del lavoro al posto di una globalizzazione senza regole che livella al ribasso salari e diritti dei lavoratori, controllo delle frontiere e contrasto dell'immigrazione illegale, con umanità verso le sue vittime, recupero della sovranità, popolare, nazionale e ad ogni livello istituzionale nei confronti delle oligarchie economiche, multipolarismo anziché unilateralismo nelle relazioni internazionali. Tutti ingredienti di una possibile Coalizione per la domanda interna, capace di preparare una nuova stagione di sviluppo per il Paese, a cui anche i cattolici democratici e popolari possono dare un contributo significativo.
Compito di un'opposizione che voglia esser competitiva, è stare nel nuovo discorso politico, non il ripristino dell'agenda globalista. Anche a costo di perder per strada quei settori del campo riformatore ormai indissolubilmente legati all'establishment.
Sono completamente d’accordo
Lucidissimo e pungente conme sempre l’articolo di Davicino.Perché l’intelligenza spregiudicata non conquista la leadership dei partiti e ci dobbiamo sorbire segretari ad interim che condiscono di buonismo umanitario i diktat di un “sistema” prossimo alla sconfitta? E proprio poer questo ancor più pericoloso. Sulla Russia: a nessuno piace Trump, personalmente mi sento antropologicamente altro da un simile personaggio; eppure se avesse vinto la sua avversaria (quella della Libia tanto per intenderci..) forse oggi saremmo davvero sull’orlo di un conflitto dagli esiti imprevedibili con la Russia: paese con cui peraltro l’Italia ha sempre, anche negli anni del comunismo, mantenuto rapporti di cooperazione tanto da fare spesso da trait d’union fra Urali e sponda dell’Atlantico (leggere al riguardo un preziosissimo libro di Giulio Andreotti, lo scovai fortunosamente in bancarella, dal titolo Visti da vicino sui rapporti fra Italia e Russia/URSS nel dopoguerra).
Va precisato, “recupero della sovranità popolare, nazionale … nei confronti delle oligarchie economiche”. Che io traduco (sperando che Giuseppe condivida) in decide il popolo, e i suoi legittimi rappresentanti e non organismi internazionali non democratici; ma cessione di sovranità statale, ad uno Stato più grande che deve essere la Comunità Federale Europea (tutta da ricostruire e ripensare). Altrimenti restiamo ognuno ancorati alla vecchia divisione Statale del continente, non si costruirà l’Unione tanto auspicata dalla nostra generazione e soprattutto dai nostri padri; e conteremo sempre meno anche economicamente.
Ringrazio gli amici Andrea e Carlo per le osservazioni.
Andrea, giustamente, si chiede il perché di questo perdurante stallo dell’opposizione, credo soprattutto nel Pd. Oggi c’è un interessante editoriale di Giuliano Ferrara su Il Foglio in difesa del modello Macron. Questo è il punto, mai come in questa fase per capire l’immobilismo del Pd, e quale sarà il profilo dell’opposizione che emergerà fra qualchemese, occorre guadare alla Francia. Con una premessa: il Pd sin dalla sua fondazione non si è mai dato una linea, ma ha adottato la strategia dell’establishment globalista, della Clinton e di Obama, del monetarismo dell’Ue, che credeva fosse onnipotente e duratura. Renzi e Macron simul stabunt: entrambi creature delle élites concepite per confondere gli elettori. Ma la caduta del presidente francese è molto più roboante al punto da indurre i suoi potentissimi sponsor, Rothschild, le Monde e compagnia, a cambiare strategia. In barba alla “democrazia interna” quelli che davvero contano nel Pd, seppur lacerato fra pro e contro Renzi, stanno attendendo i segnali che arrivano dalle più potenti logge massoniche straniere. Il nuovo ordine di scuderia, impartito da venerabili maître à penser come Jacques Attali, già “inventore di Macron, non è più europeismo contro populismo, + Europa contro sovranismo, bensì globalismo nazionale, simil-populismo. L’input alla classe dirigente, ai media, al potere della cultura è quello di non lasciare la nazione ai nazionalisti, di promuovere la nascita di un movimento d’opinione e di una leadership “nazionale” in tutto simile ai nazionalisti, in modo da poter ingannare l’elettorato, fuorchè nelle politiche economiche e sociali, che devono restare quelle dell’agenda globalista. Basta leggere alcuni recenti editoriali come quelli di Galli della Loggia e Polito sul Corriere inneggianti alla cultura della nazione e al “prima l’Italia” per verificare che il tam-tam dalle logge transalpine si sta propagando nei gangli dell’establishment italiano.
Altrettanto cruciale la considerazione di Carlo che, certo, condivido. Ma l’obiettivo dell’Europa Unita sopravviverà all’egoismo tedesco? Per realizzare tale obiettivo, nella sostanza, addirittura già prima del prossimo rinnovo del parlamento europeo basterebbe accogliere le chiare e assolutamente realizzabili proposte di modifica dello Statuto della Bce, che circolano in Europa e che Paolo Savona ha rilanciato, per rendere la Bce prestatrice di ultima istanza, in modo da consentire politiche espansive, e per permetterle di intervenire sul controllo dei tassi di interesse fra Paesi dell’Eurozona, in modo da stroncare alla radice il problema dello spread.
Ma su questo l’opposizione della Germania è totale, granitica, viscerale. Ed è il vero, insormontabile, punto di rottura. Allora, caro Carlo, rimangono due vie praticabili. La prima è quella di chi dice: facciamo comunque l’Europa unita, costi quel che costi, alle attuali condizioni. Una posizione rispettabile ma con l’onere di dover convincere la maggioranza dei cittadini che ne saranno colpiti (la classe media), che la desertificazione e la spogliazione, privata e pubblica, economica, tecnologica e sociale dell’Italia è un prezzo che vale la pena di pagare per questo traguardo. Se tale persuasione non si verifica, questa linea è destinata a esser travolta nelle urne.
L’altra posizione è: primum vivere, salvare il salvabile, far respirare il Paese, rilanciandolo con o senza il consenso di Bruxelles. Certo che non è la soluzione ottimale e le altre potenze se ne avvantaggeranno a scapito dell’Europa. Ma il killer dell’Ue non è Trump, è l’establishment tedesco.
La Germania ha già distrutto due volte l’Europa militarmente nel secolo scorso. Lo sta per fare una terza volta sul piano economico e istituzionale: ne porterà la responsabilità davanti alla storia.
Un articolo di politica economica davvero suggestivo quello di Davicino che condivido pienamente. Il secondo intervento, però, mi ha fatto venire i brividi giacchè ho una figlia che vive in Germania ed ha sposato un tedesco. Spero vivamente che il ritratto sulla Merkel si riveli eccessivamente severo oppure Ella sia presto messa fuori gioco dalla politica avendo già causato guai non solo all’Europa ma anche ai suoi cittadini-
Anche io, come ha detto Giuseppe Ladetto, sono completamente d’accordo.
… Credo però che non ci siano né i presupposti né le persone perchè ciò accada.
Anzi…